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Dizionario biografico: Venusti-Viglioli

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VENUSTI LINA 
Collecchio 1885 c.-post 1924
Figlia del segretario comunale Quirino. insegnò a Collecchio per oltre vent’anni, iniziando il 14 settembre 1903. Dopo il suo lungo tirocinio a Collecchio, si trasferì a Parma col padre.
FONTI E BIBL.: U.Delsante, Dizionario collecchiesi, in Gazzetta di Parma 4 aprile 1960, 3.

VENUSTI QUIRINO 
Collecchio 1893/1924
Diresse gli uffici comunali di Collecchio dal 1 gennaio 1893 al novembre 1920. Nel maggio 1913 fu insignito della croce di Cavaliere della Corona d’Italia per i suoi lunghi e lodevoli servizi presso vari Comuni.
FONTI E BIBL.: U.Delsante, Dizionario collecchiesi, in Gazzetta di Parma 4 aprile 1960, 3.

VENZO SERGIO 1908-Parma 1978
Scienziato entusiasta e trascinatore, di solida formazione naturalistica, portò la scuola geologica parmense a un ruolo di primo piano a livello mondiale. Direttore dell’istituto di geologia dell’Università per molti anni, lasciò innumerevoli pubblicazioni. Partecipò anche a campagne di esplorazione geologica in Africa.
FONTI E BIBL.: A. De Marchi, Guida naturalistica, 1980, 171.

VERCELLI PIETRO PAOLO
-Parma 1593
Sacerdote, fu maestro di cappella e cantore nella chiesa della Steccata in Parma (25 settembre 1574-26 agosto 1575). Molti anni dopo venne eletto maestro di cappella della Cattedrale di Parma (1589). Morì prima del 5 novembre 1593: in sua vece in quel giorno fu nominato Paolo Ferrari.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, La cappella corale della Steccata nel secolo XVI, 33; Benefit. necnon benefitiat. Elenchus, fol. 70. (Archivio di Stato in Parma); N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 20.

VERDELLI CESARE
Zibello 1820-Parma 3 gennaio 1898
Fu medico, volontario nella guerra del 1848 nella 1a Colonna parmense. Si segnalò poi a Colorno e a Parma nelle epidemie di colera del 1855 e 1867, ricevendo dal Governo la Croce di Cavaliere e per due volte la medaglia di rame per i benemeriti della Sanità Pubblica. Fu membro del Consiglio del Protomedicato di Parma.
FONTI E BIBL.: A.Sanguinetti, in Gazzetta di Parma 6 gennaio 1895, n. 5; C. Beri-Pigorini, in Gazzetta di Parma 12 gennaio 1898, n. 11; G. Sitti, Il Risorgimento italiano, 1915, 59; U.A. Pini, Medici nel Risorgimento, 1960, 12.

VERDELLI ITALO
Zibello 1861-Recco 1928
Sottotenente di artiglieria nel ruolo tecnico nel 1910, divenne Colonnello nel 1915. diresse lo spolettificio di Torre Annunziata e il polverificio sul Liri. Brigadiere Generale e direttore della fabbrica d’armi di Brescia nel 1918 andò in posizione ausiliaria nel 1920 col grado di Generale di brigata. Nel 1926 fu promosso Tenente generale in aspettativa riduzione quadri.
FONTI E BIBL.: Enciclopedia militare, VI, 1933, 1406.

VERDELLI VITTORIO
Zibello 28 febbraio 1859-Adua 1 marzo 1896
Figlio di Emilio. Tenente dei bersaglieri, salpò nel 1885 per l’Eritrea con il primo corpo di spedizione italiano. Rimpatriato e promosso Capitano, ritornò in Eritrea nell’ottobre 1888 e a Saati gli venne affidato il comando della 11a compagnia del 1° battaglione Indigeno, che annoverava numerosi reduci dal vittorioso combattimento di Saganeiti. Il Verdelli ebbe la croce di Cavaliere della Corona d’Italia per la vittoriosa azione militare spiegata contro la banda ribelle del Iusbasci Asmac Abarrà (15 aprile 1892). Durante la guerra italo-etiopica prese parte alle battaglie di Agordat (22 dicembre 1893) e di Coatit (13-15 gennaio 1895), guadagnandosi sul campo, per le ripetute prove di valore fornite in quelle giornate trionfali per le armi italiane, due medaglie d’argento al valor militare, con le seguenti motivazioni: Battaglia d’Agordat, 21 dicembre 1893: Con rara fermezza ed energia tenne a lungo la sua compagnia sotto il fuoco del nemico, contribuendo strenuamente a difendere la batteria. Respinto due volte, riordinò e ricondusse all’assalto buona parte della sua compagnia, prendendo parte principale al ricupero dei pezzi. Inseguì ostinatamente il nemico fino al cadere del giorno; Battaglia di Coatit, 13-14-15 gennaio 1895: Il giorno 13 condusse energicamente all’assalto le due compagnie rimaste ai suoi ordini: contribuì validamente a respingere il nemico.Il 14, inviato in ricognizione colla propria compagnia e colle bande del Seraé, le guidò risolutamente all’assalto, e, respinto, seppe in breve riprendere la posizione da cui era partito. Nel novembre 1895 venne destinato alla III compagnia del III battaglione Indigeni di stanza a Massaua, quindi al VII battaglione di Valli, definito da Adolfo Rossi, dopo l’Amba Alagi, il più forte, ardito e meglio organizzato battaglione indigeno. Con questo reparto fu sempre agli avamposti e, avvenuta la defezione di Ras Sebatt e di Agos Tafari, batté senza sosta per i seguenti dieci giorni i nuclei ribelli allo scopo di disperderli. Mentre si trovava a Mai Meret, ricevette ordine dal governatore di Eritrea di unirsi con il suo reparto alla colonna Albertone ad Adua, che raggiunse dopo lunga e faticosa marcia. Nella celebre battaglia che poco dopo si accese tra Italiani e Ascari da una parte e Abissini dall’altra, agguerriti e numericamente superiori, si batté con indomito valore ed eroismo. Colpito al fianco destro da una pallottola, ricusò ogni assistenza per poter rimanere sul campo a incoraggiare i suoi Ascari con incitamenti e consigli. Raggiunto alla fine durante il ripiegamento delle truppe italiane dagli Abissini, fu massacrato alle falde del Monte Rajo. Alla memoria del Verdelli venne concessa una terza medaglia d’argento al valor militare (Battaglia di Adua, 1° marzo 1896: Si distinse per intelligenza e valore singolare nella prima fase del combattimento: ferito mortalmente eccitava i sui ad abbandonarlo per tornare a combattere). Il comune di Zibello, allo scoppio del secondo conflitto italo-etiopico, volle ricordare il Verdelli con un’iscrizione marmorea che fu scoperta il 4 novembre 1935 sul palazzo municipale. Anche Parma ne onorò la memoria in una lapide posta nell’atrio del palazzo civico.
FONTI E BIBL.: Ai prodi parmensi, 1903, 14-15. solesina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 480-481; G. Corradi-G. Sitti; Glorie parmensi nella conquista dell’Impero, Parma, Edizioni Fresching, 1937; Decorati al valore, 1964, 132-133.

VERDERI ARTURO
Parma 29 gennaio 1866-Milano 3 gennaio 1959
Studiò all’Accademia di Parma, sotto la guida di Cecrope Barilli e di Enzo Rondani. Dal 1889 si trasferì a Cividale del Friuli. Trattò il ritratto, gli interni e il paesaggio. Esordì a una mostra organizzata nel 1899 a Cividale, con alcuni ritratti, poi espose anche a Udine un autoritratto che, come altre sue opere, andò perduto durante l’invasione austriaca (1917). Altri suoi lavori notevoli sono: Nel Chiostro, Pastorella, Messe d’oro, Ragazza che torna dalla fonte, Interno del convento delle Orsoline, Ritratto della madre, Ritratto del padre, Lezione di piano, Lezione di violoncello, Autoritratto con la nipotina e altri ritratti, proprietà delle famiglie Molteni di Cantù e Forni di Gallarate. Fu premiato per la sua attività pittorica a Udine e a Gorizia. Fu insegnante nella Scuola professionale di Cantù. Dal 1889 al 1917 fu direttore della Scuola d’Arte di Cividale del Friuli.
FONTI E BIBL.: U.Thieme-F.Becker, künstler-Lexicon, 1940, XXXIV; A.M.Comanducci, Dizionario dei pittori, 1974, 3412; Dizionario Bolaffi pittori, XI, 1976, 296.

VERDI ANGELO
Busseto 28 luglio 1876-post 1910
Dal 1891 al 1896 studiò nel Regio conservatorio di musica di Parma tromba e canto. Dal 1910 fu insegnante di tromba e congeneri nel Conservatorio di Odessa.
FONTI E BIBL.: C.Alcari, Parma nella musica, 1931, 203.

VERDI CORILLA, vedi CASALI CORILLA

VERDI GIUSEPPE
Soragna 18 dicembre 1894-post 1947
Figlio di Ormisda e Maria Musa. Nel 1916 si diplomò in organo e composizione organistica nel Regio Conservatorio di musica di Parma. Il 23 aprile 1923 fu nominato maestro della scuola di musica e direttore della banda di Fiorenzuola d’Arda, dove rimase fino all’11 ottobre 1926, data della sua nomina a insegnante di teoria, solfeggio, canto e canto corale all’Istituto musicale G. Nicolini di Piacenza.Diresse concerti al Teatro Verdi di Fiorenzuola nel 1936 e 1947 e a Piacenza nel 1946.
FONTI E BIBL.: C. Alcari, Parma nella musica, 1931, 203; B. Colombi, Soragna. Feudo e comune, 1986, II, 303.

VERDI GIUSEPPE FORTUNINO FRANCESCO
Roncole di Busseto 10 ottobre 1813-Milano 27 gennaio 1901
La famiglia del Verdi esercitava attività di piccolo commercio: il padre Carlo gestiva alle Roncole una piccola osteria e rivendita di vini e altri generi, così come, in un villaggio vicino, la famiglia della madre, Luigia Uttini. Oltre al Verdi la coppia ebbe una figlia, Giuseppa Francesca, mentalmente ritardata, che morì sedicenne nel 1833. Le prime notizie sulla vocazione musicale del Verdi riguardano le lezioni impartitegli fin dal 1816 dal locale organista, don Pietro Baistrocchi, che come d’uso svolgeva anche attività di maestro ai bambini. Si conserva la prima spinetta del Verdi riparata gratuitamente nel 1821 dall’artigiano Stefano Cavalletti vedendo la buona disposizione che ha il giovinetto Giuseppe Verdi d’imparare a suonare questo strumento. Alla morte di Baistrocchi (1822), il Verdi fu in grado di svolgerne le mansioni di organista nelle funzioni religiose. Nel 1823 il padre acconsentì, forse controvoglia, a che il Verdi si stabilisse a pensione nella vicina Busseto per proseguire gli studi musicali con Ferdinando Provesi, organista della locale collegiata e direttore della scuola di musica municipale. Era probabilmente già entrata nella vita del Verdi la figura fondamentale di Antonio Barezzi, facoltoso grossista e buon dilettante di vari strumenti, presidente e mecenate della Società filarmonica di Busseto, che il Verdi considerò sempre come un secondo padre. Per la Filarmonica, diretta da Provesi, il Verdi fece le sue prime prove come compositore scrivendo una grande quantità di marce, sinfonie, concerti e musica vocale sacra e profana. Dal 1823 il Verdi frequentò con profitto anche il locale ginnasio, tenuto dai Gesuiti, dove ricevette gli elementi basilari di una formazione umanistica, e continuò a svolgere il servizio domenicale di organista alle Roncole. Nel 1831 Barezzi prese in casa propria il Verdi, che ben presto intrecciò un legame sentimentale colla maggiore delle sue figlie, Margherita. Barezzi fu determinante anche per il successivo passo della carriera del Verdi, il trasferimento a Milano onde completarvi gli studi nel locale Conservatorio: si adoperò per fargli ottenere una borsa di studio quadriennale del Monte di pietà di Busseto (fu necessario ricorrere alla duchessa Maria Luigia d’Austria), poi, non potendosi ottenere tale borsa prima di un anno, anticipò di persona la somma necessaria. Nel giugno 1832 il Verdi si recò a Milano per sostenere l’esame di ammissione al conservatorio come alunno interno, ma fu respinto perché straniero, perché superava di quattro anni il limite di età e per la difettosa impostazione pianistica: Barezzi si assunse allora l’onere assai gravoso di mantenere il Verdi a Milano perché svolgesse i suoi studi privatamente. Fu scelto come maestro Vincenzo Lavigna, buon contrappuntista di scuola napoletana del sostituto al Teatro alla Scala. Questi impose al Verdi, oltre agli usuali esercizi di contrappunto, l’analisi di partiture anche moderne da prendere a noleggio e la frequentazione degli spettacoli teatrali. Alla fiducia di Barezzi il Verdi corrispose accelerando al massimo gli studi: pur non avendoli ancora terminati, tornò già nel 1834 a Busseto per concorrere al posto di maestro di musica comunale restato vacante per la morte di Provesi. Il posto gli fu però assegnato solo all’inizio del 1836, dopo un lungo conflitto con le autorità ecclesiastiche che vollero assegnare a un altro la carica, tradizionalmente unita alla prima, di organista della collegiata. Nel frattempo il Verdi proseguì gli studi con Lavigna, si introdusse nella società aristocratica milanese, dove aveva esordito casualmente come direttore de La creazione di Haydn, e rinunciò a concorrere a un favorevole posto di organista nella Cattedrale di Monza. Gli anni 1836-1839 furono segnati dal ritorno a Busseto, dalla ripresa attività di compositore per la Filarmonica, dal matrimonio con Margherita Barezzi (4 maggio 1836) e dalla nascita dei due figli, poi prematuramente scomparsi: Virginia e Icillo. Ma le ambizioni del Verdi erano evidentemente rivolte a Milano. Durante il periodo bussetano lavorò alla sua prima opera, variamente designata come Lord Hamilton o Rocester (non è ancora chiaro se si trattasse della stessa opera), poi divenuta Oberto, conte di San Bonifacio. Prima ancora che scadesse l’impegno triennale col comune di Busseto il Verdi si trasferì a Milano con la moglie e il figlio superstite e il 17 novembre 1839 l’Oberto andò in scena alla Scala con un successo tale da indurre l’impresario Bartolomeo Merelli ad affidargli come seconda opera un libretto buffo di F. Romani risalente al 1818, Il finto Stanislao, ribattezzato Un giorno di regno. La composizione fu funestata dalla morte di Margherita Barezzi (18 giugno 1840): sia perché questo motivo influì negativamente sulla volontà del Verdi, sia per il carattere antiquato del libretto, Un giorno di regno cadde all’unica rappresentazione del 5 settembre 1840. Seguì per il Verdi un periodo di abbattimento, durante il quale fu tentato di abbandonare la composizione. Solo la fiducia di Merelli, che si ostinò ad affidargli il libretto del Nabucco, valse a farlo recedere dal suo proposito. La composizione procedette rapidamente e l’opera andò in scena alla Scala nel marzo 1842 con strepitoso successo. all’esecuzione prese parte Giuseppina Strepponi, brillante soprano dal burrascoso passato sentimentale, in declino e in procinto di ritirarsi, che aveva già favorito la rappresentazione di Oberto e che ebbe poi gran parte nella vita del Verdi. Il Nabucco rappresentò per il Verdi l’inizio di una carriera trionfale ma anche defatigante. Nel 1818 definì anni di galera i sedici trascorsi dal Nabucco, espressione riferita solo alla quantità del lavoro svolto e non, come spesso si è intesa utilizzarla, alla qualità di esso, che va da opere mediocri a capolavori sommi. Negli anni 1843-1846 il Verdi mirò a conquistarsi le principali piazze d’Italia scrivendo ben sei opere, per Milano (I lombardi alla prima crociata, 1843; Giovanna d’Arco, 1845), venezia (Ernani, 1844; Attila, 1846), Roma (I due Foscari, 1844) e Napoli (Alzira, 1845), senza contare le riprese curate personalmente. Tale frenesia (d’altronde relativa, per le abitudini dell’epoca) era inevitabile per un giovane compositore che volesse mantenere le posizioni conquistate e grazie a essa il Verdi pose le basi della sua indipendenza economica passando dal compenso di 2000 lire austriache assegnatogli per l’Oberto alle 12000 accordategli per l’Ernani e alle 18000 per l’Attila. Stabilì, per lo sfruttamento commerciale delle sue opere, il rapporto con l’editore Ricordi che durò fino alla morte e impose un nuovo stile nel rapporto tra compositore, imprese, cantanti, librettisti e censure, a tutto vantaggio del primo per quanto concerneva l’affermazione della volontà artistica. Il Verdi svolse perciò un ruolo fondamentale nella storia del compositore italiano, che si può paragonare a quello di Beethoven in Germania, realizzando il passaggio da una condizione artigianale a una professionale e affermando coll’esempio l’idea del diritto d’autore nell’opera, che venne poi legalmente riconosciuto nella seconda metà del secolo. Il 1847 fu anno decisivo per molti aspetti. In marzo andò in scena a Firenze il macbeth, opera-chiave non solo perché rappresentò il primo incontro del Verdi con shakespeare, ma anche per l’eccezionale impegno profuso nella sua composizione e nella sua messinscena. Subito dopo il Verdi concretò il disegno, da tempo accarezzato, di affermare la propria presenza sul piano internazionale. Per Londra (luglio) scrisse I masnadieri, per Parigi (novembre) Jérusalem, adattamento in forma di grand opéra dei Lombardi (già per l’Attila il Verdi aveva progettato una simile trasformazione). A Parigi il Verdi risiedette, con alcune interruzioni, fino all’agosto 1849, senza dubbio beneficiando del clima intellettuale della città. Ivi riallacciò la conoscenza con giuseppina Strepponi, nel frattempo ritiratasi dalle scene, che si tramutò ben presto in uno stabile legame destinato a durare tutta la vita (il matrimonio fu celebrato nel 1859). La nuova esperienza parigina si avverte già nel linguaggio delle opere scritte in questo periodo, prima Il corsaro, commissionata dall’editore Lucca di Milano e rappresentata, senza l’intervento del Verdi, a Trieste nell’ottobre 1848. Gli avvenimenti italiani del 1848-1849 furono seguiti dal Verdi con tesa partecipazione. Già nel Nabucco aveva, quasi casualmente, saggiato la presa del tema patriottico sul pubblico di quegli anni e con piena coscienza l’aveva riproposto nei Lombardi, in Ernani e in Attila. Nel frattempo il suo iniziale disinteresse per la vita politica si tramutò, frequentando i più avanzati circoli milanesi (in particolare il salotto della contessa Clara Maffei, moglie del poeta andrea) in piena adesione alla causa risorgimentale, con una netta propensione per le idee mazziniane e repubblicane. Il contributo del Verdi al clima di quei giorni fu essenzialmente artistico: richiestone da Mazzini, compose un inno rivoluzionario su parole di G. Mameli, poi vagheggiò di scrivere un’opera tratta da l’Assedio di Firenze di Guerrazzi. Il progetto fu però accantonato in favore de La battaglia di Legnano, che mise in scena personalmente a Roma nel gennaio 1849, nell’atmosfera arroventata della Repubblica retta dal triumvirato. Un precedente soggiorno italiano compiuto subito dopo le cinque giornate di Milano (aprile 1848) non ebbe invece scopi politici: in maggio il Verdi acquistò la tenuta di Sant’Agata, a pochi chilometri da Busseto, chiaro segno della sua volontà di tornare in Italia. Nell’agosto 1849, esauritasi l’ondata rivoluzionaria europea, il Verdi si stabilì infatti a Busseto, nel palazzo Dordoni da lui acquistato fin dal 1845, dove poco dopo lo raggiunse la Strepponi. Il soggiorno nella cittadina si rivelò ben presto difficile: i Bussetani fecero pesare il loro presunto credito nei confronti del Verdi che avevano fatto musicista (a torto, perché la borsa di studio era dovuta per legato e inoltre il Verdi poté ben ribattere di aver già pagato il suo debito portando il nome di Busseto nel mondo) e non nascosero il loro scandalo per un’unione non legalizzata. Il Verdi si sottrasse al clima di pettegolezzo trasferendosi, dopo il 1851, a Sant’Agata, dove si era fatto costruire una villa che andò progressivamente ampliando negli anni successivi. A Busseto il Verdi mantenne rapporti con poche persone, tra le quali A. Barezzi, l’unico con cui si sentisse realmente in debito e che dopo qualche malinteso accettò come una nuova figlia la Strepponi. Da questo momento il Verdi fu, oltre che musicista, un proprietario terrierio che seguì con passione la produzione delle sue tenute, creando così l’immagine divulgata dell’artista contadino (in realtà aveva fino ad allora piuttosto dimostrato di voler far dimenticare le sue origini campagnole divenendo un cittadino a pieno titolo). nonostante queste difficoltà umane (alle quali si aggiunsero i difficili rapporti col padre e la morte, nel 1851, della madre) il periodo 1849-1853 fu tra i più felici dal punto di vista creativo: dopo due opere, Luisa Miller (Napoli, 1849) e Stiffelio (Trieste, 1850), importanti per la ricerca di nuove ambientazioni e di forme musicali più variate, vennero alla luce le tre opere destinate a consacrare la fama del Verdi e considerate da molti il culmine della sua produzione: Rigoletto (Venezia, 1851), Il trovatore (Roma, 1853) e La traviata (Venezia, 1853). La caduta di quest’ultima, dovuta forse più alla composizione di canto che all’audacia del soggetto, venne riscattata l’anno successivo nella stessa città. Parallela alla creazione dei tre capolavori scorse la vicenda di un Re Lear mai realizzato ma oggetto di estenuanti discussioni coi librettisti Salvatore Cammarano prima e Antonio Somma poi. Il prestigio europeo del Verdi fu consolidato dalla rappresentazione nel tempio parigino dell’Opéra di Les vèpres siciliennes (giugno 1855). A Parigi il Verdi risiedette quasi ininterrottamente dalla fine del 1853 all’inizio del 1857. Il ritmo creativo si fece più lento e meditato: nel 1857 apparvero a Venezia (marzo) Simon Boccanegra, opera problematica, oggetto di costanti preoccupazioni, e a Rimini (agosto) Aroldo, rifacimento di Stiffelio, che tentava di ovviare alle difficoltà di circolazione di quest’ultimo dovute alla censura: né l’una né l’altra opera suscitarono entusiasmo. Per l’ultima volta il Verdi subì pesantemente le vessazioni delle censure preunitarie nel 1858, cercando di mettere in scena a Napoli Una vendetta in domino: dopo un lungo braccio di ferro l’opera venne ritirata e andò in scena a Roma, col titolo, restato poi definitivo, di Un ballo in maschera, nel febbraio 1859. Ancora una volta le vicende politiche distolsero il Verdi dal teatro: alla seconda guerra d’indipendenza contribuì acquistando fucili per i volontari e organizzando collette per le famiglie dei caduti. Le idee mazziniane avevano ceduto, come in molti della sua generazione, all’accettazione della monarchia sabauda e a un avvicinamento alle posizioni della Destra storica, congiunti a una personale ammirazione per Cavour. Ciò gli permise di accettare l’elezione a deputato di Borgo San Donnino nel primo parlamento italiano, carica che esercitò con scrupolo, trasferendosi a Torino fino alla morte dello statista. Il decennio 1861-1871 vide un ulteriore rallentamento del ritmo produttivo. Le nuove opere furono destinate prevalentemente a grandi teatri stranieri, i soli che potessero far fronte alle richieste economiche del Verdi e assicurargli realizzazioni soddisfacenti: per Pietroburgo fu scritta La forza del destino (1862), per Parigi il rifacimento del Macbeth (1865) e il Don Carlos (1867) e per il Cairo Aida (1871), commissionata dal Khedivè d’Egitto come opera di celebrazione nazionale. Solo alla fine del decennio il Verdi riallacciò rapporti con la Scala, alla quale destinò la revisione de La forza del destino (1869) e quella che egli considerò la vera prima dell’Aida (1862). Sul piano personale furono anche questi anni difficili: una consolidata amicizia col direttore Angelo Mariani si ruppe per una serie di malintesi e di gelosie professionali, e il matrimonio con giuseppina Strepponi attraversò un periodo di crisi in cui ebbe una parte non chiarita l’ammirazione del Verdi per il soprano Teresa stolz. Più di tutto amareggiarono il Verdi le accuse di passatismo rivoltegli dal gruppo di giovani musicisti scapigliati, culminanti nel ben noto brindisi di Arrigo Boito che nel 1863 lo invitò a uscire dalla cerchia del vecchio e del cretino. Mentre Boito e i suoi compagni propugnavano la superiorità della musica strumentale tedesca, cominciò la diffusione in Italia delle idee e delle opere wagneriane, cui proprio Mariani contribuì dirigendo nel 1870, a Bologna, la prima italiana del Lohengrin. Il Verdi reagì esaltando in più occasioni la validità dell’antica tradizione vocale italiana (risale appunto a questo periodo la nota esortazione torniamo all’antico e sarà un progresso, spesso citata indebitamente dato che nel contesto originale si riferisce a problemi didattici). Fu senza dubbio la situazione creatasi a determinare la più lunga pausa, sedici anni, di tutta la sua carriera operistica, rotta solo da due lavori di diversa importanza: un Quartetto (1873), scritto quasi per puntiglio, e la Messa da requiem (1874). Quest’ultima era stata progettata fin dal 1868 come opera collettiva per celebrare l’appena scomparso Rossini (Verdi ne scrisse il Libera me). Fallito il progetto, il Verdi lo riprese e completò per onorare la memoria di Manzoni, scrittore che aveva sempre venerato ma che solo negli ultimi anni aveva personalmente accostato. Con il Requiem il Verdi si impose al rispetto dell’opinione musicale dei paesi tedeschi, anche grazie a una serie di tournée in cui lo diresse personalmente. Per il resto il Verdi divise i suoi anni tra Sant’Agata, dove seguì con crescente passione la produzione agricola e realizzò opere filantropiche (agli anni Ottanta risale la fondazione dell’ospedale rurale di Villanova d’arda), e Genova, dove trascorreva gli inverni. A partire dal 1878-1879 la situazione, anche familiare, si tranquillizzò. Il non più giovane Boito, reduce dalla clamorosa caduta e resurrezione di Mefistofele, rese i dovuti omaggi al Verdi cercando di far dimenticare le intemperanze di un tempo (che il Verdi aveva per la verità alquanto enfatizzato). Un altro ex scapigliato, Franco Faccio, divenne il direttore di fiducia del Verdi. Fu però necessaria l’abilissima diplomazia di Giulio Ricordi per convincere il Verdi a superare l’antica diffidenza e a prendere in considerazione il progetto, abbozzato da Boito, di un Otello, che veniva incontro al suo desiderio, mai abbandonato, di cimentarsi col teatro shakespeariano. La realizzazione del libretto e della partitura procedette con una lentezza e una cura quali il Verdi non aveva dedicato a nessuna opera precedente e fu interrotta due volte per dar luogo a due rifacimenti da tempo nel cuore del Verdi: il Simon Boccanegra (1881), cui lo stesso Boito collaborò, e Don Carlo (1884). Finalmente il 5 febbraio 1887 l’Otello andò in scena alla Scala, suscitando l’ammirazione dell’intera Europa musicale per il rinnovamento linguistico di cui il Verdi si dimostrò capace e mettendo a tacere chi lo aveva considerato ormai finito. Ma il Verdi volle ancora vincere la scommessa di riuscire a scrivere un’opera comica, facendo rivivere una tradizione che si voleva morta con rossini: nel 1893, utilizzando di nuovo la connessione Shakespeare-Boito, l’ottantenne Verdi ripeté alla Scala, col Fastaff, il trionfo di sei anni prima. Gli ultimi anni trascorsero abbastanza sereni, nonostante la perdita di Giuseppina Strepponi (1897) e di molti vecchi amici, compensata però dall’ormai assidua vicinanza di Boito. Pur avendo abbandonato il teatro il Verdi ebbe ancora modo di comporre un breve balletto e alcune varianti per la prima parigina di Otello (1894, contemporaneamente al Falstaff) e la serie dei Quattro pezzi sacri pubblicati nel 1898. Ma si dedicò soprattutto a quella che egli chiamò la sua opera più bella: l’edificazione della Casa di riposo per musicisti di Milano, alla quale destinò una parte della sua cospicua eredità. La morte sopravvenne, dopo una settimana di agonia, per ictus cerebrale. La salma fu deposta al Cimitero monumentale di Milano e dopo una settimana fu trasportata con solenni onoranze, insieme a quella di Giuseppina strepponi, nella cappella della Casa di riposo. Più volte nel corso della sua vita il Verdi tentò di accreditare un’immagine di se stesso come compositore venuto dal nulla, refrattario a ogni influenza esterna e culturalmente vergine, fino a creare l’idea di una sua ignoranza generale e particolarmente musicale. Tale atteggiamento fu una reazione alle accuse che gli vennero mosse, non appena ebbe raggiunto fama europea, di essere stato influenzato dalle esperienze straniere contemporanee e quindi dal desiderio di motivare la propria originalità. Ma la realtà non coincide coll’immagine che egli volle lasciare di sé. Se è vero che il Verdi non fu un musicista intellettuale (nel senso in cui lo furono Schumann, Wagner o in Italia, Boito), non fu però mai neppure del tutto schillerianamente naïf, incurante di una riflessione sulla propria arte. La sua posizione è anche in questo paragonabile a quella di Beethoven, musicista di formazione tradizionalmente artigianale ma costantemente aspirante a motivare la propria attività anche attraverso l’acquisizione di strumenti culturali non posseduti in origine (è poi del tutto e irrilevante che tale riflessione non fosse esposta sistematicamente, dato che di essa e della sua evoluzione resta abbondante traccia in quanto è disponibile dell’epistolario verdiano). Il terreno sul quale l’arte verdiana trovò il suo primo nutrimento è naturalmente quello della tradizione operistica italiana del primo ottocento: Rossini, Donizetti (coi quali il Verdi intrattenne rapporti personali), Bellini e, in misura ancora difficilmente valutabile, mercadante, Pacini e altri minori (questi però sentiti dal Verdi come un attardamento classicheggiante che conduceva alla degenerazione di un Petrella). È importante notare che per il Verdi questi autori erano i rappresentanti di una tradizione specificamente italiana, fondata sul predominio della vocalità, che egli contrappose a quella strumentale tedesca. Da tale tradizione il Verdi poté risalire direttamente alle radici tardo-settecentesche (il suo maestro lavigna era stato intimo di Paisiello e d’altronde opere di quel periodo erano ancora in repertorio quando esordì). In seguito e stese tale tradizione risalendo al primo Settecento (A. Scarlatti, Lotti, Pergolesi, soprattutto B. Marcello), al Seicento (Carissimi) e al cinquecento (soprattutto il mitico Palestrina). È difficile dire quanto di questi autori il Verdi conoscesse direttamente, almeno in gioventù, e quanto essi facessero parte di una costruzione metastorica.È però certo che egli seguì con curiosità le scoperte musicologiche del secondo Ottocento e che l’immagine idealizzata della antica musica italiana si avverte in parti del Requiem, nel Pater noster e nell’Ave Maria (1880) e nei Quattro pezzi sacri (1898). È curioso, ma logico, che il Verdi rimuovesse l’esistenza di una tradizione strumentale italiana, benché fin dalla giovinezza gli fossero note direttamente alcune sonate di D. Scarlatti e tutta l’opera di Corelli (che mostrò di apprezzare altamente, ma evidentemente sotto l’aspetto della didattica contrappuntistica). Ma una tradizione puramente musicale non potè dare alimento a un fenomeno complesso e, nella sua unità di fondo, variegato qual è il teatro verdiano. Tale alimento dovette giungere dal mondo extra-musicale e in primo luogo dagli ambienti letterari del Romanticismo lombardo. La venerazione per Manzoni fu solo una manifestazione saliente della sua frequentazione dei salotti colti milanesi degli anni Quaranta. Qui il Verdi poté risentire gli echi delle polemiche d’avanguardia di una ventina di anni prima, quali, in campo teatrale, quelle suscitate dalle tragedie di Manzoni e dalla sua Lettre a M. Chauvet, poté prendere coscienza della connessione tra ricerca artistica e impegno civile, poté infine aumentare la sua conoscenza del patrimonio teatrale e letterario europeo, la familiarità col quale faceva già parte del suo mestiere di operista alla ricerca di nuovi soggetti. Ad autori quali Schiller, Byron, Shakespeare (per il quale proclamò sempre la più incondizionata ammirazione), il Verdi poté accedere grazie alla mediazione di amici traduttori quali Andrea Maffei e Giulio carcano o ancor più, come è accertato per shakespeare, attraverso le traduzioni di Michele Leoni e di Carlo Rusconi, il quale gli fornì a sua volta le coordinate della migliore critica romantica, A.W. von Schlegel (di cui il Verdi conobbe le fondamentali lezioni sull’arte drammatica apparse in traduzione nel 1817) e la Staël (dal cui saggio De l’Allemagne trasse l’idea di Attila, compreso il suggerimento di ricavare i costumi dagli affreschi vaticani di raffaello). In questi ambienti il Verdi ebbe anche i primi contatti con la cultura francese, poi approfonditi durante i vari soggiorni parigini, e per tutta la vita, tra amore e odio, il Verdi guardò a Parigi come al vero crocevia, quale era, della cultura europea. Nel 1843 non erano ancora spenti i clamori suscitati dalla prima di Hernani (1830) e l’entusiastica scelta del soggetto di Hugo per la Fenice fu il segno di una cosciente adesione alle idee che esso rappresentava. Da allora in poi Hugo (e i suoi seguaci spagnoli) e in genere il teatro francese furono oggetto della costante attenzione del Verdi. Il corrispettivo musicale del teatro romantico francese fu naturalmente il grand opéra, che la coppia Scribe-Meyerbeer aveva imposto alla ribalta internazionale coi successi folgoranti di Robert le Diable (1831) e Les Huguenots (1836). La concezione drammatica della maggior parte delle opere del Verdi è apparentemente opposta a quella di meyerbeer, fatta di quadri accostati senza vera organicità. Ciò non gli impedì di subirne l’influenza, non solo nei due grands opéras (Les vepres siciliennes e Don Carlos) ma in tutta la sua produzione, sul piano del gusto spettacolare (La forza del destino), dei gusto per il caratteristico e per il frivolo, della concezione ritmica e armonica, ma soprattutto nell’idea del compositore che sovrintende alla globalità dello spettacolo operistico. Gli furono poi ben noti autori quali Halévy, Auber (da cui ricavò il soggetto di Un ballo in maschera) e F. David (del cui Le Désert si ricordò nell’Attila e persino nei tardissimi balletti parigini per Otello). Dopo il tramonto della fortuna del grand opéra il Verdi seguì con occhio vigile l’evoluzione dell’opera francese segnata dai lavori di Gounod, Bizet (una citazione della Carmen appare ancora nei balletti di Otello) e massenet. Sul versante non teatrale il Verdi mostrò sempre interesse, se non ammirazione, per la figura di Berlioz, le cui concezioni sonore hanno lasciato tracce evidenti nel Requiem. Su un altro versante si colloca il rapporto del Verdi con la tradizione dei classici viennesi, non certo ignota ai musicisti italiani di formazione più europea. Per il Verdi ci sono precise testimonianze: lo studio accanito fatto con Lavigna del Don Giovanni, l’esordio nel 1834 come concertatore della Creazione, il curriculum di studi imposto all’allievo Emanuele Muzio (certo ricalcato sul proprio) che comprende, oltre a Haydn e a Mozart, Beethoven e Schubert, e l’ammirazione più volte ribadita per le sinfonie di Beethoven. Se negli anni Sessanta il Verdi lasciò circolare dichiarazioni infastidite sulla Nona, esse nascevano, oltre che dalla consueta polemica sul carattere non vocale della musica tedesca, dal malumore per la feticizzazione che di quel capolavoro veniva fatta dai suoi giovani contestatori. Proprio in mezzo a quelle polemiche nacque il Quartetto per archi, del quale il Verdi asserì non a caso: Sia bello o brutto non so. So però che è un quartetto! Anche nei riguardi della musica romantica il Verdi fu più attento di quanto non volessero far credere le sue tirate su Mendelssohn, Schumann e Chopin.Tutti questi autori furono presenti nella sua biblioteca e di essi il Verdi ebbe forse più diretta conoscenza grazie all’amicizia con Ferdinand Hiller (un’eco di Mendelssohn si avverte d’altronde nell’ultimo quadro del Falstaff). Infine il Verdi conobbe abbastanza presto i principali lavori teatrali di Weber. Tutto ciò porta a chiedersi in che misura il tardo Verdi subì l’influenza di wagner. Fin da quando l’opera del tedesco cominciò ad affermarsi sulla scena internazionale il Verdi nei seguì gli sviluppi, giungendo a leggerne i testi drammatici e le opere teoriche nella traduzione francese: è nota l’attenzione con cui seguì, spartito alla mano, la prima bolognese del Lohengrin. Il giudizio del Verdi su Wagner fu a lungo diviso tra la differenza a una cautela superiore a quella dimostrata dai suoi corrispondenti. Solo dopo la morte di Wagner il Verdi si abbandonò a un aperto riconoscimento della sua grandezza, pur ribadendo la sua non assimilabilità al gusto italiano (in questo non subì l’influenza di Boito, il cui wagnerismo non andò mai oltre il lohengrin). Placate le polemiche che agitarono il mondo culturale fino al 1914, superata la prospettiva limitata di chi vedeva un cedimento a Wagner in ogni ispessimento dell’orchestra (e il Verdi subì questa accusa per il Don Carlos e per l’Aida), si può dire che se il Verdi subì l’influenza wagneriana non fu sul piano della drammaturgia né su quello del linguaggio musicale, ma nello stimolo all’autoriflessione e nella sfida che il sentirsi superato imponeva al suo orgoglio e che lo spinse a tornare sulle scene dopo sedici anni di silenzio. In questo particolare senso si può dire di essere debitori a Wagner dell’Otello e del Falstaff. In tarda età il Verdi rifiutò l’appellativo di compositore asserendo di essere piuttosto un uomo di teatro. Questa definizione, purgata dell’usuale polemica nei confronti della musica pura d’oltralpe, fornisce la chiave per la piena comprensione dell’arte verdiana, stabilendo la corretta gerarchia tra i due mezzi espressivi che concorrono a dare vita a un melodramma: l’azione drammatica e la struttura musicale. Secondo un luogo comune, però non sufficientemente verificato, nel melodramma settecentesco (compresavi anche la produzione rossiniana) l’intreccio drammatico era solo un pretesto per un’invenzione musicale.Più vicina alla realtà è l’idea che nell’opera settecentesca l’ideazione del discorso drammatico fosse di pertinenza del librettista, che lo realizzava prevalentemente nelle zone recitative lasciando al compositore il compito di fornire risonanza sentimentale alle zone liriche (arie), poi, verso la fine del Settecento e particolarmente nell’opera buffa, di impostare la dinamica dell’azione nei pezzi d’assieme. Ma nei compositori che fiorirono nel ventennio 1820-1840 si manifestò sempre più chiara la tendenza a rendersi responsabili in prima persona dello spettacolo melodrammatico in tutte le sue componenti, riducendo progressivamente la figura del librettista a un ruolo subalterno e funzionale. Il Verdi, favorito dal cambiamento di situazione sociale e culturale avvenuto nel corso di un arco creativo eccezionalmente lungo, portò a compimento questa tendenza realizzando compiutamente la figura del compositore-drammaturgo. Ciò si rivela con piena evidenza nella storia dei rapporti tra il Verdi e suoi librettisti, infiorata di aneddoti più o meno veritieri tutti intesi a dimostrare la ferrea dittatura esercitata dal Verdi sui suoi collaboratori. Dopo le primissime opere, il Verdi non accettò più di musicare libretti già confezionati e pretese, non sempre con eguale successo, che i librettisti si riducessero a meri facitori di versi per le strutture drammatiche da lui volute. Del resto, prima ancora che le teorie wagneriane si diffondessero in Italia, Cammarano espresse al Verdi l’auspicio che poeta e compositore giungessero a essere la stessa persona e occasionalmente, per esempio per il rifacimento parigino di Macbeth, il Verdi si cimentò personalmente alla stesura dei versi. Ma più rivelatrici sono a questo proposito le corrispondenze relative alla genesi di opere quali Il trovatore e Aida, dove il Verdi inviò al librettista abbozzi di scene già quasi verseggiate che si discostano solo in particolari da quella che fu poi la redazione definitiva. Deriva da ciò il rovesciamento di giudizio sul più assiduo dei librettisti verdiani, francesco Maria Piave, già vituperato come pessimo verseggiatore e poi apprezzato per la sua eroica capacità di annullarsi di fronte alla volontà del Verdi, il quale del Rigoletto asserì trattarsi di uno dei più bei libretti, salvo i versi, che vi sieno. Il che prova come il Verdi distinguesse chiaramente tra i meriti drammatici e quelli letterari di un libretto e chiarisce che la maggior parte dei giudizi negativi deriva da una confusione tra i due piani. Per il Verdi il merito di un libretto consisteva nella sua funzionalità alla propria opera di compositore. Ciò non deve però indurre ad abbracciare senza riserve l’idea (sostenuta con brillanti argomenti da G. Baldini e per molti versi utile) secondo la quale la trama dei libretti verdiani è un puro pretesto, un’impalcatura destinata ad annullarsi nell’azione musicale e a non essere più percepita dallo spettatore. concepita su misura per un’opera programmaticamente astratta come Il trovatore, questa tesi non può giustificare i complessi sviluppi di valori ideologici trasmessi dalla maggior parte delle opere verdiane, i quali non potrebbero acquistare la sostanza espressiva che hanno nell’opera finita se non fossero già impostati nelle loro linee fondamentali nell’organizzazione drammatica del libretto. Prima del Verdi, tra i compositori italiani dell’Ottocento, il solo Bellini pose altrettanta attenzione nello scegliere i soggetti delle proprie opere. Tale scelta costituisce il momento iniziale e fondamentale del processo creativo verdiano. Naturalmente anche il Verdi, come ogni operista contemporaneo, fu vincolato nelle sue scelte da una quantità di fattori inerenti alla vita teatrale: necessità di soddisfare le attese di un determinato pubblico, di aggirare gli scogli della censura e di utilizzare al meglio la compagnia di canto a disposizione. Dati per presupposti questi condizionamenti, la lettura dell’epistolario documenta con evidenza come il Verdi perseguisse per anni determinati progetti (caso limite il mai realizzato Re Lear), si ostinasse a tentare di salvare opere delle quali non era soddisfatto ma nel cui soggetto credeva (simon Boccanegra) o al contrario rifiutasse soggetti che gli sembravano poco teatrali. Desidero sogetti nuovi, grandi, belli, variati e arditi all’estremo punto, con forme nuove e nello stesso tempo musicabili, scrisse nel 1853 recando a esempio La traviata, che stava scrivendo, e i precedenti Macbeth e Rigoletto. Come il Verdi intendesse questa varietà di musicabilità si può vedere dalla lettera in cui, dopo aver scartato un libretto già trascritto da Piave, raccolse con entusiasmo l’idea di musicare hernani di Hugo: Oh se si potesse fare l’Hernani sarebbe una gran bella cosa! Domani scriverò a lungo al Sig. Piave e stenderò tutte le scene dell’Hernani che mi sembrano adattate. Io ho già visto che tutto l’atto primo si può stringere in una magnifica introduzione, e finire l’atto dove Don Carlos chiede a Silva Hernani. Fare l’atto secondo coll’atto 4 del dramma francese. E finire il terz’atto col magnifico terzetto in cui muore Hernani. Il processo di composizione è a questo punto già avvenuto coll’individuazione dei nuclei drammatici fondamentali (dal Verdi chiamati posizioni o punti) che divennero poi le scene più memorabili dell’opera. È chiaro che il Verdi, ben prima di accingersi al lavoro, già pensava alla struttura musicale implicita nella struttura drammatica. Il successivo stadio è la stesura della selva, un dettagliato programma in prosa preparato di concerto tra compositore, poeta e impresa teatrale, da sottoporre all’approvazione della censura prima della versificazione definitiva. In questa fase il Verdi dovette spesso difendere la sua concezione dell’opera. quanto all’Ernani, non ebbe difficoltà a portare a quattro i tre atti da lui previsti né ad aggiungere due arie di sortita estranee all’originale, ma fu irremovibile sulla necessità di terminare l’opera con un terzetto (dove l’azione continua fino alla fine, spiegò molti anni dopo) anziché con un rondò della prima donna come proponeva Piave. Nel 1859 rinunciò a dare a Napoli Un ballo in maschera perché le modificazioni pretese dalla censura ne alteravano troppo profondamente il carattere. In un libretto d’opera, essendo necessariamente più breve di un dramma letterario, gran parte del processo di adattamento consiste nell’eliminare, il che si traduce in un atto creativo in quanto impone di selezionare il materiale e di ricomporlo in un discorso compiuto e autonomo. Questo processo di riduzione è il più frequentemente usato, ma si dà anche il caso dell’aggiunta di situazioni estranee all’originale, a esempio ne La forza del destino, dove il Verdi volle inserire la scena del campo militare tratta dal Campo di wallenstein di Schiller, inserzione che si adatta perfettamente allo spirito del dramma di Rivas. Altri esempi di ampliamento si trovano nel Don Carlos, con l’aggiunta dell’atto di fontainebleau, e nel Fastaff, con l’inserimento nella trama delle Allegre comari di Windsor di passi tratti dall’Enrico IV, fondamentali per la delineazione del protagonista. L’accurato confronto tra le opere verdiane e le loro fonti letterarie (nelle traduzioni usate dal verdi) è perciò un proficuo metodo di valutazione delle prime in quanto discorsi drammatici organizzati attraverso una serie di scelte selettive. Appare da ciò anche la futilità di fondare un giudizio di valore su di esse in base alla loro presunta capacità di adeguarsi al livello artistico dell’originale. Che Luisa Miller e Othello siano opere più o meno riuscite è questione affatto indipendente dal valore dei drammi da cui sono tratte, che vanno considerati come magazzini di situazioni e di personaggi utilizzati per creare un organismo drammatico nuovo e autonomo (né più nè meno della novella di Giraldi Cinzio nei confronti dell’othello di Shakespeare). A chi rimprovera al Macbeth di non aver saputo cogliere la dimensione magico-metafisica dell’originale si può opporre che il Verdi vi ha colto e privilegiato il tema della coscienza e della responsabilità delle azioni umane, più consono alla sua visione del mondo e al suo campo di esperienza culturale. Dato il ruolo determinante sostenuto dal libretto nel dare corpo all’opera compiuta, grande importanza assume l’impostazione data dal Verdi al rapporto tra parole e musica. Su questo punto la critica si è divisa tra l’esaltazione della capacità verdiana di fecondare il potere semantico della parola, abbandonando gradualmente le forme convenzionali in favore di un plastico declamato, e l’opposta esaltazione della capacità di annullare e bruciare il senso verbale nel fuoco dell’invenzione musicale, considerando la tendenza al declamato aperto un cedimento all’ambiguo intellettualismo del dramma musicale nella direzione Gluck-Wagner. Lo stesso Verdi offrì il puntello ai critici della prima tendenza magnificando una certa frase del Barbiere di Siviglia come la parola declamata giusta e vera (ed è musica, aggiunse però, cioè non recitazione intonata) o esaltando la verità e potenza di declamazione nel duetto tra Norma e Pollione, che ebbe evidentemente a modello nel duetto tra Amneris e Radames. Non si può d’altra parte negare che il Verdi persegua effetti drammatici anche in scene fondate sul bel canto (arie di Gilda, Leonora nel Trovatore e violetta), oppure negli ensemble in cui gli enunciati dei singoli personaggi si annullano nell’impasto musicale. La verità è che declamazione, bel canto e concertato non vanno considerati come indirizzi stilistici assoluti ed ecludentisi ma come pezzi che traggono senso drammatico dal loro porsi in rapporto dialettico, dal loro calcolato succedersi. Si veda a esempio quanta efficacia il Largo che conclude il II atto de La traviata tragga dal contrapporsi del declamato di Germont e di Alfredo, della melodia spiegata di Violetta e dell’impasto corale dei comprimari. Il problema del rapporto tra parola e musica fu razionalizzato dal Verdi nel concetto chiave di parola scenica, che definì (1870) come la parola che scolpisce e rende netta ed evidente la situazione. Io, quando l’azione lo domanda, abbandonerei subito ritmo, rima, strofa; farei dei versi sciolti per poter dire chiaro e netto tutto quello che l’azione esige. Purtroppo per il teatro è necessario qualche volta che poeti e compositori abbiano il talento di non fare né poesia né musica. Le ultime frasi vanno lette sullo sfondo dello sperimentalismo progressista che preoccupò il Verdi all’epoca di Aida. Se si vuole utilizzare retrospettivamente il concetto di parola scenica applicandolo all’intera produzione verdiana, è necessario coglierne il presupposto implicito che il senso è prodotto dal discorso drammatico nel suo insieme, non dalle singole parole (del Faust di Gounod il Verdi disse: ben espressa quasi sempre la parola. Intendiamoci bene, la parola, non la situazione) e neppure da tutto il testo poetico del quale la più gran parte non giunge in maniera distinta alla percezione dell’ascoltatore. Parola scenica significa dunque condensare il nucleo ideale della scena, della situazione (un carattere, un sentimento, un oggetto, ma soprattutto la direzione del movimento drammatico) nel minimo spazio verbale possibile e come tale è compito prima di tutto del librettista, sia pure su suggerimento del compositore che dovrà poi evidenziare tale parola scenica nella struttura musicale. È perciò errato identificare la parola scenica con un determinato stile di canto, cioè il declamato drammatico contrapposto al canto spiegato e formalizzato: parola scenica è, nel Rigoletto, altrettanto La donna è mobile che Pari siamo, nell’Ernani altrettanto Ernani! Ernani, involami che Ecco il pegno: nel momento In che Ernani vorrai spento. In un brano eminentemente brillante quale Vivrà! contende il giubilo, nel Trovatore, parola scenica è Vivrà!, l’unica chiaramente percepibile ma sufficiente a indirizzare l’ascoltatore sul motivo della gioia affannosa di Leonora, espressa nel seguito del brano esclusivamente dalla musica. Fondamentale per la comprensione dell’arte verdiana è il concetto di unità drammatica: Se l’opera è di getto l’idea è Una, e tutto deve concorre a formare questo Uno. Ogni momento dell’opera deve avere relazione organica con l’insieme e tendere inesorabilmente alla conclusione, il che si ottiene con un accurato calcolo della distribuzione delle situazioni e dei numeri musicali. Dalla ricerca di unità deriva la preoccupazione del Verdi, a tratti ossessiva, per la concisione, che non si stancò di raccomandare ai librettisti: preferì rischiare l’incomprensibilità per eccesso di stringatezza piuttosto che la dispersività per eccesso di lunghezza (anche se a volte affrontò consapevolmente il rischio, a esempio nel Don Carlos). Il raggiungimento dell’unità drammatica implica la soluzione del problema, che ogni drammaturgia deve affrontare, della dimensione temporale dell’opera teatrale, l’esigenza di conciliare la durata reale dello spettacolo con la durata fittizia in cui s’immagina svolgersi la vicenda. Durante la giovinezza del Verdi il problema fu di grande attualità nella polemica tra classicisti e romantici sulle unità aristoteliche. Quando il Verdi iniziò a comporre la battaglia romantica era ormai vinta e le sue scelte letterarie non lasciano dubbi sull’adesione alle tendenze romantiche. Il problema va però oltre la questione di scuole e di normative, dato che il tipo di organizzazione temporale è in funzione della struttura drammatica e implica quindi il problema dell’adeguamento tra forma e contenuto (Manzoni chiarì che l’unità di tempo si riduce all’unità d’azione). Il Verdi diede al problema un contributo pratico adottando una molteplicità di soluzioni, che sono naturalmente implicite nelle fonti letterarie ma che egli esplicitò nella traduzione librettistica e nella realizzazione musicale (che il problema fosse sentito è dimostrato dalle numerose indicazioni temporali, ore, giorni, mesi e anni, accuratamente disseminate nei libretti). Un ballo in maschera si attiene in maniera esemplare all’unità di tempo distribuendo l’azione nell’arco di due giornate, dal mattino della prima alla sera della seconda. Vicino a questo è il caso di rigoletto, il cui III atto s’immagina a distanza di un mese dai primi due ma in stretta consequenzialità di azione di quelli. In ambedue i casi era importante rendere il precipitare inesorabile degli eventi verso la catastrofe, onde acquista valore emblematico il senso di presagio fornito dalla profezia e dalla maledizione. La trama di Otello è stata consapevolmente riportata a unità di tempo e di luogo con l’eliminazione del I atto di Shakespeare. La vicenda più rilassata della Traviata, che si svolge nell’arco di alcuni mesi, riflette la sua origine più novellistica che drammatica facendo di ogni atto un quadro a sé stante. La morte di Violetta rientra nell’ordine degli eventi naturali più che in quello delle scelte umane e acquista valore, più che il presagio della catastrofe, il rimpianto del passato e delle sue illusioni. La dimensione storica che fa da sfondo al Simon Boccanegra è sottolineata dalla presenza di un prologo che si svolge venticinque anni prima dell’azione principale, di per sè ravvicinata e consequenziale. Caso estremo di dilatazione temporale è La forza del destino, ognuno dei cui atti si svolge a notevole distanza, nel tempo e nello spazio, dal precedente, sottolineando il senso di ineludibilità del fato. La dimensione più romanzesca che drammatica dell’opera è attuata per mezzo di quadri descriventi lo scorrere della vita comune che, in fondo indifferente alla vicenda privata dei protagonisti, la commenta a volte con ironia. Musicalmente l’effetto è rafforzato da numerosi inserti di musica di scena (canzoni, danze, cori di pellegrini e di frati, suono dell’organo e fanfare), spezzoni di durata reale che frammentano la continuità della dimensione musicale fittizia in cui si svolge la tradizionale trama melodrammatica. Il problema della dimensione temporale si riproduce al livello delle unità minori dell’opera (scene). Il codice melodrammatico accetta che nei brani lirici (arie e concertati) il tempo dell’azione s’intenda sospeso e che lo spettatore divenga cosciente del tempo interiore dei personaggi. muovendosi all’interno di questa convenzione, il Verdi cercò di conciliarla col senso della continuità drammatica rappresentando la simultaneità dei due piani temporali. Così i duetti amorosi del I atto della Traviata e del finale di Un ballo in maschera, durante i quali i personaggi si astraggono dal mondo circostante, si svolgono sullo sfondo di una danza di società che si snoda con indifferenza simulando la continuità del tempo reale. Ancora nell’Otello (quartetto del II e finale del III atto) il Verdi impiegò il tradizionale ensemble in cui i vari personaggi esprimono simultaneamente le loro emozioni, ma lo contrappuntò colla frenetica attività del motore dell’azione, Jago (si noti anche, nel primo caso, l’importanza della struttura poetica, un vero contrappunto metrico tra le parti lirico-contemplative di desdemona e di Otello, in settennari, e il dialogo d’azione tra Emilia e Jago, in quinari). Altrettanto importante nella concezione drammaturgica del Verdi è la dimensione visiva e spaziale dello spettacolo. L’attenzione rivolta agli aspetti scenografici e alla mise-en-scéne delle sue opere costituisce una delle più rilevanti influenze dell’opera francese e infatti proprio dalla Francia il Verdi portò, a partire da Un ballo in maschera, l’uso della disposizione scenica, un opuscolo stampato che prescrive minuziosamente il modo di realizzare l’opera (inclusi suggerimenti di recitazione per i cantanti). Ma fin dall’inizio il Verdi seguì con attenzione la circolazione delle proprie opere, cercando di impedirne la rappresentazione in teatri che non gli davano garanzie di efficienza realizzativa (tra i quali per lungo tempo la Scala). Gli stessi libretti e le partiture sono fitti di indicazioni sceniche. Naturalmente anche questo aspetto è concepito dal Verdi come strettamente funzionale alla concezione unitaria dell’opera. Esso contribuisce a definirne la tinta, come il prevalere delle scene notturne ne Il trovatore, o a scandire il ritmo dell’azione, come il calcolato alternarsi di scene luminose e oscure nel Rigoletto, aperte e chiuse ne La forza del destino. La scenografia può inoltre interpretare i valori sottesi al discorso drammatico: nell’Ernani l’avello di Carlo Magno simbolizza l’idea imperiale che informa l’azione Carlo V, nel Simon Boccanegra le vedute marine visualizzano la segreta nostalgia del protagonista, nell’ultima scena di Aida il trionfo del potere sacerdotale è reso concreto dalla divisione della scena in due piani, luminoso il superiore e oscuro l’inferiore (del resto a questa conclusione sepolcrale tende, nel corso dell’opera, la ricorrente allusione a spazi aperti, incontaminati e irraggiungibili). Il linguaggio sonoro si combina spesso con quello visivo, solitamente nella forma di musiche sulla scena, per suggerire la presenza di uno spazio ideale al di là delle quinte, per esempio nei canti fuori scena accompagnati dall’arpa de Il trovatore (nella scena del Miserere il piani sonori e spaziali sono addirittura tre) e nel Macbeth un complesso di strumenti ad ancia, dal suono dolce e lontano, suggerisce lo spazio sotterraneo da cui appariranno i fantasmi degli otto re. Quando questi effetti sono funzionali all’azione il Verdi ottiene con mezzi assai semplici risultati efficacissimi e più convincenti dei tentativi di descrittivismo quali l’alba dell’Attila o la burrasca nel IV atto dell’Aroldo. Quest’ultimo è un esempio di calcolo errato nell’impiego della scenografia ai fini drammatici, in quanto introduce un’apertura naturalistica affatto estranea alla tinta domestica di primi tre atti e che a sua volta predomina nello Stiffelio. Al contrario le tempeste di rigoletto e di Otello, così come le feste da ballo della Traviata e di Un ballo in maschera o la parata militare di Aida trascendono la tradizionale funzione di arricchimenti spettacolari per divenire parti integranti dell’azione drammatica. Tra i grandi meriti che vengono riconosciuti al Verdi drammaturgo è la creazione di caratteri di varietà e profondità umana prima sconosciute all’opera seria italiana. Alla programmatica astrazione dei personaggi rossiniani e alle passioni intense ma unilateralmente amorose dei personaggi donizettiani e belliniani fa riscontro una molteplicità di figure agitate dai più diversi sentimenti: basterà ricordare, tra le più memorabili, la coppia Macbeth, consumata dall’ambizione e dal rimorso, Rigoletto, diviso tra la complicità col tiranno e la tenerezza paterna, Violetta, divisa tra passione e sacrificio, Filippo II, roso dal taedium vitae, Falstaff, pateticamente incapace di accettare il declino della vecchiaia (senza dimenticare figure minori quali Sparafucile o il paggio Oscar). Questi e altri personaggi concretizzano una tendenza realistica che il Verdi volle esplicitamente distinguere dal realismo programmatico e naturalistico della seconda metà dell’ottocento. Un realismo più profondo, condensato nella formula inventare il vero, di cui additò a maestro supremo quello shakespeare capace di far apparire reali personaggi, quali il perfido Jago e l’angelica Desdemona, introvabili nella vita reale. Se il merito del Verdi per aver creato tali figure resta incontestabile, occorre pur riconoscere che tra i capolavori verdiani si devono annoverare opere nelle quali tale caratterizzazione è solo un aspetto (la grandezza del Trovatore non si riduce all’originalità di Azucena) o non è neppure tentata (Un ballo in maschera) e che il personaggio scolpito non basta a creare il dramma interamente convincente (è il caso di Simon boccanegra). Occorre perciò ribadire che il dramma nasce dalla situazione in cui il personaggio è inserito e dal suo evolversi e particolarmente dal confronto con gli altri personaggi. Per questo esso viene solitamente caratterizzato con la massima evidenza non nei momenti di autoespressione (siano essi arie o scene libere) bensì nei duetti, che svolgono il ruolo che in un dramma letterario ha il dialogo. I duetti tra Foscari e Lucrezia, tra Germont e Violetta, tra Simone e Fiesco, tra Filippo II e l’Inquisitore, tra Aida e Amonasro, e molti altri, sono monumenti dell’arte drammatica nei quali l’essenza degli agenti è colta non in astratto, come un ritratto che l’immobilizza in un tipo, ma nel suo concreto divenire e agire che la qualifica moralmente e la rende con ciò il veicolo simbolico di una dialettica ideologica. Sono dunque questi brani (ma anche quelli in cui i conflitti si moltiplicano, come il quartetto del Rigoletto, che è una sorta di doppio duetto) a fornire l’accesso privilegiato per l’indagine sull’aspetto più importante, e però il meno indagato della drammaturgia verdiana, quello delle tematiche e dei valori (ogni drammaturgo ne esprime, anche se non li razionalizza in una poetica sistematica). Occorre evitare, a tale proposito, ogni unilateralità riduttiva quale quella che considera fondamentale in buona parte della produzione verdiana il tema della libertà nazionale (il mito del cantore del Risorgimento). Si sono tentate letture globali in chiave sociologica identificando nel conflitto tra padri e figli la situazione centrale del teatro verdiano, riflesso delle preoccupazioni per la struttura patriarcale della famiglia borghese italiana intorno all’Unità (Baldacci, 1974). Si può notare che tale conflitto è assente o irrilevante in opere quali Ernani, Macbeth (dove è forzato dire che il protagonista agisce contro il rapporto di paternità), Il corsaro, Il trovatore, Un ballo in maschera (dove è troppo comodo identificare un presunto intervento celeste con la legge paterna), che in altre opere in cui esso è presente non è né l’unico né il più importante, per esempio nel Don Carlos, e che la presunta vittoria finale dei padri, figure garanti dell’istituzione sociale, è assai relativa in quanto spesso essi stessi vengono travolti dalla catastrofe dei figli da loro provocata (vedi Luisa Miller). Si può perciò sospettare che il rapporto padri-figli, indubbiamente maggioritario, interessò il Verdi proprio in quanto conflitto, accanto ad altri ma fino ad allora poco o nulla sfruttato nell’opera, e perciò utilizzabile come motore drammatico. Se si vuole trovare una costante tematica nell’intero arco dell’opera verdiana, realizzata nelle forme e nelle direzioni più diverse, essa va forse individuata nell’opposizione tra l’aspirazione alla felicità individuale e la sua negazione da parte delle istituzioni e delle convenzioni della vita associata. Il primo termine dell’opposizione può essere costituito dalla realizzazione di un legame amoroso, ma anche di un legame affettivo familiare (Rigoletto e molte altre opere), di un’amicizia (Don Carlos), della libertà di un popolo (Nabucco), dal raggiungimento di un potere (Macbeth). Il secondo termine dalle contrapposizioni politiche (Simon Boccanegra), religiose (I lombardi alla prima crociata), razziali (La forza del destino), di classe (Luisa Miller), dal pregiudizio (La traviata), dall’istituzione matrimoniale (Un ballo in maschera) e dal senso dell’onore (Ernani). Inutile sottolineare che tutte queste componenti possono combinarsi tra di loro nelle maniere più varie generando conflitti multipli all’interno della stessa opera. Questo intreccio caotico di rapporti (raffigurato nella metafora ricorrente della vita come guerra) il Verdi osserva con atteggiamento umanistico, in quanto offre la sua partecipazione all’uomo che lotta e soffre per la sua felicità (persino a Lady Macbeth quando sconta il fio della propria perversità), ma anche pessimistico in quanto prende atto dell’inevitabilità che l’individuo soccomba all’istituzione. Si possono su questo piano azzardare alcuni paralleli con la drammaturgia wagneriana: per esempio notare la somiglianza tra la posizione di Filippo II rispetto all’inquisitore e quella di Wotan rispetto a Fricka (nel II atto della Valchiria), entrambi costretti a schiacciare le persone che amano da quello stesso vincolo su cui si fonda il loro potere, e le convergenze tra Un ballo in maschera e tristano sono più profonde di quanto facciano ammettere alcune somiglianze esteriori (si veda il ruolo del filtro come negazione dell’amore e della notte come luogo dell’autentico rapporto amoroso, contrapposta al giorno come luogo della convenzione sociale). Ma a differenza di Wagner, che prospetta al problema una soluzione rivoluzionario-palingenetica o nichilista, il Verdi non prospetta alcuna soluzione al di fuori di una stoica accettazione dell’infelicità umana che la storia (Manzoni insegna) perpetuamente ricrea, alleviata forse solo dalla solidarietà. È vero che da un certo momento della produzione verdiana si affacciò la prospettiva di una consolazione nella morte (si vedano i finali di Simon Boccanegra, La forza del destino versione 1869, Don Carlos e Aida, e del resto l’aspirazione di un perduto asilo di pace che si affaccia già nei finali del Trovatore e della Traviata non è che una variante sul medesimo tema). Tale motivo ricorrente, forse chiarificato dalla consuetudine con l’opera manzoniana, è pero visto dal Verdi non tanto come certezza e neppure come possibilità di una beatitudine ultraterrena (nella Forza del destino l’accentuazione più marcatamente religiosa è indotta dalla natura stessa del soggetto) quanto come possibilità di una cessazione della perpetua guerra dell’uomo. In questo senso il Requiem per Manzoni si inserisce a pieno titolo, come dialogo di un laico con un credente, nella linea maestra della drammaturgia verdiana. Tra i diversi mezzi che concorrono a determinare la forma dell’espressione nell’opera verdiana, accanto a quelli verbali e visivi, quelli musicali hanno senza dubbio la preminenza: il Verdi come tutti i grandi operisti, è un drammaturgo attraverso la musica. La funzione della musica nell’opera si può riassumere nei seguenti punti: contribuire alla determinazione del contenuto drammatico già impostato dal linguaggio letterario del libretto, assecondandolo, completandolo o persino contraddicendolo (La musica, scrisse il Verdi, può riuscire egregiamente a dire in certo modo, due cose in una volta. È una qualità di quest’arte mal considerata dai critici e mal tenuta dai maestri); realizzare la dimensione temporale dell’opera stabilendo i rapporti di durata e di tensione tra le varie parti che la compongono; realizzare compiutamente l’unità drammatica dell’opera attraverso l’attuazione della tinta, concetto verdiano difficilmente definibile ma consistente di una somma di caratteri melodici, armonici, ritmici e timbrici che caratterizzano l’atmosfera predominante in ciascuna opera (anche questo punto fu coscientemente teorizzato dal Verdi: Per scrivere bene occorre scrivere quasi d’un fiato, riservandosi poi di accomodare; senza di che si corre il rischio di produrre opera a lunghi intervalli, con musica a mosaico, priva di stile e di carattere; per questo, in un momento imprecisato della sua vita, passò dal tradizionale metodo di comporre uno per uno i vari pezzi chiusi, in fascicoli anche fisicamente separati, all’abitudine di stendere un abbozzo che contiene tutta l’opera nelle sue linee fondamentali). Carattere costitutivo dell’opera verdiana, come in genere dell’opera italiana, è la preminenza accordata all’elemento melodico vocale. In esso si catalizza nella maggior parte dei casi l’universo affettivo del personaggio che, venendo a collisione con quello degli altri personaggi, determina il procedere del dramma. A questo contribuisce potentemente anche l’identificazione dei personaggi con determinati timbri vocali che si distinguono in un sistema di opposizioni significative. A esempio, secondo l’analisi di G. Baldini, l’azione dell’Ernani si configurerebbe con l’assedio di tre voci virili, in ordine progressivo di profondità, all’unico timbro femminile. Lo stile melodico verdiano è debitore in diversa misura a quello dei suoi predecessori. Lo accomunano a quello di Rossini e di Donizetti la vigorosa struttura ritmica, fondata sulla brevità e la fondamentale simmetria degli incisi, pur non condividendo l’aerea sprezzatura del primo né la spontaneità del secondo, a quello di Bellini (e di Mercadante) l’attenzione per la scansione verbale, pur non possedendone, salvo eccezioni quali le due arie di Leonora ne Il trovatore, la tendenza alle melodie lunghe (definizione verdiana) che si espandono a spirale. Per quanto riguarda la struttura intervallare della melodia il Verdi è fondamentalmente un seguace della scuola di canto italiano, naturalmente già arricchita dalle esperienze donizettiane e belliniane (si attirò le abituali accuse di distruttore delle voci per la tendenza a spingere verso l’alto le tessiture, particolarmente dei baritoni). Ne deriva una prevalenza del procedere per grado congiunto vivificata dai più espressivi intervalli disgiunti collocati in posizioni strategiche: per esempio la 6a discendente all’inizio di Parmi veder le lagrime nel Rigoletto o la 6a ascendente con cui iniziano molte melodie dell’Ernani. Solo nelle opere della maturità alcune melodie denunciano una concezione forse più strumentale che vocale, a esempio Deh, non m’abbandonar ne La forza del destino. Occorre poi notare la capacità particolare della melodia verdiana di determinare, nel suo procedere, il decorso armonico sottostante. Il bel canto di agilità, rossinianamente e donizettianamente inteso come espressione dell’ardore amoroso, è raro e tende progressivamente a scomparire, celebrando il suo ultimo trionfo, con una venatura di scetticismo, in Sempre libera degg’io. Più tipico del giovane Verdi è l’uso dell’agilità di forza come espressione di trionfo o di disperazione, esemplificato dalle cabalette di Abigaille, Lady Macbeth e di Mina nell’aroldo. Particolarmente connesso col timbro tenorile è il canto legato o di mezzo carattere, che assume toni di tenerezza mozartiana in Ah si, ben mio, coll’essere nel Trovatore, e si prolunga fino all’Aida (Celeste Aida). Il fondamento del melos verdiano è però ritmico nel senso più ampio della parola. Già nel 1859 A. Basevi ravvisò nello stile del Verdi un sistema economico-musicale basato sullo sfruttamento di poche cellule ritmico-melodiche ben delimitate. Un caso estremo di tale tendenza è l’andante nel finale II de Il corsaro (Audace cotanto Mostrarti pur sai?), 79 battute fondate quasi esclusivamente su una cellula ritmica di quattro note. La tendenza all’economia costruttiva può degenerare a volte nella piattezza, ma garantisce nella maggior parte dei casi l’organicità della struttura insieme all’immediata comprensibilità. Il celebre coro Va’, pensiero, sull’ali dorate è un esempio perfetto di melodia fraseologicamente simmetrica che dà però l’impressione di un unico arco compatto. Risiede qui forse il segreto di uno stile che riesce come pochissimi a essere nello stesso tempo popolare e intellettualmente soddisfacente. Strettamente legato a questo carattere popolare è l’impegno di modelli ritmici derivanti dalla musica d’uso, particolarmente di danza (mazurka, polka, galop, bolero, walzer) o di marcia (non si parla qui delle vere e proprie danze e marce inserite nelle opere). Anche tale impiego può degenerare ed è anzi uno dei più frequenti appigli per l’accusa di banalità rivolta al Verdi. Decisiva è come al solito la funzionalità drammatica: la prevalenza di ritmi di walzer ne La traviata è essenziale per la caratterizzazione ambientale dell’opera, nel 3° atto di Ernani la tensione drammatica è in gran parte affidata al conflitto tra un ritmo di marcia, prevalente nella prima parte come simbolo di ostilità, combattuto e poi sopraffatto da un ritmo di terzine che esplode con carattere di inno nella conciliazione finale. Altrettanto determinante per la struttura ritmica della melodia verdiana è il suo legame con la struttura metrica del testo. Da principio il Verdi seguì la tradizione che collegava determinati modelli ritmici all’andamento fortemente cadenzato della metrica italiana, per esempio, nei cori in decasillabi anapestici, l’attacco anacrusico. In generale il rispetto di tali modelli, non compensato dalla belliniana tendenza agli ampi archi melodici, comportava il rischio di una certa stereotipia. Benefica fu in tal senso l’esperienza dell’opera francese, colla sua prevalenza di metri lunghi e non fortemente accentati, in favore di una concezione melodica meno rigida che porta a concepire frasi quali, nell’Aida, Ma tu, Re, tu signore possente, svincolata dalla cadenza percussiva del decasillabo eppure perfettamente logica. Di qui deriva anche l’abbondanza, nelle opere tarde, di ampie melodie costruite su endecasillabi, delle quali ancora l’Aida fornisce un esempio con O terra, addio; addio, valle di pianti. Si ammira giustamente nel tardo Verdi la capacità di aderire colla musica all’andamento naturale del ritmo poetico ma non bisogna trascurare la sua capacità di stravolgerlo per mezzo del ritmo musicale conferendogli nuovo significato. Un verso accentato in maniera sbagliata, quale nel Trovatore Per mé, orà fatàle, assorbe il senso della singola parola in un unico slancio di possesso. Nel falso racconto di Jago (Era la nòtté, Cassio dormìa) l’accento sbagliato aggiunto a bella posta accanto a quello giusto introduce un’ambiguità che esaspera la curiosità impaziente di Otello. Nel racconto di amonasro l’interpolazione di incisi orchestrali nella linea vocale riformula completamente la metrica originale trasformando due decasillabi in tre settenari e un senario tronco. Il discorso diviene improvvisamente affannoso e spezzato, accrescendo l’efficacia retorica della perorazione. Il linguaggio armonico del Verdi, nelle sue componenti elementari quali la costituzione degli accordi e il collegamento dei gradi fondamentali, è solidamente ancorato a una concezione diatonica che utilizza il cromatismo solo a fini espressivi e non strutturali. Oltre agli accordi naturali sui gradi della scala maggiore e minore, gli accordi alterati più frequenti sono le 7e diminuite (sul cui abuso il Verdi ironizzò) e quelli che comportano l’abbassamento del II o del VIgrado (quasi sempre con significato lugubre, a esempio, in do maggiore, Sol-Si-Reb-Fa). Si assiste naturalmente, coll’allargarsi dell’esperienza culturale verdiana, a un progressivo arricchimento del lessico armonico. Certamente debitore al gusto francese è l’impiego di 7e di varia specie e di 9e di dominante (connesso a situazioni di passione erotica, a esempio nei duetti tra Amelia e Riccardo e tra Eboli e Don Carlo), che a posteriori suscitano associazioni wagneriane, e la tendenza a moltiplicare i collegamenti non funzionali (per esempio concatenazioni di 7e di dominante parallele). caratteristico ma non esclusivo è anche l’impiego di 6/4 irrelate con funzione di esclamazione. Echi di pratiche musicali semicolte si avvertono nell’impiego di strutture modaleggianti, di solito associate a situazioni religiose quali i cori di pellegrini e di frati ne La forza del destino, i cori sacerdotali di Aida e l’Agnus Dei del Requiem. Per quanto riguarda le funzioni armoniche all’interno dei singoli brani, l’arricchimento del materiale tonale è fornito dall’uso di dominanti secondarie e di gradi alterati. Già nel Nabucco la cavatina di Zaccaria d’egitto là sui lidi amplia l’area della tonalità d’impianto (do maggiore) con una virata alla mediante abbassata (mib maggiore). Parte di qui la strada che conduce al preludio al III atto del Don Carlo (1884), forse la pagina armonicamente più audace del Verdi. I principi di organizzazione tonale del Verdi, collegabili a una tradizione tipicamente italiana, che quelle francesi e tedesche possono avere un seguito arricchito, si possono così individuare: equivalenza funzionale tra maggiore e minore; predilezione per i collegamenti di fondamentali per 3a (accanto a quelli per 5a); a esempio la tonalità di Do è collegabile nella sua forma maggiore a quelle di Mi e di La, maggiori e minori, nella sua forma minore a quelle di Mib e di Lab, ancora maggiore e minore. Le tonalità così correlate formano una sorta di reticolo di polarità, nel quale ognuna di esse può di volta in volta prevalere. Il concetto di polarità può utilmente sostituire quello di unità tonale, a esempio nelle arie in minore che concludono nel relativo maggiore come, nel Trovatore, D’amor sull’ali rosee. Se questo procedimento ebbe precedenti in Rossini, Donizetti e soprattutto Bellini, il Verdi lo estese nell’aria della stessa opera Ah sì, ben mio, coll’essere, che procede da fa minore a reb maggiore, o in Tutte le feste al tempio (da mi minore a do maggiore). Questo uso della tonalità va in direzione opposta a quello classico (più esattamente mozartiano), fondato sulla centralità della tonica e sulla tensione tra questa e la dominante, ma occorre ricordare che il Verdi non fu contemporaneo di Mozart, bensì di Meyerbeer, Berlioz, Chopin, Liszt, Schumann, Wagner e Brahms e che tra gli autori da lui studiati in gioventù vi fu Schubert (a sua volta influenzato anche da Rossini), per i quali tutti il modello classico non è più applicabile: in altre parole il linguaggio tonale verdiano è più vicino di quanto si pensi alle esperienze europee. Diverso è il discorso per l’orchestrazione, uno dei punti più criticati dell’opera giovanile del Verdi. Questi si colloca in una tradizione antitetica a quella della linea Weber-Berlioz-Wagner-R. Strauss, che fa dell’orchestra un elemento strutturale del discorso musicale. Quella verdiana rimane costantemente un elemento subordinato e non fanno eccezione a questa regola né gli accompagnamenti di raffinato sapore cameristico che si trovano in tutte le opere fino alla Traviata, né l’uso sempre più libero e sicuro, dai Vespri al Falstaff, dell’orchestra, che neppure nell’ultima opera raggiunge, né vuole salvo brevi momenti raggiungere, un’autonomia sinfonica. La concezione sonora del Verdi restò costantemente fedele al modello rossiniano, fondamentalmente analitico, dove ogni strumento tende a mantenere la sua individualità. Direzione ancora contraria alla linea romantica che agglutina le voci strumentali in impasti sempre nuovi, facendo dell’orchestra una sorta di iper-strumento con timbro proprio continuamente cangiante. La fedeltà alla concezione analitica dell’orchestra resta invariata anche nelle opere mature, non più condizionate dai limiti delle orchestre italiane del primo Ottocento e consapevoli di tutte le conquiste dell’arte europea. In queste opere l’orchestra verdiana ha un suo suono inconfondibile, totalmente indipendente dal modello wagneriano (le parentele sono semmai, al solito, francesi, tanto che a tratti si avverte l’influenza di Berlioz), che da una parte legittima retrospettivamente le esperienze passate, dall’altra fa intravedere concezioni sonore postwagneriane, per esempio certi intrecci cameristici di Mahler, il tardo debussy, persino Stravinskij: si pensi solo ai preludi al III atto di Aida e al IV di Otello o al trillo delle trombe nella frase che conclude il 1° quadro del Falstaff. La funzionalità drammatica dell’uso degli strumenti in Verdi è legata alla tradizione settecentesca che identificava ogni timbro con un determinato affetto, naturalmente aggiornata: così il clarinetto è per eccellenza lo strumento legato alla massima espansione sentimentale, il flauto all’idea di innocenza (arie di Abigaille e di Gilda), l’oboe e il corno inglesi a quella di mestizia o di angoscia, la tromba all’eroismo guerriero e il corno al mistero. Tali associazioni sono usate a lungo in maniera un po’ schematica, anche se sempre appropriata, nel senso che spesso un determinato timbro domina dal principio alla fine un intero pezzo stabilendone il carattere affettivo, come si vede dall’impiego del corno inglese nella seconda parte di Cortigiani, vil razza dannata. Ma già il Preludio, scena e aria che inizia il III atto di Ernani, mostra un efficace uso di zone timbriche differenziate: legni (clarini bassi, clarinetti e fagotti), ottoni, archi in disposizione cameristica, tutti. In seguito l’uso associativo dei timbri divenne sempre più agile, giungendo a seguire e sottolineare le sfumature del discorso drammatico. Si prenda il duetto Aida-Amonasro, dal verso Rivedrai le foreste imbalsamate: clarinetti e fagotti conferiscono alle prime due frasi di Amonasro un carattere insinuante, mentre nelle risposte di Aida predominano i flauti, in questa opera sempre associati all’idea di spazi aperti e lontani. Quando Amonasro ricorda le distruzioni della guerra (Pur rammenti che a noi l’Egizio immite) i corni aggiungono una nota cupa e minacciosa, mentre l’accorata esclamazione di Aida (Ah! ben rammento quegli infausti giorni!) è resa più intensa dall’oboe. Infine, nell’invocazione ai numi, tutti i legni si uniscono agli archi in un corale vagamente organistico e quindi di carattere sacrale. L’organizzazione formale delle opere verdiane ha come fondamento le forme chiuse consacrate da Rossini e divenute di uso comune dopo di lui. La struttura esemplare di tali pezzi è offerta allo stato puro dai duetti, di solito articolati in cinque momenti. Scena in stile recitativo, che imposta la situazione; Tempo d’attacco, dialogo drammatico in stile parlante su un movimento continuo dell’orchestra, che conduce a un culmine sentimentale; Cantabile in tempo lento, dove tale culmine trova sfogo; Tempo di mezzo, che porta a un cambiamento della situazione iniziale; Cabaletta, cantabile in tempo mosso, in cui si sfoga la nuova situazione (ognuno di questi momenti è sottolineato da un cambiamento di metro poetico, di tempo e di tonalità). Tale schema di massima si trova semplificato nelle arie solistiche e ampliato nei finali di atto. Nei terzetti e quartetti la struttura si riduce spesso ai primi tre numeri. A questo schema il Verdi rimase sostanzialmente fedele almeno fino all’Aida, dei cui quattro duetti tre rispettano la forma rossiniana e solo uno abolisce la cabaletta, e ancora nell’Otello e nel Falstaff il Verdi trovò modo di inserire il tradizionale Largo concertato. L’evoluzione della concezione formale verdiana agisce dunque, più che verso il superamento della tradizione, internamente a essa, mirando a rendere le vecchie forme funzionali al discorso drammatico. Se ne può vedere un esempio nel Rigoletto, dove il Verdi, non potendo realizzare per motivi di censura un duetto di seduzione tra il Duca e Gilda, scrisse al suo posto l’aria Parmi veder le lagrime: dichiaratamente convenzionale (di tutta l’opera è l’unica aria con cabaletta), essa contribuisce a delineare il ritratto del Duca che proprio attraverso il prevalente impiego di forme convenzionali (ballata, canzone) esprime il proprio carattere fatuo e dissoluto. Inoltre il Verdi operò in direzione di un adattamento della forma chiusa alle esigenze dello sviluppo drammatico. Un esempio mirabile di equilibrio tra l’architettura della forma rossiniana e la fluidità richiesta dal realismo del dialogo è offerta dal duetto tra Violetta e Germont nel II atto de La traviata, dove le sezioni sono portate ad almeno otto onde seguire il continuo mutare della situazione. Va però detto che, accanto ai deliberati tentativi di rinnovamento della tradizione rappresentati da Macbeth, Rigoletto e Traviata, si colloca l’accoglimento globale di tale tradizione, celebrata per l’ultima volta ne Il trovatore. Proprio questa ultima opera, per eccellenza astratta e non sostenuta da una stringente evoluzione drammatica, pone il problema di come il Verdi abbia ottenuto quel senso di organicità e di unità intrinseca che considerava indispensabile per la riuscita di un’opera. La soluzione è stata vista, in questo caso, nell’accurato calcolo della distribuzione e del peso dei numeri nel corso della partitura: Nel Trovatore, i pieni i men pieni e i vuoti sono distribuiti con un sorvegliatissimo intento di architettura. L’opera si può dividere in due parti che man mano montano verso organismi sempre più arditi e complessi (Baldini, 1970). A queste osservazioni generali se ne sono aggiunte altre sull’impiego di sonorità o altezze assolute e di ritmi che ricorrono attraverso la partitura (P. Petrobelli, Per un’esegesi della struttura drammatica del Trovatore, in Atti del III congresso internazionale di studi verdiani, Parma, 1974). Il Verdi adottò dalla tradizione l’uso di temi di reminiscenza, che richiamano fatti e sentimenti presentati in scene precedenti, quali si trovano a esempio in Luisa Miller (III, 1), Forza del destino (III, 1) e Simon Boccanegra (II, 8). L’uso di temi di reminiscenza assume il massimo dell’efficacia nel Don Carlos, opera in cui il ricordo del passato ha un ruolo determinante. Ne I due Foscari il Verdi assegnò a uno dei personaggi principali un tema caratteristico ma non riprese più il tentativo, come troppo schematico, fino ad Aida, dove sono identificati con temi propri Aida, Amneris e i sacerdoti (ma, più che come personaggi a sè, come portatori di sentimenti e di valori). Più interessante è l’uso di temi cardine che riassumono in sè il nucleo o i nuclei drammatici dell’opera, quasi un equivalente musicale della parola scenica. Di tale tipo sono i temi del corno in Ernani, della maledizione in Rigoletto, del bacio in Otello o i temi dell’amore ne La traviata, che nelle rispettive opere compaiono poche volte, in punti chiave, onde sottolinearne l’importanza. Inutile ricordare che tutte queste pratiche poco hanno in comune con quella wagneriana del leitmotiv, in quanto i temi non sono oggetto di elaborazione sinfonica, ma sono vicine all’uso che dei temi conduttori Wagner fece fino al Lohengrin, il che non stupisce dato il comune procedere dei due autori da un filone che comprende Weber e Gluck. A un altro livello, meno direttamente connesso col senso drammatico del momento scenico ma determinante per quello profondo, è la connessione del materiale tematico di un atto o dell’intera opera. Si svelano qui le radici del Verdi nel linguaggio del classicismo viennese, che col tempo possono solo essersi approfondite. Alcuni esempi tra i molti possibili: in Luisa Miller la figura con cui inizia la Sinfonia circola in diverse forme per tutta l’opera, in Macbeth molte scene sono dominate da figure fondate sull’intervallo di seconda minore, ne La traviata gran parte del materiale melodico è connessa da una cellula ascendente di tre note; nel Ballo in maschera la maggior parte del II atto è costruita sulla figura melodica ad arco esposta nell’aria di Amelia, il I quadro del Falstaff è in parte costruito come una forma sonata dominata da due cellule ritmiche e la conclusione è una serie di variazioni sulla cellula che compare alle parole Può l’onore Riempirvi la pancia? Ma l’esempio più straordinario di coerenza tematica è costituito da La forza del destino, che la dimostra con evidenza palmare nella Sinfonia (1869). Il triplice Mi dell’inizio dà origine al tema dell’Allegro agitato e presto (La-Si-Do-Mi x 3) che ne costituisce un’articolazione melodica. A sua volta questo si distende in un arco formato di due cellule, una di 6a minore ascendente (La-Si-Do-Mi-Fa), l’altra di 2a minore discendente (Fa-Mi), che nelle successive battute vengono elaborate congiuntamente e separatamente. Sullo stesso arco melodico è fondato il tema dell’adantino (Le minacce, i fieri accenti), mentre il tema dell’Andante mosso (Deh, non m’abbandonar!) lo allarga utilizzando 6a e 2a maggiori, nella quale forma la cellula si ripresenta all’inizio dell’Allegro brillante (Tua grazia, o Dio). Infine il corale in sol maggiore degli ottoni (A Te sia gloria) impiega la cellula 2a maggiore discendente, accuratamente messa in rilievo nelle battute immediatamente precedenti. Se si considera che questi temi si dispongono tutti nel corso dell’opera, alcuni più volte, e che altri temi che qui non appaiono sono fondati sulle stesse cellule (a esempio l’aria di Alvaro nel III atto e il terzetto finale della seconda versione), si conclude che nella sinfonia, certamente composta per ultima, il Verdi non fece che esplicitare l’unità tematica latente nella partitura. Anche l’impiego della tonalità può essere studiato da due punti di vista. Il primo ne considera un uso associativo che collega all’interno di un’opera determinate situazione a diverse aree regionali: così si è visto, nella Traviata, il ricorrere del fa maggiore in riferimento all’amore tra Violetta e Alfredo, o, nel Rigoletto, si è collegata l’area di re minore/maggiore all’idea del delitto e quella di reb minore/maggiore all’avverarsi della maledizione. Tale indirizzo di ricerca ha portato risultati interessanti nell’analisi di singole opere ma difficilmente generalizzabili. L’altra direzione di ricerca concerne l’uso strutturale della tonalità al fine dell’organizzazione formale dell’opera. Occorre evitare il confronto con l’analogo uso della musica strumentale classica, data la diversità storica e ambientale dell’opera verdiana. Nella scelta delle tonalità intervenivano fattori estrinseci quali la necessità di adattamento alle voci e i vari rifacimenti. Si ricordi inoltre che nella stessa musica strumentale dell’ottocento il concetto di unità tonale diviene sempre più esteso, ai limiti della dissoluzione. I concetti proposti per le strutture armoniche (polarità, equivalenza di maggiore e minore, collegamento per 3e) possono essere utilmente invocati per spiegare le strutture formali più ampie. Nell’aria del Duca nel II atto del rigoletto l’apparente casualità del rapporto tra cantabile e cabaletta può essere ricondotto a un progetto coerente, se si osservi la struttura dell’intero brano, dove è chiaro il percorso da tonica a tonica attraverso i gradi che delineano l’accordo perfetto maggiore. L’aria di Manrico nel III atto del Trovatore, tonalmente aperta, s’inserisce in un più ampio disegno che abbraccia l’intero quadro, mentre l’aria di Leonora nel IV atto inserisce la sua traiettoria in un progetto che comprende addirittura due brani formalmente chiusi. Infine tutto il III atto de La forza del destino (edizione 1869) si dispone attorno a un asse Do-Lab-Mi-Do. In tutti questi esempi si realizza l’unità tonale dato che iniziano e terminano sulla stessa tonica. Ma più fecondo di quello di unità è il concetto di polarità secondo cui diverse toniche, appartenenti a un campo tonale costituito da un circolo di 3e, lottano per il predominio finché una di esse non prende il sopravvento. Così il III atto di Ernani si configura come una lotta tra le tonalità di lab maggiore e di fa minore, che termina con l’affermazione della seconda ma in maggiore. Nel Ballo in maschera non si può negare la progressiva affermazione del Sib come tonica, dato che in questa tonalità si collocano molti tra i brani più importanti, tra cui i finali del II e del terzo atto. Si noti che questa concezione polare della tonalità sembra più idonea di quella unitaria a una forma di arte fondata sul divenire drammatico più che sull’architettonica corrispondenza tra le parti (spesso l’organizzazione tonale di un numero dà ragione, più che della sua coerenza interna, del suo collegarsi al numero successivo): la prima versione de La forza del destino termina sul mi minore con cui l’opera si era aperta, mentre la nuova versione si chiude in lab maggiore, ancora una volta una 3a (enarmonica) sopra la tonica d’inizio. Ma questo cambiamento è perfettamente coerente con una conclusione che muta in mistico chiarimento l’atmosfera di lugubre falsità che domina tutta l’opera e che invece la prima versione ribadiva. Al clamoroso imporsi del teatro verdiano nel successo popolare non corrispose un incondizionato riconoscimento critico: contro di esso si levarono i nostalgici del bello ideale rossiniano e del clima idillico-aristocratico dell’opera donizettiana e belliniana. Essi avvertivano in Verdi, fecondato da esperienze non nazionali, l’avvento di uno stile basso che veniva a sconvolgere l’Arcadia letterario-musicale dominante. Pensava certo al Verdi, oltre che a Meyerbeer, un esponente di quella tendenza come Felice Romani quando deplora il genere di musica introdotto in Italia, assordante e clamoroso, semi celtica e semi teutonica in cui l’arte divina degli italiani concenti si è mutata in un bizzarro accozzamento di note assordanti e selvagge ed è prevalso il fragore degli strumenti sulle melodie dell’umana voce, e lo strano, il ricercato, il difficile, al semplice, al naturale, allo spontaneo di prima. Tutta la volgarità che più tardi verrà rinfacciata al Verdi come elemento regressivo fu insomma avvertita come fattore dirompente la tradizione. Né, man mano che le opere verdiane conquistavano terreno in Francia, in Germania e in inghilterra, la critica straniera fu generalmente più benevola, essendo anch’essa in parte condizionata dal mito rossiniano, in parte impegnata nella difesa della tradizione nazionale contro il predominio italiano. L’irruzione del fenomeno wagneriano indirizzò irrimediabilmente il dibattito in una direzione opposta e fin dall’inizio equivoca. Un critico acuto ma sostanzialmente conservatore come Abramo Basevi rimprovera già al primo Boccanegra di essere infeudato alle nuove idee di oltralpe (delle quali il Verdi poco sapeva allora) ma contemporaneamente Nicola Marselli, senza pensare affatto a Wagner, vede in Meyerbeer e nel Verdi i due autori che più di ogni altro avevano aperto la strada all’auspicato creatore di una nuova forma di dramma musicale. Furono questi i due poli tra i quali oscillò fino alla fine del secolo la critica verdiana, divisa tra l’attaccamento nostalgico ai valori melodici, sentiti come puramente italiani, delle opere fino alla Traviata, e l’ammirazione per il rinnovamento di cui l’ultimo Verdi si mostrò capace. Di questo dibattito fanno parte le accuse di wagnerismo mosse da Bizet al Don Carlos, le conversioni più o meno clamorose di Boito e di Hans von Bulow, i riconoscimenti dei wagneriani italiani Filippo Filippi ed Enrico Panzacchi e per converso le equilibrate valutazioni, da posizioni antiwagneriane, di Eduard Hanslick. Alla morte del Verdi la situazione era ormai radicalizzata. Mentre sembrava intramontabile l’affetto del pubblico per le opere della trilogia e per poche altre, il più della produzione giovanile sprofondò nell’oblio. D’altra parte fu opinione diffusa nelle élite culturali che quasi tutta l’opera verdiana fosse la testimonianza di un’epoca ormai tramontata e che solo a partire da Aida o meglio dal Requiem essa fosse da considerarsi parte viva della cultura europea (il Falstaff riscosse l’ammirazione di R. Strauss e di G. Mahler), né, in Italia, furono certo volte a contestare queste convinzioni le posizioni di musicologi quali L. Torchi, G. Gasperini, F. Torrefranca e G. Bastianelli, né quelle dei giovani compositori (escluso, da una particolare angolazione, I. Pizzetti), tutti a loro modo tesi al recupero della tradizione strumentale italiana. Per giungere a una inversione di tendenza occorre attendere gli anni Venti quando, sull’onda della reazione ai miti eroici del wagnerismo, ebbe inizio in Germania la Verdi-Reinassance, segnata dal romanzo di F. Werfel Verdi. Der Roman der Oper (1929) e dagli studi di weissman, Gerigk, Unterholzer, Loschelder, Engler e Holl, che portarono tra l’altro a una prima ricognizione delle opere giovanili. parallelamente, ma ancora condizionato dalla concezione dell’opera imposta dal wagnerismo, si assistette al risveglio dell’interesse verdiano in inghilterra con gli studi di Bonavia, Toye e Hussey. In Italia, accanto agli approfondimenti documentari e biografici compiuti da A. Luzio e C. Gatti, un vero ripensamento critico ebbe inizio col saggio di Massimo Mila del 1933, che partendo da posizioni idealistiche non rigide pose le basi per una più ampia comprensione dell’opera verdiana (mentre assai più legati a visioni tradizionali furono i lavori di A. Della Corte e di G. Roncaglia). Ma la presenza wagneriana continuò a farsi sentire, sia pure con segno invertito, nell’esaltazione della vitalità mediterranea e sanguigna del Trovatore, compiuta da Bruno Barilli a detrimento del presunto intellettualismo del Falstaff: posizione non a caso riecheggiata in alcune dichiarazioni (in seguito ridimensionate) di Stravinskij, che vide nel Falstaff l’alterazione del genio al quale dobbiamo il Rigoletto. È chiaro quanto queste valutazioni fossero troppo condizionate dall’urgenza di problemi ancora vivi per servire di fondamento a una comprensione storica serenamente distaccata. Nel secondo dopoguerra, particolarmente a partire dal cinquantenario della morte, si assistette a una vera esplosione della fortuna del Verdi, accompagnata da una sovrabbondante ma per lo più retorica produzione saggistica. Il merito maggiore di questo risveglio di entusiasmo (capace di contagiare i più raffinati ambienti intellettuali) fu però costituito dalla periodica riproposizione in teatro di tutta la produzione verdiana, indispensabile mezzo di valutazione anche delle opere minori, e che in ogni caso riacquisì definitivamente al repertorio corrente opere quali Ernani, Macbeth, Luisa Miller, Simon Boccanegra e Don Carlos che ne erano, per vari motivi, uscite. Proprio questo allargamento del repertorio suscitò la polemica abbastanza futile tra i sostenitori incondizionati della produzione giovanile e chi di questa negava sostanzialmente il valore, in quanto non depurata dalle deplorate convenzioni, pur riconoscendo la validità di singole pagine come precorrimento di futuri sviluppi. Ancora una volta le opposte posizioni furono condizionate da costruzioni aprioristiche, che applicarono al tutt’altro che lineare itinerario verdiano uno schema di decadenza da una condizione ideale o viceversa di progresso verso una superiore forma di dramma musicale. Entrambe tesero poi alla valutazione del momento isolato piuttosto che alla ricognizione dell’opera come struttura drammatica globale (nella polemica venne assimilato alla prima tendenza lo studio postumo di G. Baldini, 1970, a torto posto sotto l’etichetta dell’edonismo e che rappresenta invece uno dei pochi tentativi di interpretazione unitaria della drammaturgia verdiana e del ruolo in essa svolto dalla musica). Il superamento di tale sterile contrapposizione venne solo da un maggiore approfondimento storico della figura e dell’opera del Verdi, al di là delle preoccupazioni di un immediato giudizio critico che poté invece essere solo il risultato ultimo di tale approfondimento. Le direzioni in cui si mosse tale ricerca, avviata in modo deciso all’incirca dagli anni Settanta, si possono così riassumere: la ricerca biografica al di fuori di ogni agiografica esaltazione e pienamente inserita nel contesto, culturale e sociale, della lunga epoca in cui il Verdi visse (dopo gli assestamenti della precedente biografia compiuti da F. Walker, fu fondamentale a tal fine la più completa acquisizione dell’epistolario e della documentazione secondaria, alla cui raccolta attese l’Istituto di studi verdiani di Parma); l’accesso alla musica verdiana attraverso l’edizione critica delle opera avviata nel 1977, cui non corrispose l’indispensabile accesso al ricco materiale di abbozzi e lavori preliminari; lo studio del contesto operistico in cui il Verdi agì, al di là della triade Rossini-Donizetti-Bellini, che costituisce il merito indiscutibile della monumentale monografia di J. Budden (1973-1981); l’indagine testuale e stilistica sui libretti e sui loro rapporti con le rispettive fonti letterarie; le ricerche sulla scenografia e sulla messinscena come componenti fondamentali del linguaggio drammatico; le indagini analitiche sul linguaggio musicale; l’interpretazione globale della drammaturgia verdiana e dei valori storici e ideologici da essa espressi, superando una certa settorialità letteraria degli studi sulla librettistica. Quasi tutte le opere teatrali del Verdi furono pubblicate da Ricordi (Milano) contemporaneamente alla prima rappresentazione di ciascuna di esse. Fanno eccezione Un giorno di regno, il cui spartito fu pubblicato nel 1845, e I vespri siciliani, pubblicata nella traduzione italiana di E. Caimi nel 1861. Gli spartiti de I Masnadieri e de Il Corsaro furono pubblicati dall’editore Lucca di Milano (la cui ditta fu poi acquistata da Ricordi), quello di Jérusalem da Heugel (Parigi, lo spartito nella traduzione italiana, di C. Bassi, da Ricordi nel 1849). Nella 1983 fu avviata la pubblicazione de Le opere di Giuseppe Verdi/The Works of Giuseppe Verdi, edizione critica in circa 38 volumi suddivisi in 6 serie, a cura di Ph. Gossett (coordinatore), J. Budden, M. Chusid, Fr. Degrada, U. Gunter e G. Pestelli, stampata congiuntamente da G. Ricordi & C. e dall’University of Chigaco Press. Questo il piano dell’opera (ogni volume consta di due tomi, con partitura e apparato critico): Serie I (Opere teatrali):1, Oberto; 2, Un giorno di regno; 3, Nabucco; 4, Il Lombardi alla prima crociata; 5 (1985), Ernani (M. Chusid); 6, I due Foscari; 7, Giovanna d’Arco; 8, Alzira; 9, Attila; 10, Macbeth (prima versione); 11, I Masnadieri; 12, Jérusalem; 13, Il Corsaro; 14, La battaglia di Legnano; 15, Luisa Miller; 16, Stiffelio; 17 (1983), Rigoletto (M. Chusid); 18, Il Trovatore; 19, La Traviata; 20, Les Vépres siciliennes; 21, Simon Boccanegra (prima versione); 22, Aroldo; 23, Un ballo in maschera; 24, La forza del destino (seconda versione); 25, Macbeth (seconda versione); 26, Don Carlos (prima versione); 27, Aida; 28, Simon Boccanegra (seconda versione); 29, Don Carlo (seconda versione); 30, Otello; 31, Falstaff; Serie II (Musica vocale da camera): un volume; Serie III (Musica sacra): due volumi; Serie IV (Cantate e inni): un volume; Serie V (Musica da camera): un volume; Serie VI (Opere giovanili). Tra le altre edizioneidi opere teatrali, si ricorda Don Carlos: edizione integrale delle varie versioni in cinque e in quattro atti (comprendente gli inediti verdiani), a cura di U. Gunter in collaborazione con L. Petazzoni e Fr. Degrada, Ricordi, 1980. Un’edizione delle Composizioni da camera per canto pianoforte fu pubblicata da Ricordi nel 1935 (2a ed. 1948).
FONTI E BIBL.: Nelle 1959 sorse in Parma con la collaborazione degli enti locali e sotto il patrocinio dell’UNESCO e del Ministero della Pubblica Istruzione, l’Istituto di Studi Verdiani. Nel 1963 l’Istituto fu riconosciuto dallo Stato e gli fu attribuita la personalità giuridica di ente di diritto pubblico. Diretto dal 1959 alle 1978 da Mario Medici, cui succedette nel 1980 Pierluigi petrobelli, l’Istituto fu presieduto prima da Ildebrando Pizzetti (sino al 1967), poi da Giovanni Gronchi (1967-1971), da Bruno Molajoli (1971-1985) e da Alberto Carrara Verdi (dal 1985). L’Istituto pubblicò, in edizioni trilingue (italiano, inglese e tedesco), vari numeri del Bollettino Verdi dedicati a uno studio sistematico e collettivo delle opere Un ballo in maschera (numeri 1-3, 1960), La forza del destino (numeri 4, 1961; 5, 1962; 6, 1963-1966), Rigoletto (numeri 7, 1966-1969; 8, 1970-1973; 9, 1982) ed Ernani (numero 10, 1987). Diede inizio alla rivista Studi Verdiani, dal 1982, avviò una collana di quaderni, i cui primi quattro riguardano le opere Il corsaro (1963), Gerusalemme (1963), Stiffelio (1968), Aida (1972) e il quinto la Messa in memoria di Rossini (1988) e pubblicò, inoltre, quattro volumi contenenti atti di convegni di studio organizzati dall’Istituto stesso: Atti del I Congresso internazionale di studi verdiani. Venezia Isola di San Giorgio Maggiore, Fondazione Cini, 31 luglio-2 agosto 1966 (edizione 1969); Atti del II Congresso internazionale di studi verdiani. Verona, Castelvecchio. Parma, Istituto di Studi Verdiani. Busseto, Villa Pallavicino, 30 luglio-5 agosto 1969 (1971; dedicato al Don Carlos); Atti del III Congresso internazionale di studi verdiani. Milano, Piccola Scala, 12-17 giugno 1972 (1974); Nuove prospettive della ricerca verdiana. Atti del Convegno internazionale in occasione della prima del Rigoletto in edizione critica, Vienna 12-13 marzo 1983 (1987). L’Istituto, infine, iniziò la raccolta in facsimile di tutte le lettere verdiane (oltre 3000 raccolte). Bibliografie: L. Torri, Saggio di bibliografia verdiana, in Rvista musicale italiana 1901; C. vanbianchi, Nel I centenario di Giuseppe Verdi, 1813-1913: saggio di bibliografia verdiana, Milano, 1913; H. Kuhn, in MGG, XIII; D. Kampfer, Das deutsche Verdi Schriften: Hauptlinien der Interpretation, in Analecta Musicologica 1972; E. Surian, Lo stato attuale degli studi verdiani: appunti e bibliografia ragionata, in Rivista Italiana della musica 1977; M. Conati, Bibliografia verdiana (1977-1979), in Studi verdiani 1982; M. Conati, Bibliografia verdiana (1980-1982), in Studi verdiani 1983; M. Conati, Bibliografia verdiana (1983-1984), in Studi verdia-ni 1985. Cataloghi: C. Hopkinson, A bibliography of the Works of Giuseppe Verdi, 1813-1901, 2 volumi, New York, 1973 e 1978; M. Chusid, A Catalog of Verdi’s Operas, Hackensack, 1974. Iconografia: Giuseppe Verdi 1813-1901: Sein Leben in Bildern, lipsia, 1938; C. Gatti, Verdi nelle immagini, milano, 1941; H. Kuener, Giuseppe Verdi in selbstzeugnissen und Bilddokumenten, Reinbeck bei hamburg, 1961; R. Petzold, Giuseppe Verdi 1813-1901: sein Leben in Bildern, Lipsia, 1961; W. Weaver, Verdi A Documentary Study, Londra, 1977 (traduzione italiana, Firenze, 1980). Epistolario: A. Pascolato, Re Lear e Ballo in maschera: lettere di Giuseppe Verdi ad Antonio Somma, Città di Castello, 1901; G. cesari-A. Luzio, I copialettere di Giuseppe Verdi, milano, 1913; J.C. Proud’homme, Unpublished letters from Verdi to Camille du Locle, in MQ 1921 (anche in rivista della Musica 1928-1929); J.C. prod’homme, Verdi’s Letters to Léon Escudier, in ML 1923 (anche in rivista della Musica 1928); A. Luzio, Il carteggio di Giuseppe Verdi con la contessa Maffei, in A. Luzio, Profili biografici e bozzetti storici, II, Milano, 1927; G. Morazzoni, Verdi: lettere inedite, Milano, 1929; A. Alberti, Verdi intimo: carteggio di Giuseppe Verdi con il conte Opprandino Arrivabene (1861-1886), Verona, 1931; R. De Rensis, Franco Faccio e Verdi: carteggio e documenti inediti, Milano, 1934; A. Luzio, Carteggi verdiani, 4 volumi, Roma, 1935-1947; A. Di Ascoli, Quartetto milanese ottocentesco, Roma, 1974; U. Gunther-G. Carrara Verdi, Der Briefwechsel Verdi-Nuittier-Du Locle zur Revision des Don Carlos, in Analecta Musicologica 1974-1975; M. Medici e M. Conati, Carteggio Verdi-Boito, 2 volumi, Parma, 1978; A. Porter, Les vépres siciliennes: New Letters from Verdi to Scribe, in 19th Century Music 1978-1979; F. Cella e P. Petrobelli, Giuseppe Verdi-Giulio Ricordi. corrispondenza e immagini 1881/1890, Milano, 1981; M. Conati, Verdi all’opera. L’Epistolario completo con la Fenice, Milano, 1983; W. Otto, Giuseppe Verdi: Briefe, Kassel-Basilea, 1983; Carteggio Verdi-Ricordi 1882-1885, Parma, 1994; T.Costantini, Sei lettere di Verdi a G.Bottesini, Trieste, 1908; A. 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Della Corte, Guide musicali all’Aida, all’Otello, al Falstaff, Milano, 1923-1925. E tra le opere storico-critiche di stranieri o pubblicate all’estero: F. bonavia, Verdi, Londra, 1930; C. Bellaigue, Verdi, Parigi, 1922; A. Weissmann, Verdi, Stoccarda, 1922. Cfr. inoltre I. Pizzetti, La musica italiana dell’ottocento, in L’Italia e gli Italiani del secolo XIX, Firenze, 1930; Enciclopedia italiana, XXXV, 1937, 151-157; R. Bracco, Le ultime glorie di Verdi sono italiane, in Piccolo Giornale d’Italia 7 gennaio 1914; C.B., Due storici ritratti di Verdi, in Fanfulla 3 novembre 1913; A. Cappelletti, Verdi e il rifugio di Sant’Agata in una lettera di Giuseppina Strepponi, in La Tribuna 15 gennaio 1913; E. Michel, in dizionario del Risorgimento Nazionale, Milano, 1937; A.Monaldi, Verdi e le sue opere, Firenze, 1877; A. Palisi, Commemorando Giuseppe Verdi, in Il Progresso Italo-Americano 30 novembre 1913; P.Parisi, Dopo il centenario verdiano. 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Cfr. inoltre i seguenti numeri di riviste interamente un parzialmente dedicati a Verdi: L’Illustrazione italiana, 1837, numero dedicato all’Otello; l’illustrazione italiana, 1893, numero dedicato al Falstaff; Nuova Antologia 16 ottobre 1913, con scritti di pigorini-beri, Tebaldini e Alaleona; Aurea Parma gennaio-febbraio 1941, con scritti di Pizzetti, ga-vazzeni e Tebaldini; La Regione Emilia-Romagna 1950, numeri 9-12, con scritti di Bacchelli, Pratella, roncaglia, Vigolo, Mondolfi, Damerini, Valabrega, Pizzetti, De Angelis, Guerrini, Rinaldi, Mila, credali, Tortora, Fermi, Colantuoni, Della Corte, Musini, Gamberini e Missiroli; Zeitschrift fur Musik gennaio 1951, con scritti di Tutenberg, Otto, Huschkle e creuzburg; Melos febbraio 1951, con scritti di baruch, Einstein, Pringsheim e Reich; Il Diapason febbraio 1951, con scritti di Zanetti, Damerini, scherchen, Barblan, Mompellio, Frangini e Ghisi; La fiera letteraria 22 giugno 1951, con scritti di za-netti, Werfel, Pizzetti, Mila, Labroca, Fleischer, bo-nisconti, Turchi, Rondi, Costarelli e Marinelli; rassegna Musicale luglio 1951, con scritti di Pizzetti, bacchelli, Dent, Mila, Schaeffner, Vlad, Bonaccorsi, graziosi e Walker; Das Musikleben XII, 1951, con scritti di Reich, Georges, Ruppel, Troebliger e rodemann; Giuseppe Verdi 1951, pubblicazione dall’ente Autonomo Teatro alla Scala sotto gli auspici del Comitato nazionale per le onoranze a giuseppe Verdi nel cinquantenario della morte, a cura di F. Abbiati (contiene scritti di Capri, Abbiati, roncaglia, Parente, Poggiali, Cenzato, Buzzati, Tebaldini, Galletti, Barblan, Mompellio, Celli, Pannain, Della Corte, Mila, Gara, Ronga e Gavazzeni); Verdi e Roma, Roma, 1951, con scritti di De Angelis, jannattoni e Ceccarius; Verdi e Firenze, a cura della Maggio musicale fiorentino, Firenze, 1951; Verdi e la Fenice, Venezia, 1951 con scritti di Valeri, nordio, Ronga, Confalonieri, Pizzetti, Gui, Lualdi e Della Corte; Per il cinquantenario della morte di giuseppe Verdi, a cura del Teatro San Carlo, Napoli, 1951; Enciclopedia spettacolo, IX, 1962, 1572-1584; Dizionario Ricordi, 1976, 685-687; Numeri unici, pubblicazioni speciali e collettive: Gazzetta Musicale marzo 1901; Rivista Musicale italiana 1901, numero 2; Die Musik 1913-1914; Verdi: studi e memorie a cura del Sindacato nazionale fascista musicisti, Roma, 1941; Verdiana: bollettino di notizie, 1950-1951; Collana di saggi verdiani nel 1° cinquantenario della morte di Giuseppe Verdi, Bologna, 1951; Opera febbraio 1951; ZfM gennaio 1951; Colloquium Verdi-Wagner Rom 1969, in Analecta Musicologica 1972; Newsletters of the American Institute for Verdi Studies (Verdi Newsletters, dal 1977); 41° Maggio musicale fiorentino, Firenze, 1978; 19th Century Music, 2, 1978-1979; Giuseppe Verdi, Musik-Konzepte, 10, Monaco di Baviera, 1979; The Verdi Companion, a cura di W. Weaver e M. Chusid, New York, 1979; Per un progetto Verdi anni 80, Bologna, 1982. Studi critici: N. Marselli, Saggi critici sulla ragione della musica moderna, Napoli, 1859; A. Basevi, Studio sulle opere di Giuseppe Verdi, Firenze, 1859; E. hanslick, Die moderne Oper, I, Berlino, 1875; E. panzacchi, Giuseppe Verdi e La vecchiaia di Verdi, in Nel mondo della musica, Firenze, 1895; E. Checchi, giuseppe Verdi, Firenze, 1901 (nuova edizione, 1926); A. Soffredini, Le opere di Verdi: studio critico analitico, Milano, 1901; C. Bellaigue, Verdi, Parigi, 1912; A. Weissmann, Verdi, Stoccarda, 1922; B. Barilli, Il sorcio nel violino, Milano, 1926; F. Bonavia, Verdi, Londra, 1930; B. Barilli, Il paese del melodramma, Lanciano, 1931; F. Toye, Giuseppe Verdi: His Life and Works, Londra, 1931 (traduzione italiana, Milano, 1951); H. Gerigk, Giuseppe Verdi, Postdam, 1932; M. Mila, Il melodramma di Verdi, Bari, 1933 (nuova edizione, Milano, 1960); L. Unterholzer, Giuseppe Verdi’s Operntypus, Hannover, 1933; P. Beker, Wandlungen der Oper, Lipsia, 1934; G. Engler, Verdi’s Opernschaffen, Stoccarda, 1938; G. Engler, Verdi’s Anschauung vom Wesen der Oper, Breslavia, 1938; J. Loschelder, Das Todesproblem im Verdi’s Opernschaffen, Colonia-Stoccarda, 1938; K. Holl, Verdi, Berlino, 1939; D. Hussey, Verdi, londra, 1940; G. Roncaglia, L’ascensione creatrice di Giuseppe Verdi, Firenze, 1940; G.Roncaglia, Il tema cardine nell’opera di Giuseppe Verdi, in rivista musicale italiana 1943; A. Della Corte, Le sei più belle opere di Giuseppe Verdi, Milano, 1946; M. Mila, Giuseppe Verdi, Bari, 1958; L. Dallapiccola, Parole e musica nel melodramma, in Quaderni della Rassegna Musicale II, 1965; P. Pinagli, Romanticismo di Verdi, Firenze, 1967; L.K. Gerhartz, Die auseinandersetzungen des jungen Giuseppe Verdi mit dem literarischen Drama, Berlino, 1968; J. Kermann, Verdi’s Use of Recurring Themes, in Studies in Music History: Essay for Oliver Strunk, Princeton, 1968; G. Baldini, Abitare la battaglia: la storia di Giuseppe Verdi, milano, 1970; P. Petrobelli, Osservazioni sul processo compositivo in Verdi, in AMI 1971; J. Budden, The operas of Verdi, tre volumi, Londra, 1973-1981 (traduzione italiana, Torino, 1985-1988); D. Lawton, Tonality and Drama in Verdi’s Early Operas, Diss., university of California, Berkeley, 1973; L. baldacci, Libretti d’opera e altri saggi, Firenze, 1974; M. Mila, La giovinezza di Verdi, Torino, 1974; F. Lippmann, Verdi und Donizetti, in Festschrift A.A. Abert, Tutzing, 1975; V. Cisotti, Schiller e il melodramma di Verdi, Firenze, 1976; V. Godefroy, The Dramatic Genius of Verdi, 2 volumi, Londra, 1975-1977; F. Noske, The Signifier and the Signified. Studies in the Operas of Mozart and Verdi, L’Aia, 1977; M. Jeuland-Meynaud, Le théàtre romantique espagnol et le mélodrame de Giuseppe Verdi, Lione, 1978; M. Baroni, Il declino del patriarca. Verdi e le contraddizioni della famiglia borghese, Bologna, 1979; R. Dalmonte, Da Oberto a Rigoletto. precisazioni di una formula, in Ricerche musicali 1979; M. Lavagetto, Quei più modesti romanzi. Il libretto nel melodramma di Verdi, Milano, 1979; F. Degrada, Il palazzo incantato. Studi sulla tradizione del melodramma dal Barocco al Romanticismo, Fiesole, 1979; M. Mila, L’arte di Verdi, Torino, 1980; P. Ross, studien zur Verhaltnis von Libretto und Komposition in der Opern Verdi’s, Berna, 1980; A. Porter, in Grove (ristampa in Masters of Italian Opera, Londra, 1983); D. Kimbell, Verdi in the Age of Italian romanticism, Cambridge, 1981; H. Gal, Giuseppe verdi und die Oper, Francoforte s. M., 1982; G. paduano, Noi facemmo ambedue un sogno strano. Il disagio amoroso sulla scena dell’opera europea, palermo, 1982; P. Weiss, Verdi and the Fusion of Genres, in JAMS 1982; A.J. Verhoeven-Kooi, De gezelschapsdans in de operas van Giuseppe Verdi, Amsterdam, 1983; R. Parker, Classical Music in Milan During Verdi’s Formative Years, in Studi Musicali 1984; D. goldin, La vera fenice. Libretti e librettisti tra Sette e ottocento, Torino, 1985; W. Marggraf, Verdi, magonza, 1986; A. Mazzuccato, Luisa Miller, in gazzetta Musicale 1850; A. Mazzuccato, Un ballo maschera, in Gazzetta Musicale 1859; E. Hanslick, Verdi’s Requiem, in E. Hanslick, Die moderne Oper, II, Berlino, 1880; E. Hanslick, Simon Boccanegra von Verdi, E. Hanslick, Die moderne Oper, II, Berlino, 1884; F. Busoni, Verdi’s Otello: eine kritische Studie, in NZfM 1887; E. Hanslick, Verdi’s Othello, in E. Hanslick, Die moderne Oper, IV, Berlino, 1888; G.C. Varesi, L’interpretazione del Macbeth, in Nuova antologia 1932; I. Pizzetti, La religiosità di Verdi: introduzione alla Messa da Requiem, in Nuova antologia, 1941; J. Kerman, Otello: Traditional opera and the Image of Shakespeare, in J. Kerman, Opera as Drama, New York, 1956; W. Osthoff, Die beiden Boccanegra- Fassungen und der Beginn von Verdi’s Spätwerk, in Analecta Musicologica 1963; P. Petrobelli, Nabucco, in Conferenze 1966-1967, Associazione amici della Scala, Milano, 1967; W. Dean, Verdi’s Otello: a Shakespeare Masterpiece, in shakespeare Survey 1968; C. Gallico, Ricognizione di Rigoletto, in Nuova rivista musicale italiana 1969; D. Rosen, La Messa a Rossini e il Requiem per Manzoni, in rivista italiana della musica 1969-1970; D. Kimbell, Poi diventò l’Oberto, in ML 1971; A. Porter, The Making of Don Carlos, in PRMA 1971-1972; J. Budden, Varianti nei Vespri siciliani, in Nuova rivista musicale italiana 1972; W. Osthoff, Die beiden Fassungen von Verdi’s macbeth, in AfMw 1972; G. Pestelli, Le riduzioni del tardo stile verdiano. Osservazioni su alcune varianti del Don Carlos, in Nuova rivista musicale italiana 1972; U. Gunther, Zur Entstehung von Verdi’s Aida, in Studi musicali 1973; M. Mila, I Vespri siciliani (guida all’opera), Torino, 1973; P. Gossett, Verdi, Ghislanzoni and Aida: the User of Convention, in Critical Inquiry 1974; U. Gunther, La genése de Don Carlos, in rivista musicale italiana 1974; J. humbert, A propos de l’égyptomanie dans l’oeuvre de Verdi: attribution a Auguste Mariette d’un scenario anonyme de l’opéra Aida, in rivista musicale italiana 1976; M. Noiray e R. Parker, La composition d’Attila: étude de quelques variantes, in rivista musicale italiana 1976; C.Bavagnoli, Verdi e la sua terra, Parma, 1976; L. Alberti, I progressi attuali del dramma musicale: note sulla Disposizione scenica per l’opera Aida, in Il melodramma italiano dell’ottocento: studi e ricerche per M. Mila, Torino, 1977; W. Osthoff, Il sonetto nel Falstaff di Verdi, in Il Melodramma Italiano, Torino, 1977; D. Lawton, On the bacio Theme in Otello, in 19th Century Music 1977-1978; H. Busch, Verdi’s Aida: the History of an Opera in Letters and Documents, Minneapolis, 1978; M. Conati, Le Ave Maria su scala enigmatica di Verdi dalla prima alla seconda stesura, in rivista italiana della Musica 1978; S. Levarie, Tonal Relations in Verdi’s Un ballo in maschera, in 19th Century Music 1978-1979; M. Lavagetto, Un caso di censura: il rigoletto, Milano, 1979; F. Noske, Melodia e struttura in Les Vépres siciliennes, in Ricerche musicali 1980; P. Petrobelli, Music in the Theatre (à propos of Aida, Act III), in Themes in Drama 3, Drama, Dance and Music, Cambridge, 1980 (versione italiana, in La drammaturgia musicale, a cura di L. Bianconi, Bologna, 1986); S. Falcinelli, Etude comparative des source manuscrites milanaises du Simon Boccanegra, Diss., Parigi, 1980; J.A. Hepokoski, Verdi, giuseppina Pasqua, and the Composition of Falstaff, in 19th Century Music 1980; E. Rescigno, La forza del destino, Milano, 1981; G. Lanza Tomasi, Ernani: guida all’opera, Milano, 1982; P. Petrobelli, W. Drabkin e R. Parker, Verdi’s Il Trovatore: a Symposium, in Music Analysis 1982; R. Parker, Level of Motivic Definition in Verdi’s Ernani, in 19th Century Music 1982; G.Marchesi, Sono i posti di Verdi, Parma, 1983; M. Conati, Aspetti della messinscena del Macbeth di Verdi, in Nuova rivista musicale italiana 1983; M. Conati, Rigoletto di Giuseppe Verdi, Guida all’opera, Milano 1983; R. Parker e M. Brown, Motivic and Tonal Interaction in Verdi’s Un ballo in maschera, in JAMS 1983; E. Rescigno, Macbeth, Milano, 1983; Immagini per Aida, catalogo della mostra, a cura di R. De Sanctis e P. Petrobelli, Parma, 1983; V. prosperi, Per un’interpretazione della Messa da Requiem di Verdi, in I Quaderni della Civica Scuola di Musica, Milano, 1983; D. Rosen-A. Porter (a cura di), verdi’s Macbeth. A Sourcebook, Cambridge, 1984; J.A. hepokosky, Giuseppe Verdi: Falstaff, New York, 1984; M. Conati, Il Simon Boccanegra di Verdi a Reggio Emilia (1857). Storia documentata. Alcune varianti alla prima edizione dell’opera, Reggio emilia, 1984; Aida: Texte, Materialen, Kommentare, Reinbek, 1985; J.A. Hepokosky, Under the Eye of the Verdian Bear: Notes on the Rehearsal and Premiére of Falstaff, in MQ 1985; Giuseppe Verdi, vicende, problemi e mito, Colorno, 1985; F. Todde, Cenni sul rapporto fra El Trovador di Garcia Gutiérrez ed Il trovatore di Verdi, in Nuova rivista musicale italiana 1986; W.C. Holmes, Verdi’s Changing Attitudes towards Dramatic Situations as Seen in Some of His Revision in La forza del destino, in La Musique et le rite sacré et profane. Actes du XIIIe Congrés de la Société Internationale de Musicologie, Strasbourg, 1982, volume II, Strasburgo, 1986; V. Prosperi, La Messa da Requiem di Giuseppe Verdi: un’introduzione all’analisi, in Rivista Internazionale di Musica Sacra 1987; G. Morelli (a cura di), Tornando a Stiffelio. Popolarità, rifacimenti, messinscena, effettismo e altre cure nella drammaturgia del Verdi romantico, in Atti del Convegno Internazionale di Studi, Venezia 1985, Firenze, 1987; H. Busch, Verdi’s Otello and Simon Boccanegra in Letters and Documents, New York, 1988; F. Della Seta, in Dizionario musicisti Utet, VIII, 1988, 194-209; G.Marchesi, Verdi a Parma, Parma, 1997; A.Aimi-A.Leandri, Giuseppe Verdi.Il nipote dell’oste, Parma, 1998; C.mingardi, Verdi e il suo ospedale a Villanova sull’Arda nel centenario 1888-1988, Piacenza, 1988; A.Aimi-A.Copelli, Giuseppe Verdi Deputato di Borgo San Donnino, Parma, 1988; J.Budden, Le opere di Verdi, voll.3, Torino, 1988; A.Pougin, Vita anedottica di Verdi, Milano, 1881, ristampa anastatica 1989; M.J.Phillips-Matz, Verdi il grande gentleman del Piacentino, Piacenza, 1993; M.J.Phillips-Matz, Verdi.A biografy, Londra, Oxford-New York, 1993; G.Marchesi, M.Pasi, Verdi.La vita.I viaggi, Parma, 1993; D.Rizzo, Con eletta musica del sig. Verdi da Busseto, fu celebrata la Messa solenne, in Studi Verdiani 9 1993; G.N.Vetro, L’allievo di Verdi, Emanuele Muzio, Parma, 1993; C.Casini, Verdi, Milano, 1994; F.Cafasi, Giuseppe Verdi fattore di Sant’Agata, Parma, 1994; G.Servadio, Traviata, Milano, 1994; A.Duault, Verdi, la musica e il dramma, Trieste, 1995; G.Verdi, Messa da requiem, riduzione per canto e pianoforte di Jay Rosenblatt condotta sull’edizione critica della partitura da David Rosen, Milano, 1996; G.Verdi, Nabucodonosor, riduzione per canto e pianoforte condotta sull’edizione critica della partitura edita da The University of Chicago press e Casa Ricordi a cura di Roger Parker, Milano, 1996; Tutti i libretti di Verdi, Torino, 1996; P.Mioli, Verdi tutti i libretti d’opera, Roma, 1996; P.Petrobelli-F.Della Seta, La realizzazione scenica dello spettacolo verdiano, Atti del congresso internazionale di studi, Parma, Teatro Regio-Conservatorio di Musica A.Boito 20 settembre 1994, Parma, 1997; P.Mioli, Il teatro di Verdi.la vita, le opere, gli interpreti, Milano, 1997; L.Allegri, A.Monici, L’uomo Verdi benefattore del comune di Villanova, Piacenza, 1998.

VERDI MARIA
Busseto 1859-1936
Figlia di un cugino di Giuseppe Verdi (che ella chiamava zio), fu accolta bambina e allevata dal Maestro che la trattò come una figlia. Sposò Alberto Carrara. Seppe rimanere nell’ombra, senza mai entrare da protagonista nella vita dell’illustre congiunto, che, alla sua morte, ripagò tanta umiltà e discrezione nominando la Verdi sua erede universale.Ella seppe meritarsi tanta fortuna custodendo con religiosa cura la villa di Sant’Agata, affidata alle sue cure e poi a quelle di suo figlio Angiolo, che conservò intatto il prezioso patrimonio ereditato dall’illustre parente.
FONTI E BIBL.: B. Molossi, Dizionario biografico, 1957, 44.

VERDOLI ROLANDO, vedi VERZOLI ROLANDO

VERGA ANTONIO
Parma 1690/prima metà del XVIII secolo
Incisore di stampe a bulino attivo nel 1690 e ancora nella prima metà del XVIII secolo.
FONTI E BIBL.: P. Zani, Enciclopedia metodica di belle arti, XIX, 1824, 126.

VERGA CARLO
Parma 1863/1873
Fu Prefetto di Parma (1863-1869) e Deputato di Guastalla, poi membro (dal 1873) e segretario del Senato.Fu nominato cittadino onorario di Parma in seguito a deliberazione del Consiglio Comunale per l’intelligenza somma e lo zelo con cui resse la Prefettura.

FONTI E BIBL.: Senatori parmigiani, in Gazzetta di Parma 17 ottobre 1924, 3.

VERGA ENRICO 
Parma 28 settembre 1828-Parma 4 febbraio 1900
Laureatosi in utroque iure il 20 settembre 1850, il Verga entrò nella magistratura, ove raggiunse il grado di Sostituto Procuratore Generale. Pochi mesi dopo che le truppe italiane entrarono in Roma, fu inviato dal ministero impiantarvi l’ufficio della Procura del Re (1870). Compiuta la sua missione, rimase a reggere l’ufficio fino all’ottobre del 1871, allorché il Ministero trasferì il Verga a frosinone, dove inperversava il brigantaggio. Il lavoro compiuto dal Tribunale di Frosinone in quegli anni fu enorme: l’opera di recupero alla legalità di quel territorio fu iniziata appunto dal Verga. Dopo essere rientrato a Parma, il 17 ottobre 1890 G. Zanardelli, ministro di giustizia, lo chiamò a Roma per partecipare all’opera della nuova circoscrizione delle preture.
FONTI E BIBL.: A. Pariset, Dizionario biografico, 1905, 120; B. Molossi, Dizionario biografico, 1957, 153.

VERGA PIETRO
Parma 12 ottobre 1894-Napoli 7 luglio 1973
Laureato all’università di Parma, dopo il servizio militare si specializzò alla scuola del guizzetti, prima di iniziare la carriera universitaria a Perugia. Da lì si trasferì a Napoli, dove visse dal 1934. Titolare della cattedra di anatomia e di istologia patologica dell’Università partenopea, creò una scuola validissima, dalla quale uscirono allievi di grande prestigio. La stima e la considerazione che il Verga si guadagnò a Napoli sono dimostrate dal fatto che egli fu, per cinque volte, preside della facoltà di medicina, per un totale di diciotto anni. Insignito di medaglia d’oro per particolari meriti nel campo della pubblica istruzione, dedicò la sua vita all’insegnamento, divenendo il capostipite di una scuola famosa. Negli anni della seconda guerra mondiale e del primo dopoguerra il Verga si assunse la responsabilità di mantenere in funzione con pochissimi collaboratori l’ateneo napoletano, meritandosi una menzione speciale del comandante delle truppe alleate, generale Clark. Per oltre vent’anni fu anche direttore generale dell’Istituto Pascale per la cura dei tumori, uno dei più famosi d’Italia.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 9 luglio 1973, 4; Aurea Parma 2 1973, 167.

VERGA VINCENZO 
Parma 5 aprile 1896-Vallarsa 16 maggio 1916
Figlio di Enrico. Frequentò le scuole classiche e iniziò, nell’anno 1915, gli studi d’ingegneria a Parma. All’inizio della prima guerra mondiale, dopo essere stato gravemente ammalato, fu inviato ai monti del Trentino col 3° reggimento d’artiglieria da montagna nel maggio del 1916, proprio quando, sotto la pressione del nemico, l’esercito italiano fu costretto a una breve ritirata. Quando la sua batteria fu stretta dappresso dai nemici, il Verga profuse il proprio ardore non solo nel combattere ma anche nell’animare i compagni, finché non fu colpito a morte da una cannonata che gli spezzò le gambe. Fu sepolto nel villaggio di Pozzacchio. La sua memoria fu onorata colla medaglia d’argento al valore militare, con la seguente motivazione: Puntatore di un pezzo, mentre la batteria era sottoposta a fuoco violento nemico, incoraggiava i compagni e calmo e sereno perseverava nella sua funzione. Colpito da una granata che gli asportava entrambe le gambe, lasciava a malincuore il suo pezzo e moriva esortando i compagni a non curarsi di lui e a proseguire nella lotta. Dava, così, splendido esempio di spartano coraggio. Il 5 novembre 1917 ebbe il diploma d’ingegnere a titolo d’onore alla memoria.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 5, 19, 27 giugno, 3 ottobre 1916, 15, 21, 22, 23, 26 maggio e 7 novembre 1917; Il Presente 7 giugno 1916; La Giovane Montagna 1 luglio 1916; Annuario della R. Università, 1916-1917, 5-7, 1917-1918, 5-13; Caduti Università parmense, 1920, 100-101; G. Sitti, Caduti e Decorati Parmigiani nella guerra 1915-1918, Parma, Edizione Fresching, 1919, 252; Decorati al valore, 1964, 101.

VERGANI LUIGI
Parma 1819/1827
Appaltatore teatrale, dal 1819 al 1827 tenne l’appalto di parecchie stagioni del teatro ducale di Parma, talune anche in società col bandini.
FONTI E BIBL.: C.Alcari, Parma nella musica, 1931, 253.

VERGIANI OTTAVIO 
Parma 1676
Falegname ricordato all’anno 1679 per una commissione per una ancona intagliata all’altare maggiore dell’oratorio della Madonna della Pace, da farsi in legno secco secondo il disegno già presentato.
FONTI E BIBL.: E.Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, V, 23 v; E.Scarabelli Zunti, Materiali, II, 102 r; Il mobile a Parma, 1983, 255.

VERGIATI AMLETO ENRICO
Borgo Taro 1910-Buenos Aires 1974
Si trasferì a Buenos Aires nel 1922 con la famiglia. Finiti gli studi primari, collaborò con diversi giornali e riviste argentine. Scrisse le parole di molti tanghi, alcune poesie e libri, con lo pseudonimo di Julian Conteja.
FONTI E BIBL.: A. Del Bono, in Gazzetta di Parma 10 luglio 1989, 3.

VERNAZZA LUIGI, vedi VERNAZZI LUIGI NATALE

VERNAZZI GIAMBATTISTA o GIAN BATTISTA o GIOVAN BATTISTA, vedi VERNAZZI LUIGI

VERNAZZI GIUSEPPE 
Parma 22 ottobre 1803-Parma 4 novembre 1869
Figlio di Luigi, noto professore di ornato e raffinato orafo, e di Giovanna Gemmi. abbracciò la carriera del padre, svolgendo la propria attività a Parma nella sua bottega in via San Michele, nella parte di sua proprietà del palazzo vicino a piazza Grande.Nei pressi della bottega dei Vernazzi furono aperte altre oreficerie, che fecero di quell’angolo della città una zona caratteristica. Il Vernazzi ereditò dal padre l’abilità e il gusto, così che anch’egli fu scelto da Maria Luigia d’Austria come suo fornitore privato. Il Vernazzi ripeté modelli in gran parte tratti da disegni del padre, sfruttandone, alle volte, anche il punzone. La nobiltà cittadina, sull’esempio della Duchessa, continuò a frequentare la sua bottega, compreso il vescovo Luigi Sanvitale, che nel 1836 gli ordinò un’aureola in argento dorato per la statua di San Donnino e, più tardi, importanti lavori in argento sia per la Cattedrale di piacenza che per uso personale. L’opera del vernazzi al servizio della Corte di Parma si protrasse anche durante il regno degli ultimi borbone, sino alla partenza da Parma della reggente Luisa Maria di Berry, ma la sua attività continuò sino alla morte, avvenuta all’età di 66 anni. Il Vernazzi fu il primo a importare gli orologi portatili stranieri.
FONTI E BIBL.: A.V. Marchi, Figure del Ducato, 1991, 292; Malacoda 54 1994, 37 e 39.

VERNAZZI LUIGI NATALE 
Parma 25 dicembre 1771-Parma 19 luglio 1836
Studiò a Parma nello studio di Paolo Toschi, dove si perfezionò nel disegno e nell’oreficeria, divenendo validissimo incisore e impareggiabile orafo. Secondo lo Scarabelli Zunti, invece, il Vernazzi apprese l’arte dell’oreficeria presso i fratelli Froni, gli orafi della corte borbonica. Agli inizi del secolo XIX risulta socio di Pietro Bernardi, dal quale si staccò presto per avviare una fiorente attività in proprio, nella bottega posta lungo Strada San Michele, a sinistra muovendo dalla Piazza Grande. Quasi tutta la nobiltà locale si servì dal Vernazzi, in particolare i Sanvitale, e forse fu il conte Stefano sanvitale, ciambellano e consigliere della duchessa Maria Luigia d’Austria, a suggerirne la scelta come fornitore di corte. L’intestazione argentiere di Sua Maestà si ritrova dai primi mesi del 1818 e la collaborazione con la casa ducale continuò fino la morte del Vernazzi, avvenuta a causa del colera. Se l’iniziale produzione del Vernazzi indulse a motivi tardo settecenteschi (come nel grandioso ostensorio di Busseto del 1815, ripetuto quasi identico nel 1828 per la chiesa di Fragno nel Calestanese), addivenne in breve tempo a motivi tipicamente impero, come nell’esemplare reliquiario di Sant’Ilario, eseguito su disegno di Giuseppe Bertoluzzi e donato al Duomo di Parma, nel 1817, dalla principessa Maria Antonia di Borbone. Dal 1818 (forse già dal 1817) tutto ciò che in fatto di commesse di oreficeria o di argenteria gravitò intorno alla Corte di Parma fu appannaggio del Vernazzi: tipico esempio è l’esecuzione delle insegne dei Cavalieri dell’Ordine costantiniano di San Giorgio e dei distintivi per le Dame di Palazzo di Sua Maestà. Per le insegne costantiniane (poiché prevedevano l’uso di smalti che non era in grado di eseguire) il vernazzi si rivolse, in un primo tempo, all’orafo Filippo Pera di Milano, poi a David Bachelard di Ginevra (con sede anche in Milano) e, infine e definitivamente, ai fratelli Rey, sempre di Ginevra, dai quali importò anche orologi da tasca in oro e smalti guilloché e altri oggetti in smalto e oro, oltre a pendole in bronzo dorato. Per tutto ciò che era invece di fabbricazione seriale (i bottoni per le uniformi e le livree) si avvalse del fabbricante-negoziante Giuseppe Vasini di Brescia, che gli fornì anche granati e orecchini alla reggiana, volgarmente denominati olivoni. La fama del Vernazzi (oltre che fornitore di Corte fu professore di ornato e arti meccaniche all’Accademia di Parma e dal 1834 consigliere della Camera di commercio) si estese al di là dei confini del Ducato, come è attestato dalle innumerevoli commissioni e dalla nutrita corrispondenza con colleghi di Reggio Emilia, Pontremoli, Modena, guastalla e Piacenza. Così numerosi sono gli oggetti chiesastici da lui prodotti, che sarebbe impossibile elencarli tutti: basti accennare a quelli che il vescovo Luigi Sanvitale a Borgo San donnino e Piacenza, la Croce astile (1829) e altri apparati liturgici di Polesine (1813-1820), quelli della Basilica della Ghiaia di Reggio, del Duomo di Pontremoli, per non parlare dei singoli pezzi (calici e ostensori), pezzi dei quali Maria Luigia d’Austria amava fare dono alle chiese, soprattutto in occasione di visite ai vari luoghi dei suoi Stati. Il Vernazzi avviò all’arte numerosi allievi.
FONTI E BIBL.: P. Martini, Scuola delle arti belle, 1862, 26; P. Martini-G. Capacchi, Arte incisione a Parma, 1969; Palazzi e casate di Parma, 1971, 107; A.V. Marchi, Figure del Ducato, 1991, 294; Aurea Parma 3 1993, 251; Malacoda 54 1994, 34 e 37; A. Mordacci, Argenti e argentieri, 1997, 88.

VERNIERI ANTONIO, vedi DAI VERNIERI ANTONIO

VERNIZZI CESARE 
Parma 1899/1918
Pioniere dell’aviazione parmigiana. Caporale della 3a Squadriglia Aeroplani bombardieri, fu decorato di medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione: Ardito mitragliere d’aeroplano, con indomito coraggio e ammirevole fermezza, portò sempre a termine le difficili missioni affidategli. Sostenne più volte combattimenti aerei nemici, e, anche con l’apparecchio spesso colpito nelle parti più vitali riuscì con bella calma e abile maestria a fugare gli avversari (Cielo della fronte Giulia-Trentino e Francia, 18 maggio 1917; 7 giugno 1918).
FONTI E BIBL.: A. Coruzzi, Caduti di Vigatto, 1924, 54.

VERNIZZI RENATO 
Parma 1 luglio 1904-Milano 18 gennaio 1972
Nato in Borgo Santa Caterina nell’oltretorrente quando i primi sussulti del Futurismo ponevano la premessa della rivoluzione artistica italiana, trovò nella bottega del padre ettore, decoratore, se non una fonte d’ispirazione, almeno gli strumenti più idonei per sfogare i primi impulsi istintivi per la pittura, verso la quale il Vernizzi si sentì attratto sin dalla prima infanzia. Ebbe a insegnanti prima Icilio Bianchi, rappresentante di una tradizione locale tutt’altro che disprezzabile, poi Paolo Baratta, titolare della cattedra di figura all’istituto di Belle Arti, che il Vernizzi frequentò sino al diploma (1922). Per alcuni anni eseguì lavori di decorazione murale per la bottega paterna. I primissimi lavori pittorici del vernizzi ricalcano gli schemi della ventata novecentista, ma tale solitaria e segreta esperienza non andò oltre un timido tentativo sperimentale subito dimenticato e che per il Vernizzi assunse il significato di un peccato di gioventù. Per non chiudersi nel pericoloso isolamento offertogli dalla nativa città di provincia, il Vernizzi affrontò il rischio di un trasferimento irto di incognite e di difficoltà, prima di tutto di ordine finanziario. Attratto dalla grande città centro di molti interessi e caposaldo di fermenti intellettuali, il Vernizzi si trasferì definitivamente a Milano (1930), per intraprendere, dopo saltuari contatti con l’accademia di Brera, una carriera artistica sempre più definita e coerente al trascorrere del tempo. Si unì nei primi tempi ai chiaristi che, come Del Bon e Lilloni, proponevano una pittura trasparente e commossa, lontana (se non contrapposta) dalla severità del cosiddetto Novecento italiano. Ma più di tutti influì sulla sua formazione l’arte di Renoir e soprattutto di Monet, del quale ammirava la sapienza cromatica, la variatissima gamma della tavolozza, il calcolato dosaggio dei toni sottomessi al dominio dei bianchi e dei neri. Esordì come illustratore di libri e riviste. Per molti anni collaborò alla Lettura diretta da Emilio Radius, poi da Renato Simoni e da Filippo Sacchi. Lavorò per Quadrivio, per la rivista femminile Dea e per altri periodici e quotidiani. Si impose (1935) alla critica nazionale con una mostra personale alla Galleria Gian Ferrari di Milano. Già da quel momento si delinearono i caratteri fondamentali della sua produzione: lo stile sciolto, sicuro, basato sull’essenzialità del segno e l’immediatezza dei toni, si accompagna al mondo poetico della sua ispirazione. I modelli preferiti e sempre rievocati sono le donne, i bambini e i paesaggi dalle prospettive profonde en plen air, dove la luce crea e dissolve misteriose immagini di una realtà trasfigurata. Fece mostre personali in molte città italiane: le principali a Milano nel 1938, 1945, 1949, 1950, 1958 e 1964, a Roma nel 1955, a Parma nel 1956 e a Firenze nel 1961. A torino allestì una mostra antologica nel 1965. partecipò nel 1951, con un gruppo di opere, alla Mostra Nazionale degli Artisti d’Italia, che raccolse per qualche anno il meglio della pittura italiana. Espose alle Biennali di Venezia e di Milano, alle Quadriennali di Roma, alle edizioni del Premio Fiorino a Firenze e a tutte le mostre nazionali di maggior rilievo. Il vernizzi si affermò autorevolmente intorno 1938 e si presentò alla ribalta nazionale nel 1941, quando, vincendo il Primo premio Bergamo, entrò nel giro delle firme della pittura italiana. Fu quella la tappa più significativa della vita artistica del Vernizzi, che trovò numerosi consensi critici. Agli inizi del 1943 il Vernizzi, seguendo il pellegrinaggio degli sfollati, si trasferì con la famiglia a Sissa e qualche tempo dopo a Torricella, sulle sponde del Po, dove rimase sino alla Liberazione. Amò subito quei luoghi intrisi di luce e di malinconia e nel lungo soggiorno obbligato trovò i modelli più congeniali al suo temperamento. Numerosi disegni e tele di quegli anni difficili qualificano una delle più feconde stagioni della sua carriera. Giunto alla maturità, il Vernizzi si rivelò con una pittura intimamente personale, risultante da un sottile lavoro selettivo, che nel segno di una estrosa originalità collega idealmente i risultati rivoluzionari del primo quarto di secolo con l’incanto delle più pure reminiscenze classiche. Il Vernizzi venne a dissacrare con la sua impronta sottilmente verista il tempio entro il quale officiavano i grandi ministri del culto astrattista, informale, metafisico e di tutte le altre ramificazioni che fruttificarono con alterna fortuna tra la prima e la seconda guerra mondiale. La modernità del Vernizzi, disprezzata, ignorata, derisa o esaltata, non si piegò mai alle insidie e agli allettamenti del mercato e col passare degli anni assunse contorni sempre più definiti e coerenti. Negli ultimi tempi anche la scelta del grande formato delle tele dimostrò perentoriamente l’altissimo vertice raggiunto dalla sua fantasia creativa e la padronanza assoluta dei mezzi pittorici. Nella profondità degli scorci luminosi, tra architetture vegetali e orti traboccanti di fiori e di foglie, la figura umana torna a dominare in dimensioni reali la scena magistralmente costruita e articolata. È straordinario notare come il Vernizzi seppe produrre con sorprendente continuità un notevole numero di opere ispirandosi alla vita che gli scorreva intorno serena, prima della malattia della moglie, entro i limiti conclusi del giardino avvolgente la sua casa in viale Marche a milano. I numerosi ritratti della moglie Maria teresa e dei figli sono motivi ricorrenti che sembrano scandire con evidenti passaggi segnati dall’impronta del tempo la sua luminosa parabola di artista. Nell’ultima mostra antologica alla galleria Cortina di Milano (1970), che rappresentò per il Vernizzi un inconsapevole commiato dal folto pubblico, comparvero opere di dimensioni sorprendenti, dove le vibrazioni luminose non sono che un lontano ricordo del chiarismo dei primi tempi e la luce fascia le cose con un nuovo palpito tonale. Espose inoltre una serigrafia e due litografie alla Prima Triennale dell’Incisione in Milano (1969). Sue opere figurano in molte raccolte private, nelle Gallerie d’Arte Moderna di Firenze e di Parma e nelle raccolte d’arte del Comune di Milano. Per molti anni fu titolare della cattedra di Figura all’Istituto d’Arte di Parma.
FONTI E BIBL.: G. Trasanna Catalogo della personale alla Galleria Vivaio, Milano, 1942; D. Montanari, in Glauco gennaio-aprile 1946; D. Bonardi, in Araldo dell’Arte 30 aprile 1946; G.F. Usellini, in Lettura marzo 1946; L.B., in Giornale dell’Arte 7 febbraio 1947; A. Cruciani, in Unità 11 maggio 1947; A. Cruciani, in Numero-Pittura maggio-giugno 1947; Enciclopedia Pittura Italiana, III, 1950, 2520-2521; L.Borghese, Renato Vernizzi, Milano, 1954; F.Sacchi, Renato Vernizzi, Milano; Arte incisione a Parma, 1969, 68; Parma nell’arte 1 1972, 97; Parma economica 9 1972, 32; E. Radius, Vernizzi, Milano, 1970; A. Sala, L’Eden di Vernizzi, Verona, 1970; A.M.Comanducci, Dizionario dei pittori, 1974, 3416; L. Carame-C. Pirovano, galleria d’Arte moderna. Opere del Novecento, catalogo, milano, 1975; Dizionario Bolaffi pittori, XI, 1976, 303; Parma. Vicende e protagonisti, 1978, III, 32; Dizionario artisti italiani XX secolo, 1979, 366-367; Dizionario guida pittori, 1981, 140; G. capelli, in Gazzetta di Parma 17 gennaio 1982, 3; G. Capelli, in Parma nell’arte 1982, 103-108; Renato Vernizzi, Parma, 1984.

VERNIZZI SALVATORE 
Collecchio 1812/1814
Le carte dell’Archivio storico di Collecchio riportano che nel 1812 e 1813 fu organista nella chiesa del paese e maestro della locale scuola prima.Fu sostituito ai primi del 1814 da Luigi Foschieri.
FONTI E BIBL.: G.N.Vetro, Dizionario.Addenda, 1999.

VERONELLI GIACOMO 
Parma seconda metà del XVIII secolo
Pittore figurista, attivo nella seconda metà del XVIII secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, VIII, 301.

VERONESI
Parma 1746/1776
Fu suonatore di corno da caccia alla cattedrale di Parma dal 25 agosto 1746 al 7 aprile 1776.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936.

VERONESI GIUSEPPE
Parma 1714/1751
Fu violinista della Cattedrale di Parma dal 1714 al 22 giugno 1716 e della chiesa della steccata di Parma dal 1726 al 1751.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936.

VERONI PIETRO
Parma 10 ottobre 1790-post 1856
Figlio di Giuseppe e Teresa Brioni.timpanista, dal 1824 al 1831 fu presente in quasi tutte le stagioni di Carnevale e di Fiera al Teatro di Reggio Emilia.Nel 1839, considerata l’esiguità dell’impegno come timpanista, date le sue conoscenze tecniche, chiese di essere assunto in Teatro come orologiaio, continuando a suonare in orchestra come timpanista. Nel 1840 era timballiere aspirante della Ducale Orchestra di Parma, dove era ancora in . Arrigoniservizio nel 1856 Il Veroni realizzò una innovazione tecnica ai timpani.Pietro Veroni, parmigiano, aspirante timpanista della Ducale Orchestra di Corte, ha di recente portato una desiderata ed utile innovazione nella costruzione de’ timpani.Questa consiste nell’aver potuto trovar modo di accordarli in qualunque tono col mezzo d’una sola vite; il che induce una grandissima facilità e prestezza nel cambiare le accordature; cosa che deve apportare notevole vantaggio ai compositori di musica ed alle orchestre.E tanto più il signor Veroni è da commendarsi di questo ritrovato, in quanto che il lavoro da lui eseguito, per questo scopo, essendo tutto all’esterno dei timpani, non ne viene menomato il suono, e rimangono, così come prima, sonori (Gazzetta di Parma 25 aprile 1837).
FONTI E BIBL.: P.Fabbri e R. Verti; Inventario, 1992, 182, 226, 300, 318, 372, 400; G.N.Vetro, Dizionario, 1998.

VERRI DIOMEDE 
Parma 1585
Si laureò in legge nell’anno 1585.
FONTI E BIBL.: Pico, Appendice, 1642, 52.

VERTI LINO
Calestano 4 dicembre 1919-Traversetolo 30 marzo 1945
Figlio di Emilio. Partigiano, fu decorato di medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione: Partigiano già provato durante lunghi mesi di dura lotta in difficili circostanze di guerra, si offriva volontario per coprire la ritirata del suo reparto. Ferito una prima volta a una spalla rimaneva in posto continuando il fuoco mirato ed efficace della sua arma automatica. Colpito una seconda volta, e questa a morte, cadeva di fronte al nemico nell’adempimento del dovere.
FONTI E BIBL.: Decorati al valore, 1964, 32-33; Caduti resistenza, 1970, 94.

VERUGOLI ALESSANDRO, vedi VERUGOLI GIUSEPPE

VERUGOLI GIUSEPPE 
Parma 2 dicembre 1676-Parma 24 febbraio 1764
Figlio di Ilario e Paola Chiara. Marchese, fu Canonico della Cattedrale di Parma durante l’episcopato Marazzani. Fu dottore e decano del Collegio dei Giudici di Parma, insegnante dei giovani sacerdoti e abilitato a confessare dai rispettivi vescovi nelle diocesi di Parma, Piacenza, Borgo San donnino, Reggio e Cremona. Fu onorato di molti privilegi da papa Benedetto XIII. Consacrò la nuova chiesa e il convento di San Pietro d’alcantara. È ricordato come uomo di grande fede e carità, sprezzante degli onori e delle ricchezze. tuttavia l’Allodi informa che il Verugoli, spinto dal suo zelo, si esponeva a predicare nelle chiese come nelle strade e perfino nelle pubbliche piazze estemporaneamente e senza essersi preparato sugli argomenti che trattava. Di conseguenza faceva disdoro al Capitolo, ragione per cui gli fu fatta intimazione di desistere dalla predicazione e, in caso di contravvenzione, fu minacciato di privarlo della voce attiva e passiva in Capitolo nonché delle distribuzioni per la durata di un anno. raggiunta la venerabile età di 87 anni, divenne decano del Capitolo e alla sua morte vennero celebrate solenni esequie in Cattedrale con grande concorso di popolo. Ricevette la benedizione di in articulo mortis: dal vescovo pettorelli.
FONTI E BIBL.: G.M. Allodi, Serie cronologica dei Vescovi, II. 1856, 385; Palazzi e Casate di Parma, 1971, 502.

VERZELLOTTI GIUSEPPE
Parma ante 1770-post 1807
Allievo nel 1770 della Ducale Scuola di Ballo di Parma, in cui percepiva anche una borsa di studio, danzò al Teatro Ducale di Parma ininterrottamente in tutte le stagioni dal 1777 al 1790.Nella primavera del 1788 lavorò al Teatro Nazari di Cremona e nella compagnia vi era Metilde Verzellotti.Dal 1792 al 1807 lo si trova nella compagnia di ballo che agiva al Teatro La Fenice di Venezia.Nel Carnevale 1777 fu attivo a Parma un altro Verzellotti danzatore, Giambattista, forse suo parente.
FONTI E BIBL.: G.N.Vetro, Dizionario, 1998.

VERZER ILDEFONSO
Parma 1828/1831
Fu Rettore del Collegio dei Nobili di Parma dal 2 dicembre 1828 al 20 ottobre 1831.
FONTI E BIBL.: F.da Mareto, Indice, 1967, 943.

VERZOLI ROLANDO
Borgo San Donnino XIII secolo
Fu, secondo la tradizione, fabbriciere e colui che attese alla fabbrica del coro: curò quindi la costruzione dell’abside della Cattedrale di Borgo San Donnino. Fu quasi certamente un maestro costruttore. Volle far incidere il suo nome, in maniera segreta e suggestiva, nelle pietre del portale minore di destra in facciata alla Cattedrale. La protome leonina (testa di leone in raggiera), identica nel portale e nell’abside (sopra alla tomba Verzoli), l’acrostico figurato e l’interpretazione della scritta misterica sembrano, infatti, elementi sufficientemente probanti per l’attribuzione.
FONTI E BIBL.: Parma nell’arte 2 1976, 50-51.

VESCOVI ALBERTO
Berceto 1895-Costa Duole 3 settembre 1917
Figlio di Paolo. Caporale Maggiore di reggimento di artiglieria da campagna. Fu decorato di medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione: Costante mirabile esempio di fermezza, essendo stata ostruita la cannoniera, sotto l’intenso fuoco nemico, accorreva a mettere in efficienza il proprio pezzo dando prova di alto sentimento del dovere e grande coraggio. Una nuova granata caduta sul blindamento lo colpiva a morte.
FONTI E BIBL.: Bollettino Ufficiale 1918, Dispensa 83a, 6598; Decorati al valore, 1964, 24.

VESCOVI ALDA, vedi LAGAZZI ALDA

VESCOVI BRUNO
Parma 16 novembre 1925-Parma 1 settembre 1944
Tipografo di mestiere, ebbe un notevole ascendente sugli amici grazie alla serietà e alla fermezza d’animo. il fratello maggiore, Renzo, nota figura di antifascista, fu impegnato nella causa partigiana. Il Vescovi, seguendo il suo esempio, scelse la via della lotta armata, entrando nella 31a Brigata Garibaldi Copelli. A causa di una ferita al viso, scese temporaneamente in Parma per sottoporsi alle cure necessarie. Catturato in seguito a una delazione, mostrò un eroico contegno, sopportando inaudite sevizie con vero stoicismo. Fu decorato di medaglia d’argento al valor militare alla memoria, con la seguente motivazione: Partigiano combattente in mano nemica, cadeva sotto la scatenata furia omicida di una selvaggia bestiale ferocia, vittima inerme di una sanguinosa rappresaglia. Straziato da inenarrabili tormenti, si spegneva in olocausto alla resistenza.
FONTI E BIBL.: T. Marcheselli, Strade di Parma, III, 1990, 161; P. Tomasi, in Gazzetta di Parma 1 e 19 settembre 1995, 8 e 11.

VESCOVI CORNELIO
Parma-Coston Lora 10 settembre 1916
Soldato zappatore nel 4° Reggimento Alpini, fu decorato di medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione: costante esempio di coraggio, sotto l’infuriare della fucileria nemica, giungeva fra i primi fin sotto i reticolati avversari, e mentre eroicamente si accingeva ad aprirsi un varco, cadeva colpito a morte.
FONTI E BIBL.: G. Sitti, Caduti e decorati, 1919, 281; Decorati al valore, 1964, 101-102

VESCOVINI VIRGINIO
Moletolo 1882-Parma 1965
Interrotti gli studi, si trasferì a Parma, attratto dalle prime esperienze cinematografiche. mise mano alle prime macchine da proiezione, portando gli spettacoli cinematografici tra la gente dell’Oltretorrente. Autentico pioniere del cinema a Parma, aprì in strada Nino Bixio le sale Marconi e Corridoni e poi, con mercadanti e Morelli, il cinema-teatro Ducale. Gestì anche i cinema estivi Sabaudia e Littoria, il comunale di Colorno, il Savoia di Fidenza e il comunale di Sant’Ilario, infine il cinema Roma in viale Tanara a Parma.
FONTI E BIBL.: F.e T. Marcheselli, Dizionario parmigiani, 1997, 322.

VESPASIANI GIULIO 
Parma 1842-1884
Medico, già in servizio nelle truppe del ducato di Parma, per ordine del Governo provvisorio seguì le Colonne dei volontari parmigiani. Fu combattente nella guerra del 1866 come Capitano Medico.
FONTI E BIBL.: U.A. Pini, Medici nel Risorgimento, 1960, 12.

VESPETTA FELICE 
Parma seconda metà del XVI secolo 
Pittore miniaturista attivo nella seconda metà del XVI secolo.

FONTI E BIBL.: E.Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, IV, 345.

VETTIDIUS LUCIO 
Baganzola I secolo a.C./I secolo d.C.
Figlio di Caius. Libero, fu veteranus della legio XII Paterna e inoltre sexvir e aed(ilis), documentato in una grande lastra frontale, frammentaria, probabilmente parte di un monumento funebre di notevoli dimensioni, per caratteri contenutistici e paleografici databile tra il I secolo a.C. e il I secolo d.C., rinvenuta a Baganzola. È probabile che il Vettidius abbia beneficiato delle assegnazioni di terre di augusto. Vettidius è nomen molto diffuso in cisalpina, non documentato tuttavia in Cispadana, dove frequenti sono invece i Vettii. A Parma si riscontra in questo solo caso.
FONTI E BIBL.: L. Grazzi, Parma romana, 1972, 105. M.G. Arrigoni, Parmenses, 1986, 191.

-VETTORI GAETANO
Parma 24 dicembre 1770
Fu oboista della Camera ducale di Parma dal 27 aprile 1758, con l’annuo stipendio di 4000 lire dal 1° aprile 1766. Il 1° gennaio 1768 ottenne un aumento di 1000 lire, il 1 gennaio dell’anno dopo di altre 1000 lire, poco dopo di altre mille lire ancora. Nell’autunno del 1752 prese parte alle otto recite di opere buffe date nel teatro di Corte a Colorno. Alla chiesa della Steccata di Parma suonò dal 1751 al 1769.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Ruolo, A, 1, fol. 149; H. Bédarida, Parme et la France de 1748 a 1789, Paris, 1928, 489; Archivio di Stato di Parma, Teatro 1732-1843, cartella n. 1; Archivio della Steccata, Mandati 1751-1769; N. Pelicelli, musica in Parma, 1936, 206.

VETTORI GIOVANNI
Parma 1770/1808
Figlio di Gaetano. Fu suonatore di fagotto del Concerto di musica della Real Camera di Parma (Regio Decreto del 7 gennaio 1771) con l’assegno di 3000 lire a decorrere dal 24 dicembre 1770. Il 1° gennaio 1778 ebbe un aumento di 1000 lire. A Corte lo si trova fino a tutto il dicembre del 1778. Fu a suonare anche alla chiesa della Steccata di Parma dal 1780 al 1797 e alla Cattedrale di Parma dal 1787 alla Pasqua del 1790. Il 29 agosto 1779 fu retribuito con 4 zecchini per aver servito di seconda Flutta, pur essendo indicato come fagottista, nell’operetta rappresentata a colorno.Nella stagione di Fiera del 1787 suonò come primo oboe al Teatro Comunale di Reggio Emilia e sui libretti delle opere è indicato del Duca di Parma.Nello stesso teatro, con la medesima qualifica, nella stagione di quaresima del 1790 è indicato come fagotto, mentre nella stagione di Fiera del 1800, assieme al fagotto, suonò anche il flauto.Lo si trova ancora nella stagione di Fiera del 1808 come fagotto.Nel 1807 fece parte dell’orchestra del Teatro di Parma e la Comunità lo retribuì con una paga annuale di 550 lire (Archivio di Stato di Parma, Spettacoli e Teatri, 1807-1812, b. 7).
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di parma, Ruolo, A, 1, fol. 261; Archivio della Steccata, Mandati 1780-1797; Archivio della Cattedrale, Mandati 1782-1789, 1789-1794; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 206; G.N.Vetro, Dizionario, 1998.

VETTORI GIOVANNI MARIA FERDINANDO
Parma-post 1806
Fagottista, figlio di Giovanni.Nel luglio 1798 non superò l’esame per essere ammesso al reale Concerto di Parma.Nel 1806 è passato a Trieste (Archivio di Stato di Parma, Spettacoli e Teatri, 1802-1806, b. 6).
FONTI E BIBL.: G.N.Vetro, Dizionario, 1998.

VETTORI GIUSEPPE
Parma 1770/1790
Figlio di Gaetano. Fu oboista nel Concerto di Musica della Real Camera di Parma, nominato il 7 gennaio 1771 con l’assegno di 3000 lire decorrente dal 24 dicembre 1770, in sostituzione di Gaetano Vettori, morto proprio in quel giorno. Il 1 gennaio 1776 ebbe un soldo di 4000 lire e il 23 dicembre 1788 fu nominato primo suonatore di oboe nella Regia orchestra, con un aumento di 1000 lire. Alla Cattedrale di Parma suonò dal 1786 al 1790.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Ruolo, A, 1, fol. 208 e Ruolo B, 1, fol. 435; Archivio della fabbriceria della Cattedrale, Mandati 1782-1789, 1789-1794; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 206.

VETULO DA PALANZANO  
Palanzano-post 1266
Da un capitulum del 1266 si sa che venne assunto come trumbeta dal Comune di Parma.
FONTI E BIBL.: G.N.Vetro, Banda, 1993, 17.

VETURIUS CAIUS PROFUTURUS
Parma 179 d.C.
Figlio di Caius. Libero, pretoriano, è documentato in latercolo rinvenuto a Roma datato al 179 d.C. Veturius è nomen diffuso dappertutto, in special modo in Italia, documentato in Cispadana, non tuttavia a Parma. profuturus è pure cognomen diffuso in Italia, conosciuto per un Parmensis solo in questo caso.
FONTI E BIBL.: M.G. Arrigoni, Pamenses, 1986, 192.

VEZZANA BIANCA, vedi ARTINI BIANCA

VEZZANI CAMILLO
Parma 1591 c.-1630
Si adottorò in entrambe le leggi nell’anno 1613. In seguito si occupò più degli affari pubblici della città di Parma che della professione di avvocato. Morì, ancora giovane, di peste.
FONTI E BIBL.: R.Pico, Appendice, 1642, 81.

VEZZANI GIACOMO
Parma seconda metà del XVII secolo
Pittore attivo nella seconda metà del XVII secolo.
FONTI E BIBL.: E.Scarabelli Zunti, Documenti e memorie di Belle Arti parmigiane, VI, 304.

VEZZANI GIFFREDO o GOFFREDO, vedi GIFFREDO DA VEZZANO

VEZZANI GUIDO
Soragna 30 agosto 1873-Soarza 23 agosto 1955
Compì gli studi nel seminario diocesano di Borgo San Donnino. Fu ordinato sacerdote dal vescovo Tescari il 12 giugno 1897. nominato nel luglio successivo Vicario coadiutore del parroco di Castellina San Pietro, dopo nemmeno un anno passò in quella stessa qualità a Soarza e, allorché la parrocchia rimase vacante, il Vezzani ne ottenne la prevostura nel giugno 1900. Fervido di attività e di iniziative, ebbe modo, nel lungo periodo del suo ministero parrocchiale, di assistere alla progressiva trasformazione del paese. L’asilo infantile e la solenne e artistica chiesa di Soarza sono infatti legati al nome della contessa Giulia Ratto dall’orso, che con generosità munifica ne curò l’erezione, e a quello del Vezzani, che di tali opere fu lo strumento motore. Fu parroco di soarza per cinquantacinque anni, lasciando un’impronta indelebile della sua vita, interamente spesa al bene e al lustro del paese. Per le benemerenze acquisite, il pontefice Pio XI l’onorò del titolo di suo Cameriere segreto. Nel gennaio 1956 fu collocata nella chiesa parrocchiale una lapide marmorea, sormontata da un medaglione in bronzo con impressa l’effigie del Vezzani tra due angeli pure in bronzo (opera dello scultore Pietro Tavani) recante un’iscrizione commemorativa delle sue benemerenze.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 515-517; B. Colombi, Soragna. Feudo e Comune, 1986, II, 303-304.

VIADANA, vedi BATTAGLIA COSTANTINO

VIADORI CARLO
Parma 1837/1838
Fu falegname al servizio della Corte di Parma. È ricordato nell’anno 1837 per aver fornito una partita di mobili e nell’anno 1838 per aver fatto un Ecran in disegno Gottico e vari altri lavori di manutenzione in Palazzo ducale.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Casa e Corte di Maria Luigia d’Austria, busta 240; Il mobile a Parma, 1983.

VIANELLO MARIO
Venezia 4 settembre 1887-Senigallia 13 agosto 1955
Ebbe i natali nel popoloso quartiere di San Silvestro da una famiglia di piccoli commercianti. Allorché i genitori, per ragioni inerenti alla loro attività, si trasferirono nella parrocchia dei Frari, il Vianello ricevette la prima formazione spirituale frequentando quel patronato parrocchiale. Seguiti i corsi ginnasiali all’Istituto dei Padri Cavanis ed essendo maturata in lui la vocazione allo stato ecclesiastico, entrò diciassettenne nel Collegium Tarsicianum, dove compì gli studi liceali e teologici. Il 25 luglio 1911 fu ordinato sacerdote dal cardinale Aristide Cavallari, il quale, sin dal secondo corso di teologia, lo aveva chiamato presso di sè come maestro di camera. In tale qualità fu anzi confermato e per di più nominato dallo stesso Cavallari Segretario della Giunta diocesana e direttore spirituale del Patronato Leone XIII nella vasta contrada di Castello. Nel 1913 venne designato insegnante di religione nelle scuole del Seminario patriarcale, iniziando in pari tempo i corsi della pontificia facoltà giuridica di diritto canonico, che compì laureandosi nel 1916. Alla morte del Cavallari, il successore di questi, cardinale Pietro La Fontaine, riconfermò al Vianello gli uffici che gli erano stati in precedenza affidati e lo destinò alla parrocchia di Santo Stefano quale Rettore della succursale di San Samuele. Dopo il periodo bellico, durante il quale fu arruolato come cappellano nella Regia Marina, il Vianello fu preposto con altre personalità del clero e del laicato alla riorganizzazione del movimento giovanile e delle altre associazioni cattoliche, dando prova di un’attività instancabile ed efficace, particolarmente nella costituzione dell’associazione Esploratori cattolici, estesa, per suo impulso, a tutta la regione veneta. Nel 1919, dispensato dall’insegnamento in seminario, fu nominato Vice cancelliere della Curia patriarcale e due anni dopo promosso Cancelliere. Nel 1922 venne annoverato nella famiglia pontificia quale cappellano segreto di Sua Santità e nel 1926 nominato Canonico onorario del capitolo patriarcale. In quello stesso anno il pontefice Pio XI lo elevò alla dignità di suo prelato domestico e di Protonotario apostolico. Il 22 ottobre 1927 fu inviato parroco a Mestre. In pari tempo ricoprì gli incarichi di assistente ecclesiastico dei circoli di cultura San Marco e L. Ulivi, nonché di Direttore spirituale dell’istituto-Convitto Marco Foscarini. Nei tre anni trascorsi a Mestre, il Vianello, ultimati i restauri alla chiesa arcipretale e sistemata sulla base dei nuovi ordinamenti la vasta parrocchia, della quale aveva preso possesso subito dopo che essa era stata aggregata alla diocesi di Venezia, iniziò alacremente e proseguì l’opera del patronato e della casa delle associazioni parrocchiali, destinate a divenire un centro attivissimo di iniziative di carattere religioso, educativo e sociale. Rimasta vacante la cattedra episcopale fidentina per la morte di giuseppe Fabbrucci, la Santa Sede, con bolla del 7 marzo 1931, designò a succedergli il Vianello. Il 10 maggio successivo fu consacrato nella basilica d’oro di San Marco dal La Fontaine, assistito dai vescovi di La Spezia, Costantini, e ausiliare di Venezia, Ieremich. In quello stesso giorno indirizzò al clero e al popolo di Fidenza la sua prima lettera, porgendo il proprio saluto e manifestando il proposito di impostare il programma pastorale sul motto di Don Bosco, Da mihi animas, coetera tolle: anime, soltanto anime!, e invitando il clero e le associazioni cattoliche a collaborare con lui, dando a ogni buona iniziativa, con sincerità di entusiasmo, il loro contributo di pensiero, di parole e di opere. Nella serata del 6 giugno prese possesso della diocesi per procura e il giorno 14, domenica, celebrò in Cattedrale il solenne pontificale. Il discorso di rito da lui pronunciato di fronte a una folla numerosissima si imperniò sul programma già in linea di massima tracciato nella sua prima lettera pastorale. La sua oratoria, che offriva un contrasto netto con quella moderata del Fabbrucci, cui l’uditorio era assuefatto, produsse in quel primo incontro notevole impressione. Non appena ebbe assunto il governo della diocesi, iniziò quella vasta e complessa attività che lo rese benemerito nella gerarchia episcopale fidentina e che può essere compendiata in quattro ambiti: una cura appassionata per il seminario, da lui portato a un alto grado di efficienza; le numerose visite pastorali, attraverso le quali conobbe a fondo le necessità di ogni singola parrocchia; un impulso vigoroso all’Azione Cattolica mediante un’opera di penetrazione capillare; l’interessamento per i congressi eucaristici, che durante il suo episcopato segnarono pagine fondamentali. In seminario continuò degnamente l’opera del Fabbrucci, conformando gli studi e l’educazione degli allievi alla più pura tradizione cattolica, anche attraverso il suo trattato di ascetica pratica Norme di vita per i chierici e alunni del Seminario di Fidenza. Nell’edificio dell’Istituto promosse importanti restauri, ne riordinò le aule scolastiche, lo dotò di più moderni e decorosi appartamenti per i professori e di una nuova casa per le suore addette ai servizi, facendo a questo scopo costruire un’intera ala tra vasti e luminosi cortili. Infine nel 1936 dispose per l’erezione di una nuova artistica cappella. Il 28 febbraio 1932 iniziò la prima visita pastorale, la cui funzione traspare dalle finalità espresse nella lettera di indizione, di mantenere nei fedeli sana e ortodossa la dottrina, salvaguardare i costumi, correggere i vizi, promuovere ed eccitare nel popolo e nel clero la pace e l’innocenza, la pietà e lo spirito di disciplina. A questa, fecero seguito quelle del 2 dicembre 1934, dell’8 dicembre 1937 e dell’8 dicembre 1940. Per l’Azione Cattolica ebbe cure assidue, portandola alla massima funzionalità. Organizzò i tre Congressi Eucaristici diocesani che si svolsero a Fidenza dal 2 al 5 maggio 1935, a Pieve ottoville dal 5 al 9 maggio 1937 e a salsomaggiore dal 26 al 30 aprile 1939. Accanto a questi, vanno segnalati il 1° Congresso catechistico diocesano (3-5 maggio 1940), che richiamò a Fidenza, con il clero diocesano, una folla imponente di fedeli, i pellegrinaggi alla tomba degli Apostoli in Roma e quelli ai santuari mariani della diocesi. Amante in modo singolare di quelle che sono le esigenze della liturgia esterna, in diretta funzione per una più ampia elevazione delle manifestazioni del culto, poté ben dirsi anche un riformatore. Nello statuto del sinodo diocesano, ordinò che tutte le leggi liturgiche fossero scrupolosamente osservate, costituì la commissione diocesana di arte sacra e la cattedra d’arte in seminario, alimentò nel clero l’amore per il decoro dei sacri edifici, donò alla Cattedrale ricchi parati per la messa pontificale, arricchendo le sacre suppellettili del seminario con preziosi doni, tra i quali un calice d’oro finemente cesellato e ornato di gemme, promosse la raccolta di metalli preziosi per l’urna che accoglie i resti del santo martire patrono, infine dette impulso alla costituzione del Piccolo clero e volle che in ogni parrocchia risorgesse la confraternita della Santissimo Sacramento. Anche l’insegnamento del catechismo fu oggetto costante delle sue cure pastorali. Il 19 dicembre 1932, udito il parere della Commissione Catechistica diocesana, emanò un decreto riguardante il testo ufficiale di catechismo da adottare in tutta la diocesi. Il 2 febbraio 1933, in occasione della lettera pastorale XIX Centenario della Redenzione del genero umano, inviata al clero della città e diocesi, si intrattenne diffusamente su l’insegnamento e lo studio del Catechismo, richiamando ai parroci il loro dovere. L’8 dicembre 1940 iniziò la quarta visita pastorale, che ebbe come motivo particolare la scuola della Dottrina Cristiana. Il Risveglio ebbe nel Vianello uno dei maggiori sostenitori. Le difficoltà, specie di indole amministrativa, che ne rendevano la vita incerta e precaria, furono da lui superate già agli inizi del suo episcopato. Consapevole dell’alta funzione educativa della stampa cattolica, sanò la situazione economica del settimanale diocesano, spingendo il suo zelo al punto di curare la parte tecnica del giornale. Con suggerimenti, con consigli e con la sua diretta cooperazione, dette nuovo impulso alla vita del settimanale. Per i frequenti contatti con il clero e per la sua stessa natura, che lo portò a interessarsi di ogni problema anche minimo, conobbe a fondo la vita della diocesi. Una fioritura di iniziative contrassegnò il suo episcopato: sorsero scuole, asili d’infanzia, ricreatori maschili e femminili, furono restaurati e abbelliti chiese, oratori, cappelle e altari. Il Vianello illustrava poi ai fedeli il significato delle varie opere realizzate, portando alle cerimonie il prestigio della sua persona e il fascino della sua oratoria. Per innata propensione, si dedicò al ministero della predicazione con frequenza. Lo zelo del Vianello si rivelò anche attraverso le varie lettere pastorali, nelle quali le principali questioni di indole religiosa-sociale furono da lui trattate con acutezza e senso pratico. Ne scrisse otto, che alternò, durante il suo governo, a quelle collegiali dell’episcopato emiliano. La prima, dal titolo Il XIX Centenario della redenzione del genere umano, fu pubblicata in occasione della Quaresima dell’anno 1933. A essa seguirono Il Seminario (1936), Dopo la II S. Visita Pastorale (1937), L’istruzione religiosa primo coefficiente per la cristiana educazione dei figli (1938), La carità, costitutivo essenziale della vita cristiana (1940), Ricordati di santificare la festa (1941), Vivete in grazia (1942) e La casa del Parroco (1943). Accanto alle pastorali, sono degne di menzione per l’importanza degli argomenti trattati le seguenti altre lettere: L’Azione Cattolica (1931), Il canto sacro (1931), L’insegnamento religioso nelle scuole (1931) e La imprescindibile necessità di un regolare ed efficace insegnamento catechistico (1938). Da ricordare, infine, le lettere di indizione dell’XI Sinodo diocesano (1935) e delle quattro sacre visite pastorali. Nel decennale del suo episcopato il pontefice Pio XII volle manifestargli i propri sentimenti di benevolenza e di stima, congiunti al più vivo compiacimento per il suo proficuo ministero pastorale, annoverandolo tra i vescovi assistenti al Soglio pontificio. L’11 marzo 1943, con bolla apostolica, il Vianello fu promosso alla sede arcivescovile di Perugia. Il 6 giugno successivo celebrò in Cattedrale il pontificale di commiato, nel corso del quale pronunciò un commovente discorso, rievocando le tappe del suo governo episcopale. Il giorno 28 dello stesso mese raggiunse la nuova residenza. Anche nella nuova sede, dove rimase per dodici anni, ebbe modo di farsi ammirare per il suo zelo apostolico. Recatosi in visita alla colonia Stella Marina di Senigallia, dove trascorse tra i bambini di Perugia alcune ore serene, un’improvvisa congestione cerebrale ne provocò il trapasso. Alle solenni onoranze funebri, che si svolsero nella mattinata del 17 agosto, una numerosa rappresentanza di sacerdoti recò l’estremo saluto della diocesi fidentina.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 517-527.

VIANI CLELIA 
Parma 1899/1936
Collaboratrice di molti giornali, si dedicò prevalentemente agli studi storici. Meritò ampie lodi dai più noti letterati italiani, tra i quali Torraca, Tonelli, Sorbelli e Pascal. Fu conferenziera ricercata e applaudita. Fu autrice delle seguenti opere: La vita e l’opera di Prospero Viani (Reggio Emilia, 1920), Pecorelle (Parma, 1926), Giuseppe Regaldi a Padova (Parma, 1929), Un letterato cristiano: Cesare Guasti (Firenze, 1932).
FONTI E BIBL.: M. Gastaldi, Panorama della letteratura femminile contemporanea, Milano, 1936, 804; M. Bandini, Poetesse, 1942, 348.

VIAPPIANI GIUSEPPE
Bazzano 1845/1886
Fu cappellano di Bazzano dal 1845 al 1886. Fu ordinato sacerdote l’8 maggio 1845 a reggio Emilia dal vescovo Filippo Cattani. Il medesimo vescovo gli concesse di celebrare la sua prima messa nella chiesa parrocchiale di Bazzano e in tutte le altre chiese tranne che in quelle delle monache. Essendo poi Bazzano nell’anno 1857 passato alla diocesi di Parma, con lettera in data 10 giugno 1857 Felice Cantimori, vescovo di Parma, concesse al viappiani la facoltà di assolvere anche i casi riservati, come avveniva per i parroci. In data 2 ottobre 1875 Domenico Maria Villa, nuovo vescovo di Parma, vietò al Viappiani di andare ai mercati e alle fiere. In data 23 giugno 1879 il vescovo di Reggio Emilia, Guido Rocca, concesse al Viappiani la facoltà di poter confessare a Roncaglio. Tale facoltà gli fu rinnovata ogni anno dalla Curia di Reggio fino al 1886. Al Viappiani fu assegnato il 27 aprile 1871 dal Governo un contributo di 100 lire, per la costruzione del campanile di Bazzano, allora in atto.
FONTI E BIBL.: F.Barili, Arcipreti di Bazzano, 1976, 42.

VIAPPIANI PELLEGRINO
Bazzano 1798
Nel censimento del 1798 risulta essere sacerdote a Bazzano.
FONTI E BIBL.: F.Barili, Arcipreti di Bazzano, 1976, 109.

VIARCHI BARTOLOMEO
Parma 1659/1660
Tipografo. Nel 1659 realizzò un’edizione del De Ponto di Publio Ovidio Nasone e nel 1660 per li Viarchi venne stampata La prodigiosa corona delle Grazie e Miracoli oprati da Dio di tommaso Pallavicino. Verso la fine di quello stesso anno (20 novembre) si definì stampatore ducale.
FONTI E BIBL.: Al pont ad Mez 1996, 20.

VIAROLI GIUSEPPE
Borgo San Donnino 1859-Parma 1924
Cieco e figlio di ignoti, nel 1881 si trasferì a Parma ed entrò in società con Migliavacca, violinista, in qualità di componente del trio che ebbe grande successo in Parma con le sue virtuose esecuzioni musicali. Morti gli altri due componenti, il Viaroli continuò a suonare dapprima in compagnia di un musicista soprannominato Sorianén e poi da solo, ma con scarso successo. I suoi ultimi anni furono assai tribolati: perché non disturbasse i clienti, più volte gli agenti di pubblica sicurezza lo arrestarono, tenendolo in camera di sicurezza fino a mezzanotte, ora in cui si chiudevano i caffè. Fu poi denunciato per questua illecita e condannato a cinque giorni di reclusione: scomparve allora dalla circolazione e qualche tempo dopo morì all’Ospedale Maggiore.
FONTI E BIBL.: B.Molossi, Dizionario biografico, 1957, 153-154.

VIBIUS MARCUS ANTIQUUS
Parma 197 d.C.
Figlio di Marcus. Libero, pretoriano della cohors XII urbana, è documentato alla data 197 d.C. in un latercolo ritrovato in Roma. La gens Vibia è assai diffusa e documentata in Cisalpina. A Parma sono testimoniati il praenomen Vibius e il cognomen Vibianus. Antiquus è cognomen pure ben documentato in cispadana, non presente tuttavia nelle regioni transpadane e a Parma.
FONTI E BIBL.: M.G. Arrigoni, Parmenses, 1986, 193.

VIBIUS TITUS SALVIUS 
Parma ii secolo d.C.
Libero, è documentato da Flegonte di Tralles, che lo annovera tra i longevi, vissuti cento anni, della città di Parma. Il nomen Vibius è documentato in un’epigrafe parmense e nella Tabula Veleiate insieme al cognomen Vibianus. Salvius, usato come cognomen in Italia e nelle zone occidentali dell’impero, è presente a Parma solo come gentilizio.
FONTI E BIBL.: M.G. Arrigoni, Parmenses, 1986, 194.

VIBODO 
820 c.-Parma 29 novembre 895
Fu vescovo di Parma, nominato prima dell’anno 860, anno in cui è ricordato al seguito dell’imperatore Lodovico II, che si era portato in Romagna e di là si mosse per raggiungere Spoleto al fine di amministrare la giustizia e punire ogni illegalità. Nel marzo 860, tra Iesi e Camerino, Vibodo e il conte Adalberto, fedeli e ottimati dell’Imperatore, presiedettero al giudizio contro il conte Ildeberto. Vibodo, nella qualità di conte di palazzo, riferì sulla controversa questione. È questo il più antico documento nel quale Vibodo appare citato la prima volta come Vescovo. Senza prove documentali, l’Affò e altri affermano che fosse consacrato vescovo di Parma nell’857. Essendo morto senza figli Lotario, re di Lorena, l’8 agosto 869, i suoi domini dovevano per diritto ereditario passare all’imperatore Lodovico, che si trovava a combattere i Saraceni in calabria, sostenuto dal conte Bosone. Ma Carlo il Calvo, zio paterno dell’Imperatore, approfittò della sua lontananza e invase il regno di Lotario. Papa Adriano ii allora, a cui l’imperatore ricorse chiedendone l’intervento, pose in opera ogni mezzo per impedire l’ingiusta usurpazione: scrisse a Carlo il Calvo il 27 giugno 870 rimproverandolo di aver invaso il regno di Lotario e di aver mancato di rispetto ai suoi legati, invitandolo a uscire dal regno invaso e a ricevere come si conveniva i vescovi Giovanni, Pietro e Vibodo e Giovanni e Pietro, cardinali preti. Nel frattempo, Carlo il Calvo e lodovico, re di Germania, si accordarono tra di loro e il 1° agosto 870 stabilirono di dividersi il regno dell’imperatore Lodovico, così che il paese al di là della Mosa e la sinistra del Reno toccasse a Lodovico e il resto a Carlo il Calvo. Sicché quando i legati del Papa giunsero in Germania, la spartizione del regno che spettava all’imperatore Lodovico era già avvenuta. Il 7 agosto Carlo il Calvo si portò a lestines e Lodovico verso Aquisgrana. lodovico, che aveva riportato una grave contusione (era caduto in pago Ribuario, mentre si avviava per la sua villa reale di Flamereschen de quodam solario vetustate confecto sub lignis fractis), non avendo voluto che i medici lo curassero, fu costretto a sottoporsi all’asportazione della carne incancrenita. Rimase lungamente ad aquisgrana, ove accolse i legati di papa adriano e i messi dell’Imperatore Lodovico, vibodo e il conte Bernardo, i quali gli intimarono di guardarsi dall’occupare il regno di Lotario, che per diritto spettava al nipote Lodovico. l’ambasciata non ottenne alcun esito. Il 18 maggio 872 l’imperatore Lodovico giunse a Roma e il giorno dopo papa Adriano lo incoronò. l’imperatore, raccolto in Roma un esercito, partì alla volta di Benevento, mentre l’imperatrice Angilberga andò in Germania per abboccarsi con i due re. Se trovò molta disponibilità in lodovico, Carlo il Calvo evitò l’incontro. Allora Angilberga gli inviò vibodo. L’incontro avvenne a Pont-Liart, ma ancora una volta Vibodo non poté conseguire alcun risultato. l’imperatore Lodovico ii morì il 12 agosto 875 senza discendenza maschile, raccomandando l’imperatrice Angilberga a Vibodo. Papa Giovanni VIII incoronò Carlo il Calvo imperatore il 25 dicembre e re d’Italia nel gennaio dell’anno dopo. Angilberga si schierò invece con Lodovico il Germanico. Di qui il risentimento di Carlo il Calvo verso Vibodo e Angilberga, che nel congresso di Pavia gli negarono ubbidienza. Vibodo nel novembre si portò a Roma per la visita ad limina e per ottenere grazia con la mediazione del Papa presso Carlo il Calvo (Apostolorum adiisse limen et sedem tam orationis voto quam inveniendae per nos vestrae gloriae desiderio: così si legge nella lettera che Giovanni VIII scrisse a Carlo il Calvo il 18 novembre 876, raccomandandogli Vibodo. Soggiunge il Pontefice vibodo che avrebbe dato attestazioni di affetto anche prima nisi sibi esset a pie memorie priori principe, causa talis iniuncta quam sine sui discrimine flocipendere nequivisset). Sebbene privo del favore imperiale, fu di consolazione a Vibodo vedere Angilberga in salvo nel suo monastero di Santa Giulia di Brescia, ove nel marzo dell’877 si trovò egli stesso, quando l’imperatrice con suo testamento lasciò un’ampia dote al monastero di San Sisto di Piacenza. Vibodo ebbe la stima del Papa, che della sua opera si giovò per eccitare i fedeli alla causa e alla difesa della Chiesa romana. Il 27 marzo 877 il Papa gli ordinò di far pervenire a destinazione due sue lettere. Una di queste era diretta a Carlo III, figlio di Lodovico il germanico, con la quale il Papa chiese l’immediata restituzione dei monasteri di San Salvatore e di Santa Giulia a Brescia. Coll’altra il Papa pregò l’imperatrice Angilberga di prestare fede e una sincera devozione a Carlo il Calvo. Morto il 13 ottobre 877 Carlo il Calvo, Carlo Magno fu fatto re d’Italia. Vibodo si recò ad abbracciarlo, ricevendo, in cambio delle sofferenze patite per aver tenuto le parti del genitore, un atto di grande liberalità: il possesso della Corte regia di Parma. Il diploma a lui concesso da Carlo Magno nell’877 è perduto, ma tale concessione si legge nell’altro diploma dell’11 maggio 879: Insuper eciam confirmamus et corroboramus quod ei et ecclesiae suae per aliut nostrum edictum nuper concessum, idest curtem regiam extructam infra civitatem Parmam cum omni officio suo, servis et ancillis masculini sexus et feminini, seu eciam largimus et perdonamus atque nuper concessum confirmamus predicto Vuibodo et prelibate ecclesie, seu omne ius publicum et teloneum atque districtum eiusdem civitatis et ambitum murorum in circuito nec non et pratum regium non longe ab ipsa civitate in integrum sicut nostre publice ac regie pertinet potestati. A partire da questo diploma imperiale comincia a trovarsi congiunta nei vescovi di Parma l’autorità temporale a quella spirituale. Quando un vassallo occupò due insigni e ricche chiese di Lucca (San Frediano e San Silvestro), il vescovo hherardo si rivolse a Carlo Magno e ottenne l’immediata restituzione, con diploma dato a Verona il 22 novembre 877, ove si legge: ac per Wibodum venerabilem Episcopum dilectum fidelem nostrum petiit. Vibodo il 29 dicembre 877 chiamò a congresso nel palazzo episcopale di Parma Paolo, vescovo, Leodoino, vescovo di Modena, diciotto sacerdoti, quattro diaconi e sei conti e solennemente manifestò la sua intenzione di fondare un collegio di canonici. Nell’atto di fondazione, pro paupercula huius Dioceseos, fu dotata di molti beni, divisi in tre parti: una a favore dell’altare di Santa Maria, la seconda per l’acquisto dei lumi e degli incensi e la terza per mantenere i canonici. Così ebbe principio il Capitolo della cattredale, ossia il collegio dei ministri a vita comune in un chiostro contiguo alla chiesa, arricchita inoltre della decima civica, di poderi, di varie cappelle, dell’ospizio dei pellegrini e di altri diritti, tra i quali era notevole quello della metà del sale e della terra di salsomaggiore. All’amministrazione del Capitolo e all’ospizio presiedeva un canonico, detto prevosto: Praepositus Canonicae et Xenodochii parmensis. Vibodo è ricordato da Sicardo tra i più gloriosi vescovi della Lombardia del suo tempo: Hiis temporibus tres fuerunt Episcopi gloriosi, et Guibodus parmensis qui canonicam parmensem instituit. Il papa, affinché Vibodo disponesse per un abboccamento con l’imperatore Carlo Magno, gli scrisse nel maggio dell’878 di inviare un suo legato con lettere e di portare a buon fine l’opera incominciata, concludendo con queste parole: Optamus sanctitatem tuam in Christo bene valere, maxime in hoc. Poco dopo (luglio dello stesso anno) il Papa scrisse al conte Suppone di prendere con sé Ansperto di Milano e Vibodo per portarsi dal re Carlo Magno, onde esporgli ordinatamente le cose che lo potevano interessare. Più tardi (ottobre o novembre) Giovanni viii, che si era portato in Francia a incoronare lodovico il Balbo, al ritorno scrisse al conte suppone perché si recasse a incontrarlo sul moncenisio per trattare di cose utili alla Chiesa, insieme ad Angilberga, imperatrice, Ansperto, arcivescovo di Milano, Vibodo e altri. Il Papa, giunto il 24 novembre a Torino, inviò un’altra lettera a Vibodo, a Paolo, vescovo di Piacenza, a Paolo di Reggio e a leodoino, invitandoli a un Concilio, che egli voleva tenere a Pavia il 2 dicembre. nessuno degli invitati aderì all’iniziativa, sapendo che il Papa meditava di trattare la deposizione di Carlo Magno per porre la corona d’Italia sul capo di Bosone, duca di Provenza e genero di angilberga. carlo magno donò la Badia di Berceto, ricca di terre, alla mensa vescovile di Parma con suo diploma dell’11 maggio 879 e al tempo stesso riconfermò i possessi e tutti i diritti a Vibodo e ai suoi successori. Poiché l’imperatrice Angilberga era stata spogliata dei suoi possessi, Giovanni VIII inviò i suoi legati a Vibodo perché li conducesse egli stesso o, se pro eius corporea infirmitate ire non posse contigerit, per mezzo di una persona idonea a Carlo Magno, al fine di recuperare le proprietà di Angilberga (lettera pontificia del giugno 879). Lo stesso mese Giovanni VIII scrisse a Vibodo (chiamato dilecto consiliario nostro) perché si recasse da Carlo Magno o dal re Carlo III allo scopo di trattare con prudenza di cose utili alla Santa Sede e manifestare le gravi condizioni in cui la Chiesa si trovava a causa delle incursioni degli infedeli. Aggiunse che se l’arcicappellano del Re Carlo, come appare dalle tue lettere sarà per venire nella qualità di Messo ad vestigia apostolica, vogliamo che tu l’accompagni per discutere insieme di ciò che più convenga all’esaltazione della Chiesa. Se in quella vece non gli fosse possibile di portarsi a Roma, eo diligenter inquisito, cercherai di conoscere causas voluntates atque devotiones, sia di Carlomanno, sia di Carlo re, e con lettere ci farai conoscere secondo verità quid agendum sit. Vibodo ottenne in dono da Carlo Magno una corte nel comitato modenese (nel luogo detto Zena) e acquistò una cappella in onore di San Cesario da Teuderico, vassallo del conte Auteramo, che lo stesso Carlo Magno gli confermò. Carlo il Grosso riconfermò gli anzidetti possessi a Vibodo e a suo nipote amelrico, con suo diploma dell’8 gennaio 880. Carlo il Grosso volle servirsi di Vibodo per inviarlo a Roma a ossequiare il Pontefice, comandandogli di passare prima da Spoleto e di indurre il conte Guido, figlio di Lamberto, a prestare soccorso alla cristianità minacciata dai Saraceni. Il Papa scrisse al Re nel luglio, lo ringraziò delle lettere inviategli per mezzo di Vibodo e l’assicurò che nessuna familiarità vi era tra lui e Bosone. Questa è l’ultima lettera di Giovanni VIII che attesti la fedeltà di vibodo, chiamato communis fidelis. Da poco incoronato (gennaio 881), Carlo III il 13 marzo donò a Vibodo, di cui pare fosse parente, la badia di San Paolo di Mezzana nel piacentino e il villaggio di Lugolo, posto nel contado oltre l’Enza. Il 14 di aprile Vibodo ottenne in dono dall’Imperatore tre mansi nel vico detto Cogorone. Carlo il Grosso, che con giovanni VIII intervenne al concilio di Ravenna, alle suppliche dell’arcicancelliere Liutardo e di Vibodo (summos et dilectos consiliarios nostros), confermò alla chiesa di Reggio il 13 febbraio 882 i privilegi accordati dai suoi predecessori fino dal tempo dei re longobardi. Il 18 febbraio, alle istanze dello stesso Liutardo e di vibodo, Carlo III, volendo onorare Adalberto, uomo illustre e suo fedele, confermò le concessioni di otto castelli nel comitato piacentino (Rizzolo, Pupiano, Vezano, Fontanafredda, Martinasca, Rebulara, Ronco e Vicocerrone) e aggiunse altre due corti (Morfascio e Vignoia), col diritto di poter costruire a suo piacere fortilizi e castelli. Anche Agilulfo, abate di bobbio, mediante l’intervento di Liutardo e di vibodo, il 20 febbraio 883, ottenne da Carlo III la conferma della giurisdizione comitale e altri privilegi già concessi ai suoi predecessori. Vibodo fu investito da Maimberto, vescovo di Bologna, il 16 marzo 884 del Monastero di San Prospero in Panicale. Il 16 aprile 885 l’imperatore, da Pavia, accordò a Vibodo le elargizioni antecedenti, remota (forse ciò gli si contestava), totius pubblice ac iudiciarie potestatis inquietudine. Carlo III volle maggiormente dimostrare la sua generosità donando il 22 giugno 885 a Vibodo una corte detta evoriano, nel contado parmense, affinché ne dotasse la nuova chiesa di San Nicomede in fontanabroccola, ove stava per trasferire le reliquie del Santo che aveva portato da Roma. Poi l’Imperatore nell’887 riconfermò a vibodo e alla sua consanguinea Volgunda il possesso di tutti i beni mobili e immobili a loro concessi dai romani pontefici, dall’arcivescovo di Ravenna e dal vescovo di Bologna, ottenuti per precepta vel per emfiotheseos munimina vel libellos vel qualemcunque scripturam seu per quodlibet titulum in Romagna e nella pentapoli. Vibodo denunciò presso il papa Stefano V (non è certo se nell’887 o nell’888) Paolo, vescovo di Piacenza, perché si era impossessato di monte Spilone. Il Papa ordinò di restituire a Vibodo quanto era stato percepito dei frutti negli anni passati. Alla morte di Carlo il grosso (12 gennaio 888), Arnolfo, duca di carinzia e bastardo di Carlomanno, occupò il regno di Germania e Berengario, duca del Friuli, seppe guadagnarsi il sostegno di molti signori italiani, che lo acclamarono in Pavia re d’Italia. Ma tanto Vibodo che Stefano V parteggiarono per Guido, duca di Spoleto e principe di benevento, anch’egli di sangue reale. adalberto, marchese di Toscana, Vibodo e altri armarono milizie a suo favore. La Lombardia e l’Emilia, che da tempo vivevano in pace, furono teatro di una guerra spietata. Nell’889 due sanguinose battaglie, una in territorio di brescia e l’altra presso Piacenza, costrinsero berengario a ripiegare su Verona mentre Guido entrò in Pavia trionfalmente. Vibodo si presentò a Guido in Piacenza e ottenne in dono per la chiesa di San Nicomede un’isola presso il Po e varie terre a Vicopezzato e a Capo di Taro. Guido dichiarò vibodo suo arcicappellano e suo consigliere e lo volle con sé quando si incamminò alla volta di Roma per essere incoronato da papa Stefano. Il giorno della solenne incoronazione (21 febbraio 891) Guido, a istanza di Vibodo e del marchese Anscario, fratello del Re, spedì tre privilegi a favore di Ageltrude, sua consorte, figlia di Adelgiso principe di Benevento. Ritornato a Parma, Vibodo si preparò il sepolcro in cattedrale all’altare di San Michele Arcangelo (ma già il 9 maggio 882 è detto ubi domnus vuibodus episcopus ordinatam et destinatam habet facere suam sepulturam). Il 5 luglio 892 determinò di stendere il suo testamento in hoc iudicato a me facto, et pleno animo mentis ratio vegetatur, tunc dignum et salutare ducimus perpensare. Volle assegnare a Volgunda, detta Azia, sua consanguinea, Deo dicata, ogni suo avere: cappellas, curtes, massaricias cum casis, terris, vineis, pratis, silvis, ripis, rupinis, aquarumque decursibus, molendinis divisum et indivisum, mobile et immobile. Questi beni erano sparsi nel contado di Parma, Reggio, Modena, Piacenza, Lodi, Pavia, Milano e Como, in Toscana, Romagna, nella Marca di Berengario e in tutto il regno d’Italia. Questa pur sintetica enumerazione di averi dimostra le immense ricchezze possedute da Vibodo. Dopo la morte di Volgunda, tutte le anzidette possessioni sarebbero passate jure proprietario ai sacerdoti canonici e al rimanente clero della Chiesa parmense. Non è certo se, prima o dopo aver steso il testamento, partecipò della sua liberalità anche la Chiesa piacentina, come fa menzione un antico antifonario: qui Placentinae ecclesiae multa praedia dedit. L’imperatore Guido concesse il 18 luglio 892, acconsentendo alle preghiere di Vibodo, una grazia a un suo fedele chiamato Fulcrodo. Lo stesso anno, tra il settembre e il dicembre, l’imperatore Guido riconfermò un privilegio di Carlo iii: la concessione dell’abbazia di Mezzana. intanto Berengario, scacciato dall’imperatore guido, chiamò in soccorso Arnolfo, re di germania, che calò in Italia nell’894. Non potendo resistergli, Guido si ritirò dalla Lombardia. Vibodo ricorse ad Arnolfo e ottenne da Ivrea il 17 aprile un rescritto che gli convalidò, per intercessione di Attone arcivescovo di magonza, tutte le sue proprietà in Italia, indicando specificatamente quelle poste al Capo della Parola e verso i confini di Soragna e di San Secondo sino a Sacca, nel Comasco il vecchio monastero di Santa Maria e nei confini della Toscana la corte di Corniolo. Nel frattempo arnolfo, non ritenendosi sicuro, si mosse per lasciare l’Italia. Guido lo inseguì con i parmigiani a lui favorevoli ma, giunto al fiume Taro, morì soffocato da un’emorragia interna. vibodo allora ne fece trasferire il cadavere a Parma e gli diede onorevole sepoltura nella cattedrale, davanti all’altare di San Remigio. Carico di anni, dopo aver vissuto e partecipato alle vicende politiche del suo tempo per trentacinque anni, Vibodo morì (Quarto Kalendas decembris obiit D. Vibodus Episcopus parmen-sis). Fu sepolto nella cappella di San Michele Arcangelo della Cattedrale di Parma. Quando la Cattedrale fu rifabbricata fuori della città, la sua cassa funebre venne collocata sopra la porta della sagrestia. Una tarda epigrafe fu murata nel pilastro sotto la grande cupola, a destra dell’altare, presso gli stalli dei canonici: Vidiboldi Epi. Parmen. ossa Anno D. cccvic. quando i canonici rinnovarono il suo sepolcro nel 1567, collocarono al di sopra dell’altra la seguente iscrizione: Vidiboldo Caroli Magni nepoti Ecclesiae Parmen Episcopo et comiti viro religiosissimo canonici Parmen. beneficii non immemores dignitatis eor authori P. mdlxvii. L’elogio più bello di Vibodo è quello che si legge nell’Ordinario di fra Bernardo del 1417: Quod fuerit Parmensis Ecclesiae illuminator, dotator almus et Episcopus dignissimus.
FONTI E BIBL.: R.Pico, Appendice, 1642, 224-225; N. Pelicelli, Vescovi della Chiesa Parmense, 1936, 53-68; A. Schiavi, Diocesi di Parma, 1940, 237.

VIBOLDO, vedi VIBODO

VICEDOMINI EUGENIO, vedi VISDOMINI EUGENIO

VICEDOMINI GHERARDO 
Parma 1184/1200
Fu podestà di Parma nell’anno 1200. fu console e rettore della stessa città negli anni 1184-1191.
FONTI E BIBL.: E.Scarabelli Zunti, Consoli, governatori e podestà, 1935, 6, 7, 8, 9.

VICENZI ANTONIO MARIA LUIGI 
Parma 16 aprile 1768-Parma 18 giugno 1833
Figlio di Domenico e di Dorotea Alverà. Studiò legge e ben presto entrò nella carriera della magistratura, raggiungendo una posizione eminente. Fu dapprima fiscale a Guastalla. trasferitosi a Parma, ebbe lo stesso impiego nel Supremo consiglio di Giustizia criminale, presso il quale ebbe tre mesi dopo la carica di Luogotenente criminale. Fu poi chiamato a Piacenza come giudice di Tribunale di Prima istanza, promosso l’anno seguente a vicepresidente. Ritornato a Parma, dal 1808 al 1820 fu Procuratore imperiale e Procuratore fiscale. Nel 1820 fu promosso Presidente del Tribunale civile e criminale di Parma. Ebbe nomina di cavaliere dell’Ordine costantiniano di San Giorgio. Ammalatosi di encefalite (1830), fu costretto a rinunciare al lavoro, ma Maria Luigia d’Austria, che ne apprezzava le altissime doti, gli diede il titolo di Consigliere di Stato onorario e di Presidente emerito. Fu membro della Commissione per la compilazione del Codice del Ducato.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 1833, 202; . ArrigoniG.B. janelli, Dizionario biografico dei Parmigiani illustri, 1877, 466-467; A.V.Marchi, Figure del Ducato, 1991, 120.

VINCENZI DOMENICO, vedi VINCENZI FRANCESCO

VICENZI FRANCESCO
Sissa 13 aprile 1762-Parma 1 settembre 1830
Frate cappuccino. Compì la vestizione a Guastalla (27 febbraio 1779) e la professione solenne il 27 febbraio 1780. Dopo aver compiuto gli studi a Parma, fu predicatore, lettore a Parma, Piacenza e Bologna, guardiano a busseto e a Parma, definitore per decreto pontificio e Commissario Generale per le province di Bologna e di Lombardia (1823).
FONTI E BIBL.: Sonetti in lode dell’esimio oratore il M.R.P. domenico Vicenzi, Lettor Cappuccino, dedicati a S.A.R.D. Ferdinando Borbone, Parma 1791, per Marco Rossi, e Andrea Ubaldi; Al merito insigne del M.R.P. Domenico Vicenzi da Parma, predicatore quaresimale nella chiesa di S. Maria Maggiore in Brescello l’anno 1826, Parma, dalla Stamperia Blanchon; F. da Mareto, Biblioteca Cappuccini, 1951, 237; A. Bacchini, Sissa, 1973, 53; G. Capelli, Sissa, 1996, 107.

VICENZI GIUSEPPE
Sissa 29 luglio 1755-Piacenza 23 ottobre 1841
Laureatosi nel 1779, si diede alla professione di notaio. Fu uno dei procuratori causidici di Corona e ben presto cominciò a esercitare uffici commessigli dal Governo. Ebbe titolo di Agente camerale per le terre dei Mezzani e incarico di esercitare le funzioni di Podestà in quei luoghi. Il duca Ferdinando di Borbone gli diede onorevoli dimostrazioni di stima e fiducia. Per sei anni fu Giusdicente nella ducale Pretura di Montechiarugolo e per altrettanti Commissario in quella delle ferriere. Fu poi Commissario a Borgo taro e giudice nel Dipartimento degli Appennini a pontremoli. Tornò a Parma nel 1814 e all’istituzione dei Tribunali fu nominato Giudice di prima istanza in Piacenza. Nel giugno del 1831 fu promosso al Tribunale di Appello e nel 1834, collocato a riposo. Fu infine nominato Consigliere emerito.
FONTI E BIBL.: L.U. Cornazzani, in Gazzetta di Parma, 1841, 369; G.B.Janelli, Dizionario biografico dei Parmigiani, 1877, 467-468; G. Capelli, Sissa, 1996, 108.

VICENZI LUIGI 
Parma 23 agosto 1843-Parma 18 o 19 gennaio 1872
Figlio di Carlo e Guglielmina Schwing. contemporaneo dei due Catelli e in particolare quasi coetaneo di Attilio, che gli fu amico, fu tuttavia meno noto di loro, forse perché, la sua breve attività letteraria si svolse in gran parte fuori della sua città natale. Il Vicenzi difatti abbandonò Parma poco più che ventenne, quando, in ragione dell’impiego che aveva alla Banca nazionale, dovette trasferirsi a Ferrara e successivamente a Modena. Non condusse a lungo la vita dell’impiegato, perché volle darsi alla letteratura, verso cui si sentiva attratto e di cui aveva già dato giovanissimo saggi promettenti. Le sue tendenze lo portarono più particolarmente al teatro e al romanzo.Per quest’ultimo ebbe migliori attitudini perché essendo dotato di viva immaginazione che lo indusse a creare trame complesse di avvenimenti, lo svolgimento trovava meglio la necessaria ampiezza atta a temperarne e giustificarne le frequenti inverosimiglianze nell’orditura del romanzo anziché nel breve ciclo della rappresentazione scenica. C’è da credere che, se il Vicenzi fosse più lungamente vissuto, avrebbe finito per dedicarsi con discreta fortuna a questo genere letterario, nel quale un primo lavoro, La Bisa, gli aveva già procurato un buon nome, tanto che l’editore Barbini gliene commise un secondo, di cui, sotto il titolo Un bacio al cimitero, poté scrivere solo la prima parte e che fu poi, dopo la sua morte, condotto a termine da Parmenio Bettoli. La forma di questi due romanzi, per lo stile piano e quasi trasandato, per la vivacità del colorito e la copia degli episodi, può dirsi quella tipica del romanzo popolare o di appendice. Come commediografo, il Vicenzi fu precocissimo: il suo primo dramma, La vendetta del tempo, lo scrisse a sedici anni e lo dedicò, in data di Parma 10 giugno 1860, al suo buon maestro ferdinando Razzoli. Sarebbe più interessante conoscere il suo secondo lavoro teatrale, che dal titolo apparirebbe di argomento locale: I Misteri della Corte di Don Ferdinando I duca di Parma. Questo dramma fu rappresentato al Regio di Parma il 16 ottobre 1862, sembra con scarso successo, dalla compagnia di antonio stacchini, di cui era prima attrice Carolina Civili, ma non fu, come il precedente e come altri del Vicenzi, dato alle stampe e così nulla è dato saperne. le altre opere teatrali che si trovano pubblicate nella galleria del Barbini sono Diana la peccatrice (pubblicata prima sotto il titolo Il modello dell’Accademia di Roma, ferrara, tip. Bresciani, 1863), Un gentiluomo savoiardo, Due uomini onesti, Ciò che succede alle ragazze e Un chiodo nella serratura. Meno i due ultimi, gli altri, come la Vendetta del tempo, appartengono al genere dei drammi sensazionali e più precisamente a quella sottospecie del romanticismo di scarto che era di moda tra il 1860 e il 1870, con travestimenti, balli mascherati, vincite favolose al tappeto verde, cambiamenti di stato, di fortuna, di nome e simili ingredienti. Queste commedie peraltro furono rappresentate con successo e con onore qualche volta di repliche nei principali teatri italiani, a quanto assicura Attilio Catelli nella affettuosa biografia scritta in memoria dell’amico, nel Diavoletto, all’indomani della sua morte. Di rappresentazioni parmigiane di drammi del Vicenzi, oltre quella del 1862, è ricordata soltanto quella del gentiluomo savoiardo, recitata il 5 maggio 1863 al teatro diurno nell’edificio delle carrozze presso porta San Michele, per beneficiata dell’attore Salussoglia: la Gazzetta di Parma e il patriota sono concordi nel constatarne l’esito felice. Una commedia educativa del Vicenzi fu pure recitata dalle convittrici delle scuole di San Paolo, col titolo Leggerezza e bontà d’animo, lodata dal giornale L’amico dell’operaio del 17 febbraio 1866. Più dei suoi drammi, hanno pregio per spontaneità dell’azione e spigliatezza del dialogo, la commedia e la farsa, che formano il bagaglio leggero della sua produzione drammatica.La farsa Un chiodo nella serratura è anzi abbastanza nota e rimase a lungo nel repertorio dei brillanti. Il Vicenzi fondò in Modena nel dicembre 1870 il Diavoletto, giornale prevalentemente teatrale, che cedette poi dopo pochi mesi al suo amico Catelli, il quale lo trasportò a Parma e ne fece un giornaletto umoristico. Rientrato a Parma, il Vicenzi vi morì all’età di soli 29 anni.
FONTI E BIBL.: E. Bocchia, Commediografi parmigiani, in Gazzetta di Parma 4 aprile 1923, 1; E. Bocchia, La drammaturgia a Parma, 1913, 221.

VICENZI UGO
Guardasone 1907-Borgo Val di Taro 3 aprile 1981
Fu pilota combattente pluridecorato, protagonista di molti duelli aerei della guerra d’Africa e nella seconda guerra mondiale. Rischiò spesso la vita guadagnandosi importanti riconoscimenti. fu infatti decorato con una medaglia di bronzo e una medaglia d’argento al valor militare, con le seguenti rispettive motivazioni: esemplare comandante di squadriglia da bombardamento, trascinatore dei propri gregari con l’esempio, partecipava con audacia e bravura a tutte le imprese aeree della campagna coloniale. Durante la battaglia dell’Ascianghi, alla testa della sua squadriglia si prodigava infaticabilmente in bombardamenti e mitragliamenti a bassa quota, ritornando più volte con l’apparecchio colpito e contribuendo ad infliggere gravi perdite al nemico. Navigatore calmo e deciso, effettuava rischiose esplorazioni in zone lontane e sconosciute, superando ogni avversità atmosferica, raggiungendo sempre l’obbiettivo ed espletando completamente la missione affidatagli (Cielo dell’Ascianghi, Tana, Scioa, 9 marzo-21 maggio 1936); Comandante di squadriglia da bombardamento terrestre, partecipava col suo reparto a numerose azioni di ricognizione offensiva e di bombardamento in appoggio alle truppe in marcia per l’occupazione dei restanti territori occidentali dell’Impero. esempio ai suoi gregari di magnifiche virtù militari (Cielo dell’Africa Orientale, maggio-novembre 1936). Terminata la guerra, assunse incarichi anche nell’ambito della Nato. Il Vicenzi fu collocato a riposo col grado di generale di squadra aerea. Si trasferì poi a Bedonia, dove visse a Coste della romana con la famiglia. Morì a 74 anni e fu sepolto a Bedonia.
FONTI E BIBL.: G. Corradi-G. Sitti, Glorie alla conquista dell’Impero, 1937, 379; Gazzetta di Parma 5 aprile 1981, 15.

VICENZI VINCENZO 
Parma 26 maggio 1785-Parma 1856
Figlio di Giuseppe, procuratore legale della Corona, e Anna Campanini. Studiò legge. La sua carriera andò via via facendosi più brillante, fino a raggiungere i più alti gradi: Esattore delle contribuzioni dirette in vari luoghi del Piacentino, nel 1816 fu promosso Segretario della Suprema giunta di Censimento e nel 1817 Controllore delle Contribuzioni dirette a Piacenza. Nominato ispettore di Contabilità nel 1821, nel 1826 lo fu delle Casse pubbliche e del Catasto. L’abilità e l’onestà gli valsero l’apprezzamento dei Piacentini e di Maria Luigia d’Austria che, dopo i moti del 1831, gli affidò l’amministrazione del patrimonio dello Stato di Parma e Piacenza, incarico in quei momenti particolarmente gravoso. Nello stesso tempo fu presidente di una Commissione per le riforme ai decreti concernenti le contribuzioni dirette. Il suo efficace intervento nelle questioni patrimoniali dello Stato durato quindici anni gli fruttò, da parte di Maria Luigia d’Austria, la nomina a cavaliere dell’ordine costantiniano di San Giorgio. Il vicenzi fu molto stimato da Vincenzo mistrali, che per due volte, nell’impossibilità di svolgere la sua attività perché ammalato, si fece sostituire da lui: nel 1838 e nel 1846, poco prima di morire. Secondo il Mistrali, il vicenzi svolse le sue funzioni con satisfazione di lui, del Pubblico, del Sovrano. Il Vicenzi si comportò in modo leale anche sotto Carlo di Borbone, ma durante i moti del 1848 fu accusato e destituito. Le ingiuste accuse furono conttrobattute da una difesa a stampa divulgata dall’avvocato Carlo Giarelli. Ciò nonostante rifiutò l’offerta del generale Degenfeld di reintegrarlo nella carica. Accettò invece più tardi, da Carlo di Borbone, di presiedere all’amministrazione delle Contribuzioni indirette in qualità di Commissario straordinario. Fu nominato Commendatore dell’Ordine costantiniano di San Giorgio, insignito della Gran Croce dell’ordine di San Lodovico ed ebbe il titolo di Ministro di Stato onorario. Ammalatosi gravemente, non volle rinunciare al proprio lavoro, che svolse fino alla fine dei suoi giorni.
FONTI E BIBL.: A.V.Marchi, Figure del Ducato, 1991, 122.

VICO ENEA
Parma 19 gennaio 1523-Ferrara 18 agosto 1567
Dopo una prima formazione letteraria e artistica avvenuta nella città natale, si trasferì giovanissimo a Roma (1541) dove si impegnò nelle botteghe degli incisori di stampe a carattere antiquario del Barlacchi e del Salamanca (per il Barlacchi eseguì nel 1542 ventiquattro incisioni tratte da grottesche antiche e altre stampe). Per la sua formazione si fanno i nomi del Bonasone, del Caraglio e di Agostino veneziano, ma la chiarezza e il vigore delle migliori opere presuppongono innanzitutto lo studio di Marcantonio Raimondi. La sua cultura, volta alla classicità romana antica e moderna (oltre alle già ricordate stampe dalle grottesche antiche, riprodusse con una certa libertà opere di Michelangelo, Raffaello, Perin del Vaga, Vasari, Rosso, Salviati), restò legata alla sua prima educazione parmense, soprattutto parmigianinesca. Partito da Roma, dopo una sosta a Firenze presso Cosimo Medici (1545), si stabilì a Venezia dal 1546 al 1563, anno in cui passò al servizio di Alfonso d’Este a Ferrara, restandovi fino alla morte. Del Vico si conservano circa cinquecento stampe, molte delle quali raggruppate in serie e raccolte. Tra queste, Le immagini delle donne auguste (Venezia, 1577), 63 stampe con le effigi tratte da medaglie romane, la serie delle 42 Figure allegoriche (B. 50-91), gli Antichi filosofi (B. 92-99), le serie delle Gemme e cammei antichi (B. 100-133) e dei Vasi antichi (B. 420-433), del 1543, monogrammata AE.V. Tra le stampe singole si segnalano la Sepoltura di Cristo da Raffaello, Giuditta da Michelangelo, il Ratto di Elena, l’Accademia del disengo di B. bandinelli e i ritratti, che furono molto apprezzati (tra questi, il Ritratto di Carlo V, lodato dall’imperatore, quelli di Enrico II, del Doni e dell’Ariosto). Al servizio di Alfonso II, oltre a continuare la sua attività incisoria (intagliò tra l’altro l’albero genealogico degli Estensi per la Storia della famiglia d’Este di G. Faletti), si dedicò a reperimenti, acquisti e catalogazioni della raccolta di monete antiche di casa d’Este, in cui profuse la sua cultura di umanista e di numismatico. In questo campo sono da ricordare i volumi Immagini con tutti i riversi trovati et le vite degli imperatori (1548), Discorsi sopra le medaglie degli antichi (1555), pubblicati con la collaborazione dell’erudito A. Zantani, e Commentari alle antiche medaglie degli imperatori romani (1560). Dettò le prime regole per distinguere le medaglie antiche dalle false, per cui può dirsi, con Sebastiano Erizzo, il fondatore della critica numismatica.
FONTI E BIBL.: Benché non esista un corpus critico dei libri di Enea Vico, l’analisi delle fonti e dei repertori consente di tracciare un elenco piuttosto preciso sia delle opere a stampa sia delle raccolte di stampe precedute da frontespizio da lui realizzate.Si vedano: G. Vasari, Le Vite dei più eccellenti pittori scultori architetti, Firenze, 1568, edizione a cura di G. Milanesi, Firenze, 1986, V, 427 ss.; J.P. Bellorii, Adnotationes, nunc primum evulgate, in XII primorum Caesarum numismata ab Aenea Vico parmensi olim edita, Romae, 1730; G. Tiraboschi, Storia della letteratura italiana, Modena, 1742, VII, parte III, 859; G. Gori Gandellini, Vico Enea, in Notizie istoriche degl’intagliatori, Siena, 1771, III, 366; I. Affò, memorie degli scrittori e letterati parmigiani, Parma, 1741, IV, 107-122; A. Zani, Vico Enea, in enciclopedia Metodica critico-ragionata delle arti, dell’abate Pietro Zani fidentino, Parma, Biblioteca Palatina, Fondo Parmense, ms. 3627, VI; A. Bartsch, Le peintre graveur, Vienne, 1813, XV, 282, 368; A. Pezzana, Continuazione, 523-540, 828, 968 s.; A. Pezzana, Enea Vico, in Strenna Parmense a beneficio degli Asili per l’infanzia, II, 1843, 247-s.; G. Gruyer, L’art ferrarais à l’époque des princes d’Este, vol. I, 224 s., Parigi, 1897; G.B. Janelli, Vico Enea, in Dizionario biografico dei parmigiani illustri, genova, 1877, 468 s.; G. Campori, Gli artisti italiani e stranieri negli stati estensi, Modena, 1885, 485-488; G. Campori, Enea Vico e l’antico museo delle Medaglie, Ferrara, 1873; L. Servolini, Vico Enea, in Thieme-Becker, vol. XXXIV, 1940, 328-329; E. Bénézit, VIII, 1955, 555; Catalogue general, 523-540; British Museum, General catalogue, 374 ss.; Vico Enea, in Dizionario enciclopedico Bolaffi dei pittori, XI, 1976, 322-323.; La letteratura numismatica nei secoli XVI-XVII. Dalle raccolte della Biblioteca di Archeologia e Storia dell’arte (catalogo della mostra), Roma, Palazzo Venezia, 29 maggio-31 giugno, a cura di I. scandaliato Ciciani, con un saggio introduttivo di F. Panvini Rosati, Roma, 1980, XI s., 6 s.; F. Bassoli, Monete e Medaglie nel libro antico dal XV al XIX secolo, Firenze, Olschki, 1985, 10 s.; M. Zorzi, I collezionisti del secondo Cinquecento, in Collezioni di antichità nei secoli della Repubblica (dai libri e documenti della Biblioteca Marciana) (catalogo della mostra), Biblioteca Nazionale Marciana, 27 maggio-31 luglio, a cura di M. Zorzi, con un saggio di I. Favaretto, Roma, I.P.Z.S., 1988, 70 s.; I. favaretto, Memoria dell’immagine e immagine della memoria: significato e valore del catalogo illustrato nella storia delle collezioni veneziane di antichità, in Collezioni di antichità, Roma, 1988, 170; G. bodon, Un approccio metodologico allo studio del collezionismo di antichità. Analisi delle fonti e proposte di ricerca sul Museo Bembo, in Quaderni di Archeologia del Veneto IX 1993, 167 s.; F. Haskell, History and its images; art and interpretation of the past, London, Yale U.P., 1993, 16 s., 17, 20 s., 23, 32, 54, 57, 89, 112, 121; F. Missere Fontana, Raccolte numismatiche e scambi antiquari del secolo XVI. Enea Vico a venezia, quaderni Ticinesi XXII 1994, 343-383; A. Gatti, Sui mancati emblemi dei Second Characters di Lord Shaftesbury, in Bollettino del Museo Bodoniano di Parma VIII 1995, 142 e 160 s.; C. Cavalca, Un contributo alla cultura antiquaria del XVI secolo in area padana: Le imagini delle donne Auguste di Enea Vico, in Arte Lombarda 1995, 113-114; C. Huelsen, Das Speculum Romanae Magnificentiae de Antonio Lafreri, in Collectanea Variae doctrinae (festschrift für Leo S. Olschi), München, 1924; M. Pittaluga, L’incisione italiana nel Cinquecento, Milano, 1930; A. de Witt, Galleria degli Uffizi. La collezione delle stampe, catalogo, Roma, 1938; C.A. Petrucci, catalogo generale delle stampe tratte dai rami incisi posseduti dalla Calcografia Nazionale, Roma, 1953; A. Petrucci, Panorama della incisione italiana: il cinquecento, Roma, 1964; M. Rotili, Fortuna di michelangelo nell’incisione, catalogo della mostra, benevento, 1964; A. Omodeo, Mostra di stampe popolari venete del ’500, catalogo, Firenze, 1965; K. oberhuber, Renaissance in Italien XVI Jahrhundert, catalogo della mostra, Wien, 1966; J.-D. Passavant, in Le peintre-graveur, VI, Lipsia, 1864; L.N. Cittadella, Documenti e illustrazioni riguardanti artisti ferraresi, Ferrara, 1868; Enciclopedia italiana, XXXV, 1937, 299; Arte incisione a Parma, 1969, 32; G.C. Mezzadri, in Gazzetta di Parma 11 maggio 1998, 5.

VICTORIA 
Parma I secolo a.C./V secolo d.C.
Fu di condizione probabilmente schiavile, co<n>iu(n)x di Politicus (servus) publicus, cui dedicò un’epigrafe insieme a Callistratus frater. La denominazione, abbastanza comune dappertutto e anche in Cispadana, è documentata a Parma nella forma Victorina.
FONTI E BIBL.: M.G. Arrigoni, Parmenses, 1986, 194.

VIDIBOLDO, vedi VIBODO

VIDOLETTI ANGELO
Parma 1720/1746
Fu cantore alla Steccata di Parma nel 1734 e alla Cattedrale di Parma dal 3 maggio 1720 al 25 dicembre 1746.
FONTI E BIBL.: Archivio della Steccata, Mandati 1734; Archivio della Cattedrale, Mandati, 1700-1725, 1726-1747; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 168.

VIENCIO 
Bazzano 1004/1005
Arciprete di Bazzano ricordato nel documento Ordo Archipresbyterorum Plebium, riguardante l’atto di donazione di un mulino posto sul lorno fatta alla chiesa di San Giovanni battista di Colorno dal vescovo di Parma Sigifredo II in data 11 giugno 1004. Firmarono questo atto gli arcipreti delle pievi di Parma: all’ottavo posto figura Viencius Archipresbyter sancti Ambrosii de Bagiano.
FONTI E BIBL.: F. Barili, Arcipreti di Bazzano, 1976, 9.

VIETTA FERNANDO
Parma 24 marzo 1895-Parma 3 marzo 1962
Figlio di Luigi e Oriele Montecchi. Laureatosi nel dicembre del 1922 presso la Real Scuola di commercio di Venezia, per anni svolse a Parma un’intensa attività nel campo dell’Azione Cattolica diocesana, in quello della cooperazione del credito, in quello sindacale e nel campo politico propriamente detto. Nel 1919 fu Presidente della Federazione giovanile cattolica parmense, preoccupandosi soprattutto della preparazione teorico-pratica dei giovani nell’azione economico-sociale. Nel 1921 venne eletto Presidente della costituita Giunta diocesana. Con M. Valenti, F. Corini, B. Arnone, G. Del Monte e sotto la guida di G. Micheli, partecipò attivamente alla costituzione in tutto il territorio parmense delle sezioni del Partito Popolare Italiano. Nel settembre 1919 partecipò, sempre sotto la guida di Micheli, con Arnone, Valenti e Del Monte alla costituzione a Parma dell’Unione Lavoratori, centro di coordinamento e di propaganda degli istituti economici e delle forze sindacali parmensi, riconosciuta dalla Confederazione Italiana Lavoratori al termine dello stesso anno. Ricoprì nel 1921 la carica di Segretario dell’Unione. Nel campo della cooperazione e del credito il Vietta promosse e sviluppò organismi cooperativi nella provincia parmense e tenne diverse conferenze sull’argomento. Nel 1926 pubblicò a Roma l’opera, ripresa dalla sua tesi di laurea, Uno sguardo sull’attività dei cattolici italiani nel campo della cooperazione e del credito dal 1900 al 30 settembre 1923 (strumento fondamentale per la storia del movimento cooperativo cattolico). Nei confronti del fascismo condivise in un primo tempo l’atteggiamento possibilista dei Popolari parmensi, facenti capo a G. Micheli. Ma, fallito nel febbraio del 1923 l’ennesimo tentativo di collaborazione (condizionata), condivise la scelta dei popolari parmensi di ritirarsi da tutte le amministrazioni cittadine, rassegnando le proprie dimissioni dal Consiglio di amministrazione della locale Cassa di risparmio. Il Vietta continuò a partecipare attivamente alla vita del partito come membro del Consiglio direttivo. Dopo il delitto Matteotti, nel luglio 1925 entrò nel comitato parmense delle opposizioni. Costretto a lasciare ogni attività politica, il Vietta fino al 1931 ricoprì la carica di Presidente della Giunta diocesana di Azione Cattolica. Durante gli anni del fascismo continuò a svolgere l’attività professionale di avvocato. Nel dopoguerra aderì alla Democrazia Cristiana.
FONTI E BIBL.: C. Pelosi, Note e appunti sul movimento Cattolico a Parma, in Quaderni di Vita Nuova, Parma, 1962; G. Micheli e il Movimento Cattolico, Parma, 1979; F. Canali, La Gioventù Cattolica a Parma negli anni del pontificato di Pio XI, in CAF, 953-967; V. Cassaroli, Popolari e fascismo nel parmense tra le due guerre, in CAF, 968-983. Per quanto riguarda la stampa si vedano in particolare: La giovane montagna, settimanale diretto da G. Micheli, dal 1920 organo di stampa dei popolari parmensi (1919-1930 e 1936-1939); Vita nuova, settimanale della diocesi parmense (1919-1939); La fiamma, organo della federazione provinciale fascista (1921-1934); L. Turiello, in Dizionario storico del movimento cattolico, III/2, 1984, 894.

VIETTI ANTONIO
Parma prima metà del XVI secolo
Maestro da muro attivo nella prima metà del XVI secolo.
FONTI E BIBL.: E.Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, III, 398.

VIGENTINI GUIDO
Collecchio 1891-Monfalcone 4 settembre 1917
Figlio di Raffaele.Studente in legge, durante la prima guerra mondiale fu Capitano nel 65° Reggimento Fanteria. Fu decorato di medaglia d’argento al valor militare. Morì in combattimento, in seguito a ferita d’arma da fuoco alla testa. Fu sepolto dal nemico il 9 settembre 1917 nel Cimitero Militare di Nabresina.
FONTI E BIBL.: G. Sitti, Caduti e decorati, 1919, 254; U. Delsante, Dizionario dei Collecchiesi, . Arrigoniin Gazzetta di Parma 28 marzo 1960, 3.

VIGENTINI UGO 
Collecchio 16 ottobre 1892-San Jacob 25 giugno 1915
Nell’anno scolatico 1912-1913 fu iscritto al primo anno d’ingegneria dell’Università di Parma. Sottotenente nella 5a . ArrigoniBatteria del 40° Reggimento Artiglieria, cadde combattendo valorosamente a quota 693, nei pressi di San Jacob. Al suo nome l’Università di Parma conferì la laurea ad honorem in ingegneria il 5 novembre 1917.
FONTI E BIBL.: Caduti Università parmense, 1920, 102; U. Delsante, Dizionario dei Collecchiesi, in Gazzetta di Parma 4 aprile 1960, 3.

VIGHI ALBERTO 
Parma - 1903
Fu professore ordinario di diritto commerciale nell’Università di Camerino.
FONTI E BIBL.: Alberto Vighi, in Annali Università di Parma 1904, 119-120; F. da Mareto, Bibliografia, II, 1974, 1146.

VIGHI ERCOLE
Traversetolo 7 maggio 1927- Parma 31 dicembre 1990
Nato da famiglia di modesta condizione sociale, il Vighi si appassionò ben presto alla pittura, cominciando a dipingere quadretti delicati e intrisi di ingenuità. L’avvenire del Vighi si decise quando il suo carretto del latte, dipinto con misurata compostezza, in toni morbidi e soffusi, fu notato da Latino Barilli, che ne caldeggiò con fervore presso la famiglia la precoce vocazione artistica. Ammesso nel 1945 all’Istituto d’arte Paolo Toschi di Parma (ma già svezzato all’arte del disegno dal maestro Bernini), il Vighi vi effettuò i primi studi regolari sotto la guida di Latino Barilli e di Umberto Lilloni, diplomandosi a pieni voti il 12 luglio 1949. Fondamentale, nella sua formazione, fu il successivo, ancorché breve, alunnato all’Accademia Braidense di Milano, presso Marino Marini, di cui assorbì il mestiere sapientissimo e certo gusto formale. rientrato appena un anno dopo a Traversetolo per l’improvvisa morte del padre, iniziò l’attività plastica come ceramista nella manifattura di ceramiche artistiche La Farnesiana, esperienza che subito mise a frutto nel ritratto di Adriana e Giovanni Tonelli in maiolica porcellanata e in alcune leggiadre sculture ornamentali su temi esotici rivisitati con sottile ironia, in cui l’elegante virtuosismo del modellato pieno e nervoso sublima la povertà della materia. Parallelamente iniziò l’attività d’insegnamento, dapprima presso la Scuola media alessandro Manzoni di Traversetolo e più tardi, a seguito di un pubblico concorso tentato dietro suggerimento del direttore Carlo Corvi, presso l’Istituto d’arte Paolo Toschi di Parma, dove tenne la cattedra di Plastica dal 1957 al 1980. la profonda serietà, la forza d’animo e l’impegno, fecero del Vighi un maestro amato da generazioni di giovani e gli valsero la nomina ad Accademico effettivo nella classe degli scultori (3 dicembre 1973). Contemporaneamente il Vighi iniziò con lo scultore Corvi un sodalizio profondo e duraturo che diede frutti specialmente nel campo della produzione monumentale (la statua equestre e le decorazioni plastiche per la tomba e la fontana del presidente del Nicaragua Anastasio Somoza, a Managua) e in quello della plastica decorativa (i rilievi ornamentali commissionati dalla Cassa di Risparmio di Parma per l’Agenzia di via Massimo d’Azeglio e le quattordici stazioni di bronzo per la Via Crucis a Vedole di colorno). Negli stessi anni il Vighi fu impegnato nella realizzazione delle sue prime opere importanti: del 1953 è la monumentale copia della statua di Maria Luigia in sembianze di Concordia del Canova, eseguita su commissione della Camera di Commercio per la Mostra della Conserve del 1955, nel 1954 partecipò al concorso per il Monumento al partigiano da erigersi in Piazzale della Pace, con un bozzetto di grande resa espressiva che gli valse una menzione speciale, nel 1959 realizzò per il Monumento ai Caduti di Zibello due pannelli bronzei da collocarsi ai lati della stele marmorea, con figure di soldati dolenti (eppure titaniche ed eroiche), di un realismo magicamente trasfigurato dalla rigorosa asciuttezza del modellato e dalla rude coincisione dei volumi. Nel 1953 il Vighi partecipò alla fondazione dell’Unione Cattolica Artisti Italiani e fu presente alle collettive organizzate nel 1961, 1963, 1965, 1971, 1972, 1983, 1985 e 1988. Occasioni di confronto e di riconferma della sua notorietà si crearono anche nelle personali del 1968, allestita alla Galleria Sant’Andrea di Parma con l’amico Guido Montanari, del 1975 a Traversetolo, insieme con Luigi Carpi e Rolando Campanini, del 1984 sempre a Traversetolo alla Galleria Arte e Vita, oltre che in numerose collettive a Milano, Montecatini e Marina di Massa e nell’importante rassegna degli Accademici parmensi, presso l’Aula magna dell’Istituto d’Arte, nel 1986. Negli anni Ottanta il Vighi dimostrò inalterati l’impegno artistico e la disponibilità a una effettiva promozione culturale, aderendo all’associazione Parmense Artisti e partecipando alle manifestazioni d’arte che la videro coinvolta: la rassegna collettiva al Palazzo Ducale di Colorno nel 1981, Parma. Le barricate nel 1982, figura, Natura morta e Paesaggio nel 1983, omaggio a Padre Lino e Personaggi e luoghi verdiani nel 1984, Arte e Cibo nel 1986. Gli anni sessanta furono anni di lavoro intenso e di felice ispirazione, soprattutto sul versante delle tematiche religiose e della ritrattistica. Di grande resa espressiva, per il modo essenziale e personalissimo di affrontare il tema sacro, è il gruppo del Battesimo di Gesù realizzato tra il 1960 e il 1961 per il battistero della chiesa di Santa Maria del Rosario a Parma. Per la stessa chiesa, nel 1962, in occasione della solenne consacrazione del 30 settembre, il Vighi eseguì anche la splendida Deposizione (di un arcaismo senza orpelli, dalla singolare purezza, quasi filtrato direttamente dall’Antelami), inizialmente collocata nella base della mensa eucaristica e in seguito destinata, secondo la volontà del Vighi stesso, a XIV stazione della Via Crucis. Del 1967 è la grande formella con l’Apparizione della Madonna di Fatima, collocata sulla facciata verso Piazza Vittorio Veneto della Casa Sociale per la gioventù cristiana di traversetolo, commissionata da monsignor Mario Affolti in occasione dell’apertura dell’Anno della Fede. Opera di grande compostezza formale, senza fronzoli né virtuosismi, ma al contempo pervasa da una poetica tenerezza nell’atteggiarsi, tra lo stupore e lo spavento dei tre fanciulli toccati dall’estatica rivelazione e come raggelati nel momento della divina apparizione, con le piccole labbra serrate e gli occhi sbarrati. Nel 1968, in concomitanza con le celebrazioni per la chiusura dell’anno di fede, il Vighi realizzò per la Casa Parrocchiale di Traversetolo una lunetta bronzea con il monogramma del nome di Maria attorniato da deliziose colombelle recanti nel becco rami di ulivo, da innestarsi sul portale d’ingresso verso il sagrato, e un bellissimo tondo alludente al popolo fedele, con tre chierichetti che cantano lodi alla Vergine, posto invece sulla facciata verso via San Martino, di cui non possono non colpire la felicità d’invenzione, la robustezza e al contempo la levigata purezza del dato plastico, nel turgore e nell’estrema politezza delle forme (ieratiche e quasi solenni, pur nella resa affettuosa dei dolci ovali dei visi). Negli stessi anni don Affolti gli commissionò anche il suggestivo San Giovanni Battista da porre sul fonte battesimale della chiesa di San Martino in Traversetolo. Nel 1978, dopo la morte del prelato, il Vighi ne realizzò l’intenso busto, ricco di echi rinascimentali, a cominciare dall’impostazione (il sacerdote è tagliato all’altezza del torace, mentre solleva la destra in atto benedicente), seppure riletti alla luce di un algido realismo. L’inesauribile vena creatrice del Vighi diede vita, in quegli stessi anni, a una cospicua serie di monumenti funebri, concretizzati in soggetti mai celebrativi o enfatici ma piuttosto semplici e teneri e immediatamente allusivi ad affetti terreni (le tombe della famiglia Carpi e di Renzo Dalla Chiesa alla Villetta di Parma, la decorazione plastica della Cappella Pelizziari e la tomba della famiglia Mattioli a Marore) e a una straordinaria galleria di ritratti e di piccole sculture muliebri, dal ritmo robusto ma disciplinato e severo. Sono bagnanti o ballerine dai morbidi chignon (spia di un inestinguibile amore per Arturo Martini), incarnazione di una bellezza limpida, misteriosa e arcana, fuori da un tempo definito da contingenze epocali. Tra i tanti ritratti (vanno menzionati almeno quelli più noti, Arturo Toscanini, Papa Giovanni XXIII, Padre Lino Maupas, e quelli, di un realismo analitico e puntiglioso, di alcuni maggiorenti locali, Vieri Borrini, Sergio Silva e Ida Mari), le opere più intense e palpitanti sono alcune teste infantili, come quella di Vittorio (delizioso nell’espressione indefinibile del volto paffuto, per nulla atteggiato al sorriso, a mezza strada tra l’assorto e l’imbronciato), che ha la pienezza, lo sguardo e la nettezza di un piccolo Gesù del Quattrocento, o di fanciulle appena sbocciate, come Barbara e Benedetta, bellissimi esempi di un purificato classicismo e di estrema politezza formale, pur con un gusto per i particolari (lo scollo dell’abito, la semplice catenella, l’acconciatura a riccioli accurati o severamente raccolta in un piccolo chignon sulla nuca). Assai proficua fu l’attività del Vighi anche nel campo della scultura animalista: disegnatore energico, come già Brozzi, seppe unire la scientifica precisione dello zoologo all’acuta intuizione dell’artista, così da cogliere i tratti caratteristici degli animali presi di volta in volta a modello, e non tanto per scrupolo scientifico o realismo, quanto perché quei particolari segnalano il carattere intimo dell’animale e la sua istintiva forza vitale tesa alla sopravvivenza. L’attività pittorica del Vighi, coltivata parallelamente a quella di scultore e declinata sui moduli accattivanti di un sobrio post impressionismo in versione intimistico-rustica (di incredibile freschezza sia per la particolare felicità della tavolozza sia per la materia leggera e la magra stesura del pigmento cromatico sia infine per l’affettuoso annotare delle cose domestiche del vivere quotidiano), rivela evidenti assonanze con la pittura di alcuni contemporanei: Umberto Lilloni, da cui sembra mutuare il pennellare minuto e il raffinato chiarismo, Renato Vernizzi, per certo naturalismo poetizzante, fatto di colori sussurrati, di piccole cose e di paesaggi appena velati da una dolce malinconia crepuscolare, e guido Montanari (amico di tante sedute al cavalletto en plein air), per taluni tagli paesaggistici coraggiosi e inconsueti e per quella sorta di felice turbinio di limpide gradazioni tonali, che affascinano nelle migliori vedute della Val Termina e della marina di portovenere. Tuttavia, oltre al parallelo evidente con il fare di questi artisti a lui prossimi e sodali, il dato stilistico senz’altro dominante nel lessico pittorico del Vighi può essere individuato (considerando nel suo complesso la cospicua produzione) nelle molteplici sollecitazioni, assimilate e rielaborate in una personale sfera espressiva, che gli offrì il panorama artistico parmense e il variegato humus figurativo emiliano (particolarmente caldo di umori e di vitalità) della seconda metà del XX secolo: le bottiglie coperte di polvere impalpabile di Proferio Grossi, i nidi magicamente costruiti con pennellini invisibili da Walter Benoldi o le freschissime nature morte con cardi di Luigi Carpi. L’essere rimasto fedele a una pittura dal vero genuina e fresca, non scossa da drammi ambigui o da intellettualismi aggrovigliati, non significò per il Vighi immobilismo o estraneità per inadeguatezza ma fedeltà a se stesso, onestà costante, coerenza implacabile e rifiuto consapevole di ciò che giudicò solo moda transeunte. La sua vocazione per l’arte fu profonda, intima ed essenziale: lavorò in modo schivo, appartato e infaticabile fino agli ultimi giorni della sua intensa parabola artistica.
FONTI E BIBL.: T. Marcheselli, Vighi, il genuino, in Gazzetta di Parma 6 gennaio 1969, 3; T. marcheselli, Ercole Vighi, in Cento pittori a Parma, Parma, La Nazionale, 1969, 244-245; T. Marcheselli, Mostra d’arte. Catalogo della mostra tenuta a Traversetolo dal 13 al 17 settembre 1975, Traversetolo, 1975; M. Pellegri, Ercole Vighi scultore, in Parma nell’Arte 2 1978, 139; M.D. Storari, Ercole Vighi, in associazione Parmense Artisti, Colorno, Comune, 1981, 62; M. Carbognani, Arte e vita, Traversetolo, 1984; T. Marcheselli, Morto Ercole Vighi pittore e scultore, in Gazzetta di Parma 2 gennaio 1991, 8; F. e T. marcheselli, Vighi Ercole (1927-1990), in Dizionario dei parmigiani, 1997, 323; A. Mavilla, Ercole Vighi (Traversetolo, 1927-1990), Traversetolo, amministrazione Comunale, 1997 (contiene: A. Mavilla, Ricordando Ercole Vighi. L’opera nell’arte come senso di una vita, 5-12; M. Pellegri, Ercole Vighi accademico, 14; L. Carpi, Buongiorno, si accomodi..., 15; m. Mordacci, Uomo semplice e schivo, artista genuino e istintivo, 16; R. Campanini, memorie di lavoro, 18).

VIGHI ERNESTO
San Secondo Parmense 1 aprile 1894-Parma 14 ottobre 1950
Nacque da una famiglia di agricoltori. Iniziò gli studi presso l’Accademia d’Arte di Parma sotto la direzione dello Spalmach, diplomandosi nella sezione scultura nel 1912 e ottenendo il premio Viaggio di istruzione artistica. Suoi maestri furono il pittore Cecrope Barilli e lo scultore Ettore Ximenes. Al termine degli studi, a soli diciotto anni, sotto la guida dello Ximenes, collaborò alla composizione del monumento che Parma dedicò a Giuseppe Verdi. Ufficiale combattente, ferito e decorato nella guerra 1915-1918, a conflitto terminato tornò a San Secondo Parmense e riprese a plasmare la creta, ispirandosi ai ricordi della trincea. Si trasferì a Roma nel 1922. Nel 1924 fu Professore incaricato di plastica decorativa nel Regio Istituto Professionale di Roma. partecipò a diversi concorsi per la cattedra di insegnamento del disegno e della scultura, ma nonostante fosse sempre stato giudicato idoneo, rimase docente incaricato per tutta la sua carriera di professore. Il 25 settembre 1923 si inaugurò in San Secondo Parmense il monumento realizzato dal Vighi a memoria dei caduti. È una figura di fante posta su una piramide di travertino. Statua ardente, è realizzata con una voluta rudezza di tratto che le dà forza. Nel 1924 la Commissione Giudicatrice per il Concorso per le fontane di Roma gli assegnò il premio di 2.000 lire per il bozzetto ideato per la Piazza dei Quitrini. Ha linee sobrie e semplici, architettura leggera e slancio nelle figure: è un bozzetto agile, svelto e ampio di respiro. Nel 1927 realizzò alcune opere religiose per la chiesa di Santa Maria degli Angeli ad Assisi e una statua per il monumento ai caduti di Pontecorvo. Nel 1933 diventò assistente dello Zanelli all’Accademia di Belle Arti di Roma. Il Vighi partecipò a numerose mostre. Nel giugno del 1933 a Roma fu presente con una personale al Circolo della Stampa Romana. Il Messaggero del 20 giugno 1933 nelle Note d’Arte, concludendo la nota critica sulla mostra, scrive: forza plastica, evidenza di espressione, dolcezza di movimento, forte senso di chiaroscuro, sintetismo di forma, sono queste le qualità che rendono all’artista la dovuta e non comune considerazione. Espose ancora a Salsomaggiore (tra le tante opere, presentò il Trasporto del ferito, acquistato dal Comune di Parma), a Monza nel maggio-ottobre 1925 (II Mostra internazionale delle arti decorative), a Roma nel 1925 (Terza biennale d’Arte, presente con le opere Maternità e lanciatore di palla), a Roma nel 1939 (quadriennale d’Arte Nazionale, partecipò con la scultura Afrodite). Partecipò inoltre alla mostra internazionale di Firenze e a quella d’Arte sacra a Roma con l’opera L’Annunciazione. Ancora prese parte a mostre organizzate dai Sindacati di Roma e infine fu presente a Ostia con statue e ritratti. Tra le sue opere più significative, vanno ricordate Santa Chiara e L’Annunciazione nella facciata di Santa Maria degli Angeli di Assisi, la Didattica nella facciata del palazzo del Ministero della Pubblica Istruzione, un magnifico bassorilievo nel Monumento ai Caduti di Pontecorvo, Il cieco nel Municipio di San Secondo Parmense, Il fante nel monumento ai caduti di San Secondo Parmense, Due figure poste all’ingresso del Cinema Teatro Regina di Roma e La pietà nella cappella gentilizia della famiglia Ferrari di San Secondo Parmense. Elaborò copie di ritratti, di studi di nudo ben modellati e armonici, complessi architettonici e gruppi di rilievo di salda linea. Il 29 dicembre 1930 partecipò a Roma alla prima Mostra internazionale di Arte Sacra e l’apposita commissione gli assegnò la medaglia d’argento. Nel 1923 venne eletto nel Consiglio di amministrazione dell’Associazione Artisti Internazionale, carica che mantenne per diverso tempo. Informato dell’uscita di una pubblicazione in occasione dell’inaugurazione del Monumento ai Caduti di San Secondo Parmense, disse: Se volete parlare di me, dite una sola cosa, di cui del resto vado sinceramente orgoglioso, dite che sono nato da umile gente, che dalla stessa povertà delle origini ho tratta la forza di sacrifici senza nome, che il piccolo posto che ho conquistato nel mondo è dovuto alle mie opere, alle mie azioni, ad un’attività senza posa, oscura, tenace invincibile. L’esperienza artistica del Vighi ricevette i suoi stimoli dai rapporti con la tradizione classica e dalle suggestioni della scultura moderna. I caratteri stilistici si ritrovano quindi nell’eleganza del modello, nella finezza del rilievo plastico e nella fluidità dei ritmi compositivi. Sono questi i valori che imposero la personalità del Vighi all’attenzione della cultura romana alla svolta degli anni trenta. Il Vighi ebbe una straordinaria capacità di manipolazione del materiale plastico, sia nel processo diretto della terra cotta che in quello mediato della fusione in bronzo. La materia calda della terra in cottura consentì al Vighi di toccare esiti di estrema dolcezza espressiva nei volti e di armoniosa eleganza nelle figure, e i passaggi del processo a cera persa lo condussero a risultati di vibrante tensione nella realtà ricercata nel bronzo. Un altro aspetto dell’attività del Vighi è costituito dall’esecuzione di opere per edifici pubblici a roma: il Ministero della Pubblica Istruzione, la sede dell’Azienda Trasporti urbani, la Stazione della linea ferroviaria Roma-Viterbo e altri. In questi interventi il Vighi si richiama ai modi della statuaria celebrativa e dell’espressività monumentale. È certo però che i valori più profondi della scultura del Vighi si ritrovano nei piccoli bronzi e nelle morbide terre cotte: in queste opere si impone come una delle personalità più interessanti della scultura italiana nel periodo degli anni trenta.
FONTI E BIBL.: A.M.Bessone, Scultori e architetti, 1947, 500; San Secondo, 1982, 51-54; A. Panzetta, dizionario scultori, 1990, 211.

VIGHI FILIPPO
Parma 12 gennaio 1805-Parma 3 dicembre 1836
Figlio di Giovanni Battista e Luisa Salviini. Studiò all’Accademia di Parma e fu allievo del Toschi. Non potendosi dedicare, causa la sua gracile costituzione, all’intaglio, che prediligeva, seguì la carriera della giurisprudenza (fu magistrato giudiziario). scrisse anche poesie. Morì a trentun anni.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 3 dicembre 1836, 430; P. Martini, L’Arte dell’Incisione in Parma, 1873; G.B. Janelli, Dizionario biografico dei Parmigiani illustri, Genova, 1877, 520; L. Servolini, Dizionario illustrato degli incisori italiani moderni e contemporanei, Milano, 1955; Arte incisione a Parma, 1969, 62; A.M. Comanducci, Dizionario dei pittori, 1974, 3440.

VIGHI FILIPPO
Parma 31 luglio 1837-Parma 27 novembre 1883
Figlio di Vincenzo e Luisa Campanini. Fece le campagne risorgimentali del 1859, 1860 e 1861. Fu decorato di medaglia d’argento al valor militare.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 30 novembre 1883, n. 324; G. Sitti, Il Risorgimento italiano, 1915, 28.

VIGHI GIAMBATTISTA, GIAN BATTISTA o GIOVAN BATTISTA, vedi VIGHI GIOVANNI BATTISTA

VIGHI GIOVANNI BATTISTA 
Parma 18 gennaio 1774-Parma 21 novembre 1849
Acquafortista attivo in Parma. Fu insegnante di ornato all’Accademia di Belle Arti di Parma. Si ricorda un suo Ritratto di Mons. Turchi, pubblicato nel libro Prediche alla Corte, del Muzzi (1805). Medaglista e incisore, ebbe buone doti di tecnica e un piglio abbastanza personale, benché risenta talvolta della maniera di Pietro Antonio Martini. Partecipò all’esposition del 1811 con un servizio da tè in argento ed espose durante il Concorso dell’accademia del 1817 un disegno con Ercole e Anteo per il quale fu creato Accademico Professore onorario.
FONTI E BIBL.: G.B. Janelli, Dizionario biografico dei Parmigiani illustri, Genova, 1877, 469; L. Servolini, Dizionario illlustrato degli incisori italiani moderni e contemporanei, Milano, 1955; Arte incisione a Parma, 1969, 62; A.M. Comanducci, dizionario dei pittori, 1974, 3440; M. Federico, Le medaglie di Maria Luigia, 1981, 30; A. Musiari, neoclassicismo senza modelli, 1986, 267.

VIGHI GUIDO 
Parma 1844-1924
Fu uno degli ultimi eredi della destra storica, sorta a Parma attorno alla figura di Girolamo Cantelli. Nel 1866 si arruolò volontario con garibaldi dopo essersi laureato in lettere. Al suo ritorno avrebbe potuto essere eletto deputato ma non accettò mai le candidature sollecitate dagli amici e si accontentò del seggio di Consigliere comunale. Per trentacinque anni fu il Direttore generale degli Ospizi Civili. Fu anche Presidente della Cassa di Risparmio e Presidente del Casino di Lettura di Parma.
FONTI E BIBL.: B.Molossi, Dizionario biografico, 1957, 154.

VIGHI MAURIZIO PAOLO GIUSEPPE
Parma 12 gennaio 1733-1820
Figlio di Gerolamo e Bianca Buggiani. Per un lungo periodo (almeno dagli anni Settanta del XVIII secolo fino alla fine) svolse il ruolo di argentiere di fiducia dell’Ordine costantiniano di Parma, sia assolvendo a commissioni sia pensando e controllando la qualità dei metalli preziosi, secondo una prassi connessa alla periodica redazione degli inventari. I dati cronologici relativi al Vighi si desumono dallo Stato degli orefici esistenti in Parma nel 1787 Archivio di Stato di Parma, fondo Commercio, busta 4, fasc. orefici) e dalle brevi note che lo Scarabelli Zunti (Galleria Nazionale di Parma, Documenti e memorie, vol. VIII, ad vocem) riporta relativamente al figlio del Vighi, il più conosciuto Giovan Battista, anch’egli orafo e professore all’Accademia in epoca luigina. Non è escluso che lo stesso Vighi abbia insegnato, essendo nei documenti della Steccata spesso citato come professore. Tra l’altro realizzò due calici d’argento con patene lavorate per la chiesa della Steccata in Parma (1777). Il repertorio decorativo dei calici, reso con uno sbalzo di buona qualità, indugia su motivi di gusto pienamente settecentesco riproposti con un formulario piuttosto ripetitivo e stereotipo. Se si esclude una disposizione più spaziata degli elementi decorativi e una certa geometrizzazione dei nodi a rocchetto, gli oggetti non mostrano aperture nei confronti di quel rinnovamento neoclassico che negli stessi anni connotò spesso gli arredi lignei parmensi, direttamente influenzati dalla grande ebanisteria di Corte di ambito petitotiano. Gran parte dell’argenteria locale degli ultimi decenni del Settecento rimase estranea al nuovo stile, esprimendone appieno i modi solo a partire dallo scorcio del secolo e, più decisamente, in quello successivo. Del resto è propria della produzione liturgica una tenace persistenza di moduli e tipologie, in relazione al tradizionale conservatorismo della committenza ecclesiastica.
FONTI E BIBL.: Archivio dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio, serie XVI, busta 11, Inventario 1765 con note successive; Per uso del santificare et adornare, 1991, 85-86.

VIGHI VINCENZO 
Parma 8 agosto 1809-Parma 25 ottobre 1864
Figlio di Giovanni Battista e Luisa Salvini. Fu membro del consiglio sanitario del Ducato di Parma. Prese parte alla II e III riunione degli Scienziati italiani. Fu decorato di medaglia d’oro al valor civile.
FONTI E BIBL.: I. Cantù, Italia scientifica, 1844, III, 162; Il Patriota 25 ottobre 1864, n. 291; G. Sitti, Il Risorgimento italiano, 1915, 28.

VIGLIOLI ANTONIO
 
Parma 1840-post 1881
 
Figlio di Giuseppe, commesso presso la farmacia della Carità di Parma. Studente di pittura, forse legato da parentela al più noto Giocondo Viglioli, frequentò l’Accademia Reale Parmense di Belle Arti dal gennaio 1858 fino alla metà del 1860 con molta diligenza e molto profitto nelle scuole di figura e paesaggio. Venne ammesso col titolo alunno d’ornato e di figura. Nel novembre dello stesso anno fu milite della Guardia Nazionale ad Alessandria (nel 1863 venne definitivamente esentato per storpiatura al piede). Non si sa a quando risalga l’inizio della professione fotografica del viglioli, che certo derivò dalla vocazione figurativa. Incoraggiato dai buoni risultati ottenuti, gestì uno studio in strada San Barnaba al n. 56: vi lavorò almeno a partire dal 1868. Del Viglioli si ha poi una segnalazione al Primo Congresso Artistico Esposizione Arti Belle di Parma (1870): Viglioli Antonio, di Parma. Ritratti in fotografia di piccolo formato, parte neri e parte colorati con sistema speciale. Menzione onorevole, per commendevole esecuzione specialmente nei neri. È dell’ottobre 1870 la sua presenza a una esposizione fotografica genovese nel corso della quale ottenne un diploma d’onore. Gli interessi del Viglioli da quel momento si spostarono verso la Liguria, tanto che il 5 febbraio 1876 lasciò Parma e si trasferì con la residenza e con lo studio a Chiavari, dove operò in corso Garibaldi 5. Anche qui ebbe modo di farsi apprezzare per serietà professionale e negli anni 1879 e 1881 gli vennero conferiti dalla Società Economica Chiavarese altrettanti attestati di benemerenza per lavori fotografici. Tecnicamente la sua specialità fu il trattamento al platino delle fotografie. Subito dopo i riconoscimenti avuti a Chiavari, il Viglioli lasciò l’Italia e si imbarcò per l’America.

FONTI E BIBL.: R. Rosati, Fotografi, 1990, 155.

VIGLIOLI BARBARA 
Parma 1772/1782
Indicata a volte anche come Veglioli, fu allieva della Scuola dei cantanti istituita a Parma per servire agli spettacoli del Teatro Ducale.Qui cantò nel Carnevale del 1772 in Le gare degli amanti, libretto di Luigi Salvoni, e nei Tre gobbi innamorati.Fu presente sulle stesse scene nel carnevale del 1774 (L’Astratto, I visionari) e in quello del 1775 (La locanda).Nel carnevale del 1777 cantò al Teatro di Trieste in L’avaro e nella stagione di fiera del 1779 fu al Teatro Pubblico di Reggio Emilia nella Vendemmia e nella discordia Fortunata.Lo stesso anno cantò a Bologna nel Nuovo Pubblico Teatro nella Scuola de’ gelosi, l’anno dopo fu a Faenza negli Sposi in contrasto, nella primavera del 1781 a Ravenna in La scuola de’ gelosi, nella Fiera d’ottobre al Teatro del pubblico di Correggio in L’avaro e nella stagione di Fiera di San Giovanni del 1782 al Teatro di Monza in Il Convito.
FONTI E BIBL.: P.Fabbri e R. Verti; P.E. Ferrari; Librettistica bolognese; Sartori; G.N.Vetro, dizionario, 1998.

VIGLIOLI FRANCESCO
Parma 1795/1797
Violinista, figlio di Giacomo.Il 18 dicembre 1795, per essere ammesso nel reale Concerto di Parma, fu sottoposto a esame da Angelo Morigi, che espresse il seguente giudizio: Quantunque egli abbia molti professori nemici che parlano male di lui, lo trovo capace di fare una prova magnifica.Il risultato della prova non fu però positivo e questa fu tentata nuovamente nel dicembre 1797: non se ne conosce l’esito (archivio di Stato di Parma, Spettacoli e Teatri, 1802-1806, b. 6).
FONTI E BIBL.: G.N.Vetro, Dizionario.Addenda, 1999.

VIGLIOLI GIOCONDO 
San Secondo 4 ottobre 1809-Parma 1895
Nacque da Filippo, povero segretario comunale. Frequentò a Parma l’Accademia di Belle Arti, dove seppe acquistarsi la stima e la benevolenza de’ suoi superiori, avente davanti agli occhi i capolavori del Mazzola e del Correggio, nell’animo una volontà ferma di acquistarsi gloria, nell’intelletto la potenza di riuscirvi. Non è noto con quale maestro il Viglioli studiasse, ma nel 1832 collaborò con Giovanbattista Borghesi e Giuseppe Martini a recuperare da sotto la scialbatura e a reintegrare le pitture di giovanbattista Trotti, detto il Molosso, eseguite nel primo Seicento nel Palazzo del Giardino di Parma. dovette ben presto entrare nelle grazie di Paolo Toschi, il quale giovollo col suo potente appoggio ad essere conosciuto dalla Ducal Corte, e ad averne non poche commissioni. Infatti fu tra gli artisti che il 22 giugno 1833 firmarono il contratto per decorare il salone della biblioteca Palatina di Parma su commissione dell’accademia, il cui scomparto centrale venne affidato a Francesco Scaramuzza, che si avvalse per i due ottagoni laterali dell’allievo Giovanni Gaibazzi, mentre le sei scene monocrome sopra il cornicione furono assegnate a Stanislao Campana, al quale potrebbonsi dargli ad ajutatori sotto la sua direzione i valenti giovani allievi della nostra Accademia, Giocondo Viglioli, e Giuseppe Varoli. Uno dei tre commissari che lo proposero fu appunto il Toschi. Quanto al Campana, potrebbe forse ritenersi il maestro del Viglioli. Realizzò due monocromi minori con L’invenzione della stampa fatta da Fust, Schöffer e Gutemberg e L’invenzione della bussola fatta da Flavio Gioia che la applica alla navigazione. Secondo Angelo Pezzana, i lavori nel salone avrebbero dovuto concludersi entro il settembre di quello stesso 1883 ma probabilmente si protrassero all’anno seguente. Intanto il Viglioli avanzò negli studi accademici, aggiudicandosi nel 1834 la prima medaglia per Mezza figura dipinta e il Nudo dipinto (irrintracciabili), assegnatagli con l’adunanza del 22 settembre previa conferma della duchessa Maria Luigia d’Austria col rescritto del 4 ottobre. L’Accademia, nella seduta del 25-26 maggio 1835, gli conferì anche il Gran Premio Annuale per il Concorso di Pittura, bandito l’anno prima col soggetto del Buon Samaritano (confermato dalla Duchessa il 12 giugno). Del quadro venne apprezzata l’espressione nelle sembianze e nell’atteggiamento dell’abbattuto meschino: l’impasto: le carni: il campo: e sovrattutto l’industria e diligenza che si mostra nel pieno eseguimento delle varie parti. Se non che alquanto freddo parve l’ajuto porto dall’accorso Samaritano: non a bastanza leggiadramente disegnate le mani: troppo ricercato il panno sopposto al sofferente Giudeo. Così il Viglioli si condusse a Roma, dove nella contemplazione de’ monumenti, accolti in quel venerando Ospizio delle Arti, verrà rispondendo alla generosità del Governo, e alle speranze della patria e de’ suoi. Il saggio, passato in seguito alla Galleria Nazionale di Parma, fu poi collocato presso la Questura di Piacenza. Il Viglioli fu il secondo artista che Maria Luigia d’Austria impiegò per i dipinti della Cappella ducale di San Lodovico, affidandogli il Crocefisso per il primo altare a destra (entro il 1835, poiché l’opera non è menzionata nell’elenco delle commissioni ducali steso dal Negri a partire da quell’anno). Il dipinto, conservato nei depositi della Pinacoteca di Parma, venne ritenuto degnissimo di commendazione per la eccellenza del colorito per la finezza del disegno per la verità dell’espressione; lavoro accurato, e lavoro di severo e classico stile. Il pensionato del Viglioli a Roma iniziò attendibilmente verso la metà del 1836. Vi risiedette contemporaneamente Giovanni Gaibazzi, che gli fu già a fianco nel salone della Palatina. Da Roma inviò come primo saggio di studio la copia dei Ss. Caterina e Sebastiano ai lati nella cosidetta Madonna di S. Nicolò ai Frari di Tiziano, presso la Pinacoteca Vaticana. La tela (nei depositi della Pinacoteca di Parma) si trovò esposta il 2 febbraio 1837 alla mostra periodica tenuta nel Palazzo del Giardino di Parma. A Roma il Viglioli inspirossi ne’ più sublimi lavori dell’arte divina; dove innalzato sulle ali del proprio ingegno intese quel bello che non s’apprende da studio, ma l’anima trova in se stessa; e dove si stimolò nelle opere de’ grandissimi a spiccare un volo degno del generoso ardire che l’animava, risiedendovi diciotto mesi in più di quelli normalmente assegnati, per un totale di tre anni. Sembra che la permanenza fosse particolarmente felice: né fors’egli ne sarebbe più ritornato (tanto avea quivi trovato accoglienza e lavoro); e Roma verissimo albergo delle arti avrebbelo posseduto, se amore del natìo luogo sempre vivo e caldissimo ne’ petti gentili non l’avesse condotto a preferire le dolci affezioni del cuore all’utile ed alle vane onoranze. Il Viglioli, rientrato in Parma verso la seconda metà del 1839, venne eletto in accademia professore efettivo di anatomia dipinta e subito la duchessa Maria Luigia d’Austria iniziò a commisionargli annualmente opere destinate alle chiese bisognose. Del 1839 è l’Annunciazione (su tavola) per la parrocchiale di Barbiano, del 1840 il S. Martino che dona il manto al povero per la cappella del Collegio Militare sita nel Palazzo del Giardino di Parma, identificabile presso la chiesa della Certosa, terminato entro il 6 febbraio 1841 e apparso in mostra il 25 aprile nel medesimo Palazzo. Al periodo giovanile appartiene l’unica opera plastica nota del Viglioli: l’Ecce Homo, in San Vitale, approntata entro il 1851. la datazione può dedursi anche dal passo biografico: mentr’era professore di Anatomia all’Accademia di Parma, attendeva altresì a perfezionarsi nella pittura nonché nella scultura. Questa sua seconda pratica artistica viene inoltre ricordata dal Martini. Sempre nel 1841 proseguirono le commissioni ducali con un S. Giacomo apostolo per la stessa Maria Luigia d’Austria, che, col testamento del 22 maggio 1844, lo lasciò in eredità al nipote arciduca Leopoldo d’Austria (andò poi disperso). Nel 1842 è la volta di un S. Nicola da bari per l’oratorio dei Lignière a Golese. Nel 1843 del S. Mauro abate che miracola il muratore caduto per la chiesa di Madregolo (poi sostituito da una copia moderna), esposto qualche giorno prima del 20 maggio 1844 nel Palazzo del Giardino. Ancora nel 1844, Maria Luigia d’austria commissionò al Viglioli un S. bonifazio per la chiesa di Fiorenzuola, che il 7 giugno 1845 si trovò esposto nel Palazzo del Giardino. Nel 1845 fu la volta del S. Tommaso di Canterbury per la parrocchiale di Gattatico. Il 21 settembre 1851 stilò la convenzione col parroco Pietro Demaldé e i fabbriceri della parrocchiale di San Pietro in Corte per la vasta tela col Tradimento di S. Pietro, da porsi all’altare maggiore, dietro compenso di 2.500 lire austriache. La ricca corrispondenza relativa data attorno al 13 aprile 1852: il Viglioli inviò il bozzetto, offrendosi anche per i Ritratti del Papa e del Re. Il primo è quasi sicuramente identificabile col Ritratto di Pio ix presso gli eredi, pesantemente ridipinto, probabilmente perché non finito (infatti i documenti provano che questa seconda commissione non andò in porto). L’importante pala fu inviata a destinazione il 26 novembre 1853, corredata della cornice eseguita dal falegname Drugman. In seguito, e per tutta la seconda metà del secolo, le notizie rimaste sul Viglioli risultano scarse, forse anche per la pratica di esporre fuori patria, come a esempio a Milano. A Parma venne censito nel 1851 assieme alla moglie caterina Testi, poi nel 1865 si sa che in accademia percepì lo stipendio annuo di 2.000 lire. nel settembre 1869, chiusa e spogliata degli arredi la chiesa di di San Paolo, il crocefisso del Viglioli fu depositato dal Demanio in pinacoteca, mentre nel 1873 il S. Martino, dalla cappella del Collegio Militare, passò nella sala maggiore del Palazzo Comunale. Nel 1885, sull’altare maggiore di Santo Spirito fu posta una vasta tela rappresentante la Discesa dello Spirito Santo (successivamente, andato distrutto il tempio, passò sull’altare maggiore della vicina Santa Teresa, ove era ancora menzionata nel 1934 entro cornice intagliata; l’opera andò poi perduta). Nel 1889 il Viglioli pubblicò presso la tipografia Fiaccadori una dotta monografia, Delle porpore degli antichi, dato che con speciale passione faceva studi. l’opera principale del Viglioli è un dipinto in grande (intorno al quale lavorò quindici anni), che rappresenta la Risurrezione dei morti (anch’essa perduta).
FONTI E BIBL.: A. Pariset, Dizionario biografico, 1905, 121; Atti Regia Accademia di Parma, 1854 (Cornazzani); C. Ricci, La Regia Galleria di Parma, 1895; N. Pelicelli, Guida di Parma, 1910; U. thieme-F. Becker, Künstler-Lexicon, 1940, XXXIV, 350; A.M.Comanducci, Dizionario dei Pittori, 1974, 3441; M. Leoni, 1834, 361; M. Leoni, 1835, 200; Gazzetta di Parma 11 febbraio 1837, 43, supplemento 5 e 9 maggio 1838, 165, 170, 13 giugno 1838, 214, 27 ottobre 1838, 408; M. Leoni, in Il Facchino 1841, 45-46; Gazzetta di Parma 28 aprile e 2 giugno 1841, 151, 152, 192; C. Malaspina, 1841, 140; E. Scorticati, 1844, 110-112; C. Malaspina, 1845, 187; Il Giardiniere 16 maggio 1846, 73; E. scorticati, 1846, 72; M. Leoni, 1847, 88; M. Leoni, 1848, 180: C. Malaspina, 1851, 108, 116; C. Negri, 1852, 57, 58, 59, 60, 61, 62, 64, 65; P. Martini, 1858, 43; P. Martini, 1862, 37; Atti delle Regie Emiliane Accademie, 1867, 7; C. Malaspina, 1869, 100, 114; P. Martini, La R.Accademia parmense di Belle Arti, 1873, 36; L.Testi, Guida artistica di Parma, Parma, 1912, 117; G.Copertini, Guida alle opere d’arte della chiesa di San Vitale a Parma, in Parma per l’Arte 1951; A.Ciavarella, Notizie e documenti per una storia della Biblioteca Palatina di Parma, Parma, 1962, 112, 114; L.Gambara, M.Pellegri e M.de Grazia, Palazzi di Parma, Parma, 1971, 782, 783; G.Godi, mecenatismo e collezionismo pubblico a Parma nella pittura dell’800, catalogo della mostra, Parma, 1974, 29-37; G.L.Marini, in Dizionario Bolaffi Pittori, XI, 1976, 327; L. pigorini, 1879, 12; Gazzetta di Parma 26 giugno 1885; C. Ricci, 1896, 174; E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, X, 155-157; N. Pelicelli, 1906, 205, 218; A. Santangelo, 1934, 99, 224; M. Pellegri, 1959, 73; F. da Mareto, 1973, 576; San Secondo, 1982, 29-37; A.V. Marchi, Figure del Ducato, 1991, 296; M. Tanara Sacchelli, in Gazzetta di Parma 27 ottobre 1997, 5.

VIGLIOLI MARIA 
Parma 1770
Nel 1770 era allieva della Ducale Scuola di Ballo di Parma, dove percepì anche una borsa di studio.Nel Carnevale del 1770 danzò nei balli al Teatro Ducale di Parma.
FONTI E BIBL.: Ferrari; G.N.Vetro, Dizionario, 1998.

Teca Digitale Biblioteche del Comune di Parma - V.lo Santa Maria 5, 43125 Parma (PR)

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