FASCITELLI - FERRARESI
FASCITELLI ANTONIA
Parma-Parma post 1769
Nel 1769 cantò nel coro alle feste per le nozze ducali (Archivio di Stato di Parma, Spettacoli e Teatri borbonici, b. 5).
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.
FASOLI ALESSIO
Parma prima metà del XVI secolo
Ricamatore attivo nella prima metà del XVI secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, III, 198.
FASOLI ANTONIO
Busseto 1475
Figlio di Giovanni. Ingegnere idraulico ricordato in un atto notarile in data 19 agosto 1475: Li magnifici e potenti signori Gianlodovico e Pallavicino fratelli Pallavicino danno e concedono a livello ed enfiteusi perpetua a maestro Antonio de Fasolis figlio del fu maestro Giovanni di Piacenza, quaranta bifolche di terreno con bosco su quello di Bussetto e molte altre terre a quelle unite con diversi obblighi ingiunti ad esso maestro. Principale però questo: Teneatur, esso Fasoli, et obligatus sit, et sic promisit prefatis magnificis dominis marchionibus palavicinis eisdem fideliter et cum omni diligentia et vigilantia servire per annos decem prox. futuros in livelando aquas et de acquis, designando, fabricando et alia faciendo et exercendo quae spectant et pertinent ad artem, misterium et exercitium cuiuslibet probi inzignerii. Quando esso maestro venisse a morte tale obbligo stia a carico di uno de’ suoi figli che più abile si fosse nell’esercizio dell’arte dal padre professata (rogito di Pietro Brunelli da Busseto, nell’Archivio Notarile di Parma).
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, 1911, 34.
FASOLO, vedi FASOLI
FATTORI CARLO ANTONIO
Scurano 11 febbraio 1793-Parma 25 gennaio 1866
Nato dal tenente colonnello Baldassarre e da Fiora Manini, si addottorò in medicina a Modena il 20 giugno e a Parma il 29 luglio 1816 e in chirurgia a Parma il 28 agosto 1821. Accusato nel Ducato di Modena (era residente a Reggio) di lesa maestà, per aver aderito alla carboneria (fu formalmente aggregato tra i Sublimi maestri perfetti e aggregò varie persone alla carboneria in casa sua) e aver partecipato alle trame di una sollevazione che avrebbe dovuto prendere le mosse dalle valli dell’Appennino reggiano, il Fattori, con sentenza dell’11 settembre 1822, fu condannato dal tribunale straordinario riunito nella fortezza di Rubiera a cinque anni di carcere, che trascorse nella medesima fortezza (cfr. Decisione del tribunale statale straordinario residente in Rubiera sanzionata 11 ottobre 1822, Modena, 1822). Dopo aver scontato la pena, il Fattori si trasferì a Parma per esercitarsi nell’ostetricia, ottenendo il relativo permesso dalle autorità estensi il 29 gennaio 1828. Sottoposto ai precetti di alta polizia (sorveglianza politica) di Modena, rivolse istanza al duca Francesco d’Este il 22 maggio 1829 per esserne prosciolto: la sua istanza fu accolta il 23 giugno, quindi il 30 aprile dell’anno successivo gli venne concessa la cittadinanza di Parma e il 22 novembre dello stesso anno 1830 gli venne conferita la nomina ad astante della scuola teorico-pratica di ostetricia, diretta da G. Rossi. Con regolamento dell’11 febbraio 1818 la duchessa Maria Luigia d’Austria aveva stabilito la sede dell’ospizio di maternità e della scuola teorico-pratica di ostetricia presso l’edificio degli ospizi civili detto di Santa Maria Maddalena nel Corso, ove un medico ostetricio e professore era addetto all’istruzione delle otto allieve ammesse alla scuola e potevano assistere ai parti anche gli allievi di chirurgia già passati alla clinica chirurgica. Il Fattori si dimostrò ostetrico preparato e capace e ben presto acquisì a Parma un meritato prestigio. Alla morte del Rossi, nel 1850, concorsero a succedergli alla direzione della scuola F. Gueneau, che del Rossi era nipote, e il Fattori: l’aspra contesa che ne scaturì fu all’origine del decreto sovrano del duca Carlo di Borbone del 28 dicembre 1851. Questo stabilì la separazione dei titoli di direttore dell’ospizio di maternità, al quale venne assegnata la sovrintendenza sull’ospizio e l’istruzione delle allieve e venne fatto obbligo di risiedere nell’ospizio stesso, e di professore di ostetricia, cui dovevano competere le lezioni di clinica chirurgica ostetrica. L’astante della scuola di ostetricia avrebbe poi prestato la sua opera anche al servizio del professore di ostetricia. Stabilito tale ordinamento, con successivo decreto emanato il 30 dicembre 1851 il Fattori fu nominato professore di ostetricia e il Gueneau fu nominato direttore dell’ospizio di maternità. La soluzione di compromesso così delineata fu di fatto convalidata dalla parità del trattamento economico prevista per i due titoli. Ricostituita l’Università, dopo la sospensione decretata dal duca Carlo di Borbone il 7 settembre 1849, dalla duchessa reggente Luisa Maria di Berry, con decreto del 25 novembre 1854 il Fattori fu confermato professore di ostetricia. Fu anche chiamato per due volte, il 20 luglio 1853 e il 13 dicembre 1854, a far parte della sezione chirurgica del protomedicato. Confermato nella carica anche dopo l’annessione del Ducato al Regno sardo nel 1860, il Fattori fu nominato professore ordinario di ostetricia e dottrina delle malattie speciali delle donne e dei bambini e direttore della clinica con decreto reale del 15 gennaio 1863. Le attività clinica e didattica del Fattori furono gravemente ostacolate dalle disagevoli condizioni in cui fu per anni costretto a operare: fin dalla sua nomina a professore di ostetricia le sue reiterate richieste di un’adeguata sistemazione logistica non ottennero risposta. La disponibilità di pochi e insalubri locali, l’assenza quasi assoluta di dotazioni scientifico-didattiche solo in parte compensata da un modesto aumento della dotazione della clinica e sua personale, ma soprattutto l’impossibilità di risiedere presso l’ospizio con la conseguente separazione della sede delle lezioni teoriche da quella delle dimostrazioni pratiche, rappresentarono le caratteristiche salienti dei primi anni di attività del Fattori. Egli constatò, in una nota del 20 maggio 1858 indirizzata al marchese G. Pallavicino, presidente del supremo magistrato degli Studi, come nei Ducati l’ostetricia fosse soltanto apparentemente insegnata e appresa e, a causa di ciò, oltre a esserne ignorata l’importanza, persistessero vieti pregiudizi ed errori, tanto più funesti in una disciplina destinata a salvare due vite in pericolo. Non ne seguì che un’attivazione delle lezioni poco più che nominale e nemmeno sotto la nuova dirigenza sarda si vollero inizialmente soddisfare le sue richieste. Egli ebbe dapprima come assistente lo stesso astante del direttore dell’ospizio di maternità, situazione insufficiente a garantire una regolare assistenza, mentre l’ipotesi di nominare astante un medico residente nell’ospizio sfumò nel maggio 1860, quando lo sviluppo di alcuni casi di febbre puerperale causò l’immediata cessazione di ogni attività clinica. Alla fine di quell’anno, nell’ennesima richiesta di mezzi rivolta al delegato rettore della Regia Università di Parma, il Fattori incluse anche la constatazione del mancato impiego di fondi già stanziati in bilancio. Solo il suo diretto impegno economico permise, nel 1861, l’avvio di una attivazione, sia pure parziale, della clinica ostetrica. Alla fine del 1862 fu finalmente concessa al Fattori la facoltà di risiedere nell’ospizio, adiuvato da un astante, e di unificare così la sede delle lezioni teoriche e pratiche di ostetricia. Il Fattori strutturò i suoi corsi in tre grandi settori, dedicati rispettivamente: all’anatomia e fisiologia dell’utero, all’ovologia, al parto fisiologico; all’eutocia ed assistenza alla medesima e alla distocia coi rispetivi soccorsi profilatici, medici e chirurgici; all’igiene, alle malattie delle incinte, delle puerpere, dei bambini. La parte clinica verteva, oltre che sugli aspetti pratici della gravidanza, del parto e del puerperio, anche sulle malattie dei bambini, sulla vaccinazione e sull’allattamento artificiale. L’insegnamento, dapprima obbligatorio per gli studenti degli ultimi tre anni di corso, venne poi limitato a quelli degli ultimi due anni. Nel 1862-1863 all’esame teorico fu affiancata una prova pratica sul fantoccio o sul cadavere, mentre il titolo del corso venne mutato in ostetricia e dottrina delle malattie speciali delle donne e dei bambini e di clinica ostetrica. Non particolarmente abbondante, la produzione scientifica del Fattori fu molto apprezzata dai contemporanei: Sulla mastite puerperale (Parma, 1847) e Considerazioni su alcuni argomenti di ostetricia. Sul danno del fasciare i bambini. Se ad evitare l’operazione cesarea a termine di gravidanza sia lecito di procurare l’aborto prima del termine del settimo mese. Dell’operazione cesarea (Parma, 1861). Premessa l’importanza della scienza come guida di tutte le arti, quindi anche di quella sanitaria, in quanto solo lo scienziato può conoscere ciò che necessita al loro esercizio, egli giudicò la fasciatura dei bambini una pratica pericolosa, non attuata nei paesi dell’Europa settentrionale, e ne delineò la storia risalendo all’antichità. Si dichiarò decisamente contrario all’aborto praticato prima del settimo mese al fine di evitare l’operazione cesarea, per la valenza omicida che riteneva sottesa all’interruzione della gravidanza. Per questo fu aspramente critico nei confronti delle scuole francese e inglese favorevoli all’aborto e ai loro epigoni italiani, tra i quali segnatamente E. Raffaele. Egli sostenne che non solo i pericoli correlati al taglio cesareo ma anche quelli più generali di malattia avevano mascherato per molti ostetrici il delitto perpetrato con l’aborto, per cui occorreva rivalutare, alla luce dei progressi tecnici, l’operazione cesarea. Così la memoria sul taglio cesareo, strettamente connessa con quella sull’aborto, si apre con un richiamo storico per svilupparsi poi con la difesa del metodo come il più adatto a salvare madre e bambino, specialmente adottando la tecnica del taglio laterale trasverso.
FONTI E BIBL.: Oltre alla documentazione conservata principalmente presso l’Archivio di Stato di Parma e l’Archivio storico dell’Università di Parma, cfr. la voce curata da A. Romani in G.B. Janelli, Dizionario biografico dei parmigiani illustri e benemeriti, Appendice, Parma, 1880, 55 s.; E. Ferroni, I primi cento anni d’insegnamento di ostetricia nell’Università di Parma, in Annali di Ostetricia e Ginecologia XXXVI 1914, 389-453; G. Sitti, Carlo Fattori, in Il Risorgimento italiano nelle epigrafi parmensi con appendice, Parma, Fresching, 1915, 18; La casa dei Fattori, in Gazzetta di Parma 11 marzo 1926, 1; La casa dei Fattori, in Giovane Montagna 20 marzo 1926, 1; F. Rizzi, Carlo Fattori, in I professori dell’Università di Parma attraverso i secoli, Parma, Godi, 1953, 83; M.F. Visconti, Su di una lettera inedita del prof. Carlo Fattori nella quale risulta la particolare situazione dell’insegnamento di clinica ostetrica in Parma attorno all’anno 1858, in Quaderni di Clinica Ostetrica e Ginecologica 16 1961, 1192-1207; La casa Fattori di Scurano, in Gazzetta di Parma 13 settembre 1965, 3; A. Porro, Fattori Carlo Antonio, in Dizionario Biografico degli Italiani, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, XLV, 1995, 339-341; Fattori Carlo, in Enciclopedia di Parma, 1998, 330.
FATTORI GIUSEPPE
Scurano 1798
Fratello di Carlo. Si laureò in legge e si domiciliò a Reggio. A ventiquattro anni, nel 1822, per aver aderito alla carboneria, venne implicato nel processo di Rubiera e condannato, per quanto non risultassero prove a suo carico, a tre anni di carcere.
FONTI E BIBL.: C. Tivaroni, L’Italia durante il dominio austriaco. I. L’Italia settentrionale, Torino, 1892; La casa dei Fattori, in Gazzetta di Parma 11 marzo 1926, 1; La casa dei Fattori, in Giovane Montagna 20 marzo 1926, 1; F. Ercole, Fattori Giuseppe, in Gli uomini politici, Roma, Istituto Editoriale Tosi, 1941, 96-97; La casa Fattori di Scurano, in Gazzetta di Parma 13 settembre 1965, 3.
FATTORI GUERRINO
FLesignano de’ Bagni 1897-Lesignano de’ Bagni 28 dicembre 1969
Crebbe in casa di Leopoldo Amaduzzi, maestro nel teatro dei burattini, e da lui fu avviato, fin dai più teneri anni, a tale genere di spettacolo. Alla scuola dell’Amaduzzi, il Fattori apprese ben presto i segreti e la passione per il mestiere e nel 1920 fece il suo debutto in una osteria di Tizzano con grande successo. L’accoglienza cordiale ed entusiasta da parte del pubblico, fece da preludio e incentivo a una tournée di spettacoli realizzati con tenacia e non poche rinunce, anche per la mancanza di mezzi di trasporto. Gli servì dapprima una vecchia bicicletta, poi un cavallo e alla fine due carovane che, attraverso le valli dell’Appennino, si spinsero oltre i confini provinciali. Appuntamenti periodici il Fattori ebbe ad Alseno, Medesano, Felegara, Ozzano Taro, Fornovo di Taro, Sant’Andrea Bagni e in altri centri della provincia di Parma e di Reggio Emilia. Ovunque lo accompagnò la moglie, Maria Contini, e poi i figli, fino alla cessazione (1958) della sua brillante attività. I titoli degli spettacoli che gli furono maggiormente cari e che più frequentemente mise in scena sono: Il Mago Aristone, La sepolta viva, La fata morgana, Il burbero burlato, Sandrone e la morte e Fagiolino poeta e governatore. Il Fattori rifuggì ogni esibizionismo, fu schivo e riservato ma dotato di una sensibilità particolare e il suo linguaggio vivacizzato da brillanti battute non prive di valore poetico. Erudito e versatile, scrisse i testi delle sue commedie così come plasmò con la cartapesta le teste dei suoi burattini e con la sua sola voce fece parlare tutti i suoi personaggi: Sandrone, Fagiolino, Brighella, Pantalone, la Polonia e Colombina.
FONTI E BIBL.: E. Dall’Olio, Tradizioni Parmigiane, III, 1993, 201-202.
FATTORI PROBO
Parma 16 febbraio 1839-Parma 3 febbraio 1886
Figlio di Carlo e Angela Cocconi. Fu medico chirurgo. Accorse nelle file dell’esercito italiano nel 1859 e nel 1866.
FONTI E BIBL.: Il Presente 6 febbraio 1866, n. 36; Gazzetta di Parma 4 febbraio 1886, n. 33; G. Sitti, Il Risorgimento italiano, 1915, 406.
FATTORINI EUGENIO
Parma 1832-Milano 18 ottobre 1877
Va annoverato tra i più sorprendenti dilettanti di musica poiché, senza alcun insegnamento ma per sola inclinazione musicale, riuscì non solo a suonare passabilmente pianoforte, flauto e chitarra ma anche a impratichirsi talmente nell’accordatura dei pianoforti, da essere compreso tra gli accordatori del Regio Conservatorio di Milano. Il Fattorini, impiegato del governo, fu anche discreto poeta e autore comico vernacolo.
FONTI E BIBL.: P. Bettoli, Fasti musicali, 1875, 183.
FATULI ANTONIO
Parma 1389 c.-
Figlio di Giovannino, che morì nel 1399. I Fatuli risiedevano a Parma fin dal XIV secolo (cfr. Scarabelli Zunti, ad vocem). Il Fatuli fu magister a muro et lignamine.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, XLV, 1995, 370.
FATULI ANTONIO
Parma 1439 c.-Parma 1510
Figlio di Gherardo. Nel 1481 si sa che abitava nella parrocchia di San Paolo. Si sposò con Lucrezia Melleri e, quando gli nacque (1486) la prima figlia, Genesia, risiedeva nella parrocchia della Cattedrale. A Genesia seguirono Giovanna, Giovanni Simone, Caterina (1489), Gasperino, Gherardo (1497) e Lucia Camilla (1499). La sua attività nel campo dell’edilizia gli permise di guadagnare discretamente: prese in affitto delle terre a Felino (1489) e comprò case nella parrocchia di San Barnaba, dove risiedette nel 1501. Una di queste l’affittò per 5 lire imperiali all’anno (1504). Nel 1496-1497 lavorò insieme col fratello Gaspare nella costruzione dell’Ospedale della Misericordia. Dopo la morte del Fatuli, la vedova Lucrezia chiese la tutela dei figli minori e l’amministrazione dei beni, consistenti in pochi mobili rozzi e guasti, 37 biolche di terra a San Siro e una casa in Parma, nella vicinia di San Barnaba, dove abitavano.
FONTI E BIBL.: Parma, Soprintendenza ai beni artistici e storici, E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, ad vocem; A. Pezzana, Storia della città di Parma, V, 1859, 335; M.O. Banzola, L’ospedale, 1980, 111; U. Thieme-F. Becker, Künstler-Lexikon, XI, 292 (sub voce Fatuli Gherardo); P.P. Mendogni, in Dizionario biografico degli Italiani, XLV, 1995, 370-372.
FATULI GASPARE
Parma 1440 c.-Parma 1497
Figlio di Gherardo. Fu, come il padre e il fratello Antonio, magister a muro et lignamine. Le notizie su di lui sono circoscritte al decennio che va dal 1488 al 1497, anno in cui probabilmente morì. Sposato con Eleonora Musacchi, vedova di Iacopo Cavalli, ebbe due figli: Michele, nato nel 1488 (padrino fu lo scultore Antonio Ferrari d’Agrate, marito della sorella Orsolina), e Ginevra, nata nel 1494. La sua abitazione era situata nella parrocchia della Cattedrale. Negli anni precedenti aveva diretto la ricostruzione della chiesa e del convento delle monache carmelitane dell’antica osservanza. La chiesa era dedicata a Santa Maria Maddalena ed era chiamata nuova per distinguerla da quella già esistente, sede parrocchiale. Il complesso conventuale sorgeva sulla strada San Michele, quasi di fronte a San Sepolcro. Per pagarlo le monache vendettero un pezzo di terra che possedevano ad Antognano (rogito di Giovanni Battista Bizzocchi, 28 gennaio 1488). Il 1488 fu un anno particolarmente importante per il Fatuli: oltre alla nascita del figlio (30 ottobre), acquistò, il 21 luglio, terre con alberi a San Michele de’ Gatti e a Barbiano (il che indica che aveva una certa disponibilità finanziaria e che aveva già raggiunto una buona posizione patrimoniale), progettò un tabernacolo per l’altare del Corpus Domini nella chiesa di San Giovanni e mise le campane sulla torre della stessa chiesa. Il 10 settembre stipulò un contratto con l’Arte della lana (rappresentata da Pedro Baiardo, Luca Diemo e Bartolomeo Balduchini) per realizzare in Duomo una cappella (la seconda a sinistra per chi entra), de la largeza, longeza, alteza de quela medesima statura et forma che è quela propinqua e la capela che fu del quondam conte Andrea de Valera. Venne pure specificato che le pareti dovevano essere imbiancate fino in fondo, che nel muro vi dovevano essere alcune nicchie per le ampolline, che l’altare doveva avere una lastra per poterle metere una anchona la quale sia de natura che si possa serare e chiavare. Anche le finestre dovevano essere simili a quelle della cappella Valeri. Il pagamento previsto fu di 250 lire: entro Natale gliene sarebbero state date la metà, il resto l’anno successivo, al termine dell’opera. Nel 1491 gli fu appaltata per 3500 lire la costruzione delle volte e dei tetti dell’Ospedale della Misericordia. Si tratta di tre navate, progettate da Giovanni Antonio da Erba e ancora esistenti, seppure profondamente modificate: la corsia di settentrione (allungata nel 1782), quella di ponente e quella di levante (o di Sant’Ilario). Il quarto braccio, formato dalla chiesa e dalla parte sulla strada, doveva essere già compiuto. I lavori durarono alcuni anni e nel 1496 e 1497 figurano nei libri contabili ancora pagamenti a suo favore. Dopo quella data non si hanno più notizie del Fatuli.
FONTI E BIBL.: Parma, Soprintendenza ai beni artistici e storici, E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, ad vocem, E. Scarabelli Zunti, Materiale per una guida artistica di Parma, Chiese e conventi, II, 40; A. Pezzana, Storia della città di Parma, V, 1859, 161, 335; M. Salmi, Bernardino Zaccagni e l’architettura del Rinascimento a Parma, in Bollettino d’Arte XII 1918, 86, 96, 98 (cfr. recensione di L. Testi, in Archivio Storico per le Province Parmensi XVIII 1918, 148 s., 178 s., 183, 188, 191; replica di M. Salmi, in Archivio Storico per le Province Parmensi XIX 1919, 272, 277); M.O. Banzola, L’ospedale, 1980, 111, 115, 118; P.P. Mendogni, Artisti e artigiani, in Aurea Parma LXV 1981, 268; U. Thieme-F. Becker, Künstler-Lexikon, XI, 292 (sub voce Fatuli Gherardo); P.P. Mendogni, in Dizionario biografico degli Italiani, XLV, 1995, 370-372.
FATULI GHERARDO
Parma 1415 c.-Parma 1484/1487
Figlio di Antonio, magister a muro et lignamine. Seguì le orme del padre e dette lustro al casato, come ricordava in una lapide posta nel 1519 nella chiesa di San Pietro Martire in cui era scritto Postremos honestae et antiquae Fatulorum Familiae cineres ex qua Gerardus ille prodiit celebris sua tempestate architectus cuius Ingenio et arte nobilissima Parmensis fori turris extructa est Thomas Fatulus Predicatorum Ordinis hic pie condidit anno MDXIX (cfr. anche Pezzana, I, 1837, p. 38). Nell’atto matrimoniale della sorella Caterina (1437) il Fatuli risulta abitante nella parrocchia di San Martino di Galegana, ma poco dopo si trasferì, sposandosi, nella parrocchia di Sant’Andrea. Nel 1441 ricevette da Bartolomeo e Antonio Bernieri l’incarico di ricostruire la loro casa posta nella vicinia di Sant’Andrea e nello stesso anno fu testimone in un atto stipulato nel palazzo del capitano del popolo. Anche se le notizie su di lui non sono molte, dovette essere stimato per la sua professionalità dato che nel 1447 il vicario vescovile lo incaricò di fornire un parere su una casa che minacciava di andare in rovina e il Comune gli affidò la direzione dei lavori di pavimentazione della piazza Grande, che gli furono pagati nel novembre del 1448. Nel 1450 costruì una casa nella parrocchia di San Siro per il consorzio della Cattedrale. Lo stesso consorzio nel 1453 gli cedette una casa rovinata con orto posta nella parrocchia di San Giovanni, in borgo Torto, che egli si obbligò a ristrutturare e rendere abitabile. Anche dal Capitolo della Cattedrale fu incaricato di redigere stime di immobili. Nel 1455 e nel 1456 fu impegnato a lavorare per la precettoria di Sant’Antonio, nei locali dell’ospedale e del convento dei frati del Tau. Disegnò pure un armadio per il canonico Antonio Oddi. Tra il 1465 e il 1472 ricevette l’incarico di alzare la torre civica situata nella piazza Grande, la cui costruzione era iniziata nel 1246 e che da allora aveva subito diverse modifiche. La parte inferiore della torre era quadrata e il Fatuli proseguì la costruzione con una forma ottagonale, alternando parti vuote (formate da colonne con archi) ad altre piene (tutte in muratura) e collocandovi tre ambulacri cintati e campane a vari livelli. La parte conclusiva era piramidale e raggiungeva un’altezza di 204 braccia parmigiane (circa 110 metri). La torre crollò nel gennaio del 1606, uccidendo 27 persone e distruggendo il palazzo del Comune. Nel 1473, insieme con Andrea de Cumis, fu nominato sindaco dell’Arte dei maestri a muro (gli ingegneri), fondata proprio in quell’anno e guidata da Guglielmo de Coraliis. Nel 1483 fu chiamato con Giovanni Antonio da Erba a stimare l’Ospedale di San Bovo, piuttosto malconcio. Morì prima del 22 gennaio 1488 (cfr. Scarabelli Zunti: Documenti), lasciando i figli Matteo, sacerdote, Antonio e Gaspare (entrambi impegnati nella professione del padre) e le figlie Elena e Orsolina. Quest’ultima, si risposò con lo scultore Antonio Ferrari d’Agrate.
FONTI E BIBL.: Parma, Soprintendenza ai beni artistici e storici, E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, 1451-1500, ad vocem; A. Pezzana, Storia della città di Parma, I, Appendice, Parma, 1837, 38, II, Parma, 1842, 466, 647, 681, III, Parma, 1847, 97, 125, 156, V, Parma, 1859, 161 s., 166, 336; G.M. Allodi, Serie cronologica dei vescovi di Parma, Parma, 1856, II, 144; M. Lopez, Il battistero di Parma, Parma, 1864, 42 s., 84 s.; L. Testi, recensione a Bernardino Zaccagni e l’architettura del Rinascimento a Parma di M. Salmi, in Archivio Storico per le Province Parmensi XVIII 1918, 184 s.; G. Drei, L’antica torre del Comune di Parma, in Aurea Parma VII 1923, 203; P. Zorzanello, Il crollo della torre di Parma, in Crisopoli III 1935, 41-43 (con disegno della torre); J. Bocchialini, La torre del Comune di Parma, in Aurea Parma XLI 1957, 235-242; M. Corradi Cervi, Evoluzione topografica della piazza Grande di Parma dall’epoca romana alla fine del secolo XIII, in Archivio Storico per le Province Parmensi XIV 1962, 44; M.O. Banzola, L’Ospedale Vecchio di Parma, Parma, 1980, 111, 118, 120, 122; P. Mendogni, Artisti e artigiani operanti a metà del ’400 in Sant’Antonio Abate e in altre chiese, in Aurea Parma LXV 1981, 268 s.; U. Thieme-F. Becker, Künstler-Lexikon, XI, 292; P.P. Mendogni, in Dizionario biografico degli Italiani, XLV, 1995, 370-372.
FATULLI GHERARDO, vedi FATULI GHERARDO
FAURE
Parma1763
Libraio di origine francese. Fu attivo a Parma, con altri familiari, dalla metà sino alla fine del Settecento.
FONTI E BIBL.: G. Bodoni, 1990, 300.
FAVA
Parma 1797/1805
Fu cantore alla chiesa della Steccata di Parma dal 1797 al 1805 e alla Cattedrale di Parma nell’anno 1800.
FONTI E BIBL.: Archivio della Steccata, 1797-1805; Archivio della Cattedrale, Mandati 1795-1801; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 170.
FAVA ALBERTO
Parma 1866
Soldato, fu decorato con medaglia d’argento al valore militare dopo la battaglia di Villafranca (24 giugno 1866).
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 25 agosto 1980, 3.
FAVA ARTEMIO
Parma 1937/1946
Dopo aver suonato nell’orchestra di fisarmoniche dell’Opera Nazionale Dopolavoro di Parma, nel 1937 affiancò Antonio Guidetti nell’insegnamento nella scuola che era stata aperta a latere dell’orchestra. La scuola venne chiusa nel 1942 e riaprì nell’ottobre 1946 presso l’Ente Nazionale Assistenza Lavoratori. Il Fava, essendo morto Guidetti, venne affiancato da Nelson Barbieri. La scuola si distinse per i buoni allievi che produsse e fu vincitrice di diversi premi.
FONTI E BIBL.: B e S, 38, 72-74; G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.
FAVA CARLO LUIGI
Parma XIX secolo
Scultore. Eseguì diversi bassorilievi.
FONTI E BIBL.: A.M. Bessone, Scultori e architetti, 1947, 211.
FAVA ELENA, vedi CERIATI ELENA
FAVA ENRICO
Parma 9 maggio 1816-Parma 7 agosto 1883
Figlio di Giuseppe e Francesca Grisendi. Costruttore di accessori musicali didattici. Nel 1845, assieme al pianista Gaetano Bercieri, aprì a Parma, in Borgo Felino 6, una scuola privata di pianoforte nella quale vi sono ottimi strumenti, tutte le macchine necessarie onde perfezionare l’attitudine dello scolaro: così vi ha il Metronomo, il Guidamano, il Dactylion, la Manopola, la Muta e il Lisidattilo (di fresco inventato e giudiziosamente costrutto dal socio signor Fava. Sono date lezioni anche a domicilio; ma in questo caso gli scolari debbono munirsi delle macchine sopraccennate, acquistandole o prendendole a nolo dal detto signor Fava che ne è il fabbricatore.
FONTI E BIBL.: Enciclopedia di Parma, 1998, 330.
FAVA FOSCA, vedi FAVA ITALA
FAVA FRANCESCO
Parma 1772/1791
Allievo della Reale Scuola de’ Cantanti istituita a Parma, nel Carnevale del 1772 cantò (tenore) al Teatro Ducale di Parma nelle Gare degli amanti, di musicista ignoto su versi di Luigi Bernardo Salvoni, e ne I tre gobbi innamorati di Vincenzo Ciampi. Nella stagione di Fiera del 1779 fu a Colorno nell’Ospite incomodo e nelle Due contesse e l’anno dopo al Teatro di Parma nell’Albergatrice vivace di Luigi Caruso e nel Castellano deluso di Giacomo Rust. Il 17 gennaio 1781 fu condannato a i sequestri in casa sino a nuov’ordine, avendo fatto iniziare l’opera in ritardo al Teatro Ducale di Parma (Archivio di Stato di Parma, Teatri e Spettacoli Borbonici, b. 4). Nel 1787 lo si trova a Bologna al Teatro Marsigli Rossi ne Il matrimonio in cantina di Michele Neri Bondi e a Venezia al Teatro di San Benedetto alla Fiera dell’Ascensione (L’orfano cinese). Nel Carnevale 1788-1789 fu primo mezzo carattere nel Regio Teatro di via Santa Maria a Firenze nell’intermezzo a cinque voci Il conte di Bell’Umore o sia La contessa Pianella di Marcello da Capua. Nell’autunno 1789 fu a Venezia al Teatro Giustiniani in San Moisé e vi lavorò anche nel Carnevale del 1790 nella commedia per musica Riccardo cuor di leone del parmigiano Ferdinando Robuschi. L’anno dopo fu al Teatro di Urbino nel dramma giocoso per musica Una cosa rara.
FONTI E BIBL.: De Angelis-Lorena; P.E. Ferrari; Librettistica bolognese; Sartori; G.N. Vetro, Dizionario, 1998.
FAVA GIUSEPPE
Ugozzolo 1611-post 1653
Fu pittore specializzato, sembra, in copie. Il suo nome appare in un inventario di quadri esistenti nel Palazzo del Giardino di Parma ai tempi dei Farnese, dove sono citate due sue opere derivate da dipinti di Michele Ranieri e di Michele Desubleo. Si ha pure notizia di un disegno eseguito nel 1653 dall’affresco del Battistero di Parma raffigurante San Francesco di Assisi.
FONTI E BIBL.: U. Thieme-F. Becker, XI, 1915; Dizionario Bolaffi Pittori, IV, 1973, 336.
FAVA GUIDO
Torrile 1900-Torrile 1990
Agricoltore, partecipò attivamente alla lotta partigiana contribuendo a mettere in salvo partigiani e collaboratori. Nel dopoguerra il suo impegno continuò nell’amministrazione comunale con l’incarico di vice sindaco.
FONTI E BIBL.: Comune di Torrile, Ufficio toponomastica.
FAVA ITALA
Parma 13 settembre 1855-post 1885
Dal 1871 al 1874 studiò canto alla Regia Scuola di musica di Parma, dalla quale si ritirò per continuare privatamente gli studi. A detta del Dacci, possedette qualità non comuni, voce simpatica ed estesa, sentimento e metodo di canto corretto. Il 25 agosto 1877 cantò primo soprano nel Rigoletto al Teatro di Spezia, parte che ripetè nell’aprile 1878 al Politeama Genovese. Era in cartellone per sostenere lo stesso ruolo al Teatro Regio di Parma nel Carnevale successivo ma, scrive il Ferrari, considerata la pessima aria che tirava per l’opera, si dette malata. Nel maggio 1879 fu a Forlì nella Contessa d’Amalfi. Dopo aver cantato, scrive il Dacci, come prima donna in altri teatri, abbandonò la carriera per matrimonio (13 aprile 1885) e si stabilì in Piemonte.
FONTI E BIBL.: Dacci; Ferrari; Frassoni; C. Alcari, Parma nella musica, 1931, 75.
FAVA LANFRANCO
San Pancrazio Parmense 31 luglio 1911-Parma 13 luglio 1979
Compì gli studi al liceo classico Romagnosi di Parma e, conseguita la laurea in giurisprudenza, iniziò la professione nello studio dell’avvocato Cocconi. Manifestò apertamente la sua avversione al fascismo e venne espulso dall’albo degli avvocati. Dopo l’8 settembre 1943 fu tra i primi a salire sui monti, quale instancabile organizzatore delle bande armate partigiane: dapprima nella zona di Bosco di Corniglio, con l’aiuto del parroco, Ferruccio Sartori, e di Ermete Ferrari, e successivamente nelle zone del Lago Santo e del Monte Marmagna. Questa sua generosa opera gli costò tre ferite in combattimento. Per alcuni mesi fu anche in Piemonte a organizzare reparti partigiani. Di estrazione socialista, dopo la liberazione svolse anche attività politica (per un certo periodo fu vicino al Partito Comunista Italiano, dal quale finì però per distaccarsi, collocandosi anzi in posizione apertamente polemica), aderendo poi all’Associazione partigiani cristiani. Si dedicò anche alla poesia. Morì in seguito a una emorragia cerebrale.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 14 luglio 1979, 6; T. Marcheselli, Strade di Parma, I, 1988, 259.
FAVA ROBERTO
Parma 11 febbraio 1859-Parma 26 ottobre
Nacque da Giuseppe e Giuseppa Casapini. Si laureò in lettere a Roma e intraprese l’attività di pubblicista presso alcuni giornali di quella città. Tornato a Parma, fondò a soli ventuno anni la Gazzetta della Domenica, che ebbe breve durata per penuria di mezzi. Uscì soltanto per quattro settimane ma bastò per far comprendere ai pochi Parmigiani che lo degnarono della loro attenzione quali fossero le opinioni politiche del Fava e quali le sue ambizioni letterarie. Così, mentre ognuno dei quattro numeri reca in appendice altrettante puntate del romanzo Donna Renata, la rassegna politica della Gazzetta della Domenica attaccò violentemente la classe dirigente del momento, nella quale bene spesso la mano inguantata e profumata della aristocrazia si trova stretta a quella del più volgare mestierante borghese lievito di una società formata da classi sociali, a cui ogni dì più vien meno la ragione di chiamarsi colte e civili. In seguito divenne direttore de Il Presente (1883-1884), quotidiano radicale assai contestato dai conservatori e liberali parmigiani. In appendice al giornale il Fava pubblicò i tre romanzi Carmela, I Drammi del nihilismo e Sotto i castagni. Nel giugno del 1885 il Fava fu a Milano, alla direzione del giornale La Ragione. Dopo di allora ebbe inizio la sua carriera di corrispondente estero di diversi giornali, una carriera che, portandolo dapprima a Parigi poi a Bucarest, destò il suo interesse per i più vasti problemi di politica internazionale e lo indirizzò in una sfera di attività che gli consentì di uscire dall’anonimato e diventare anzi per un breve periodo figura di primo piano in un momento particolarmente delicato nella storia dei paesi danubiani. Il Fava, passato alla redazione della Sera di Milano, andò pieno di entusiasmo in Transilvania e a Kolozsvár fu presente al processo di una commissione rumena, accusata dal governo ungherese di avere pubblicamente denunciato le oppressioni magiare: gli imputati furono condannati a cinque anni di carcere. Il Fava si interessò poi di problemi economici nel giornale Il Monitore, durato poco più di tre mesi (1890), e nell’opuscolo La verità sulle assicurazioni-vita (1892). Prevalse, comunque, la sua vocazione per la cronaca di carattere politico e nel 1893 pubblicò nella città natale La Corrispondenza Internazionale, foglio con il quale si propose di aiutare la causa dei Romeni di Transilvania contro l’Ungheria. I Magiari, ribellatisi nel 1848 al dominio austriaco, sotto la guida di Kossuth, ottennero in quell’anno l’unione dell’Ungheria alla Transilvania e l’indipendenza nel compromesso del 1867. Rimasero, comunque, legati alla Corona nella politica estera e nell’esercito. Le minoranze dell’Ungheria si videro svantaggiate nei confronti dei Magiari e nel 1892 i rappresentanti romeni compilarono un memorandum di proteste da presentare a Francesco Giuseppe, provocando l’intervento del governo di Budapest, che a Cluj intentò un processo contro i responsabili. Fu quello il periodo in cui il Fava abbracciò la causa dei Romeni e con La Corrispondenza Internazionale si propose di coinvolgere la stampa italiana nell’appoggiare le direttive del Comitato Nazionale Romeno. Il Fava, emissario del governo romeno, cercò in ogni modo di propagandare le sue accuse, anche fuori d’Italia. Gli Ungheresi, per non provocare l’opinione pubblica estera, mantennero, come risulta anche dagli scritti del Fava, un atteggiamento pacato nei confronti degli imputati romeni. Il 9 luglio 1893 i Romeni prepararono una conferenza antimagiara a Sibiu, incontrando l’opposizione del governo di Budapest, che però venne nella determinazione di permettere l’attuazione della conferenza, per non compiere azioni troppo clamorose. I Romeni a Sibiu dapprima deprecarono i feroci metodi ungheresi, dannosi all’unità dell’Impero, poi dichiararono di voler collaborare con i popoli non magiari: era chiaro che intendevano unire le minoranze per vincere gli Ungheresi e in seguito affermare la loro autonomia nazionale. Il Fava descrisse la conferenza molto superficialmente, indugiando negli aspetti folkoristici e tralasciandone il significato politico. Raccontò che i Magiari, per vendicarsi, distrussero la casa del dottor Ratziu e che uno di loro fu ucciso da un colpo di fucile, mentre molti da entrambe le parti furono feriti. Il Fava così commentò il fatto: Mai l’Europa civile assistette ad un più ignobile scempio d’ogni più elementare principio di giustizia e di libertà: mai apparve così manifesta agli occhi del mondo, e così brutta nella sua nudità, la mostruosa alienazione di una nazione acciecata dall’egoismo e della libidine di dominio. Il desiderio di entrambe le parti di rimanere nel pieno della legalità di fronte all’opinione degli stranieri, contrasta con la fosca rissa di sapore medievale descritta dal Fava. A volte però ne La Corrispondenza Internazionale il Fava dimostrò eccezionale senso critico e intuizione politica ma ciò non è sufficiente ad attestare il suo talento giornalisticho, anche perché probabilmente spesso le sue argomentazioni furono suggerite dall’alto. Infatti, quando per esempio contrastò la propaganda oltre frontiera dell’agente magiaro Lipót Óváry, non fece che ripetere i soliti luoghi comuni, senza aggiungere nuovi concetti e senza dialettica. Lipót Óváry, che il Fava definì terribile lanzichenecco del governo ungarico, predicò nelle maggiori città d’Italia che i Magiari non miravano a snazionalizzare le minoranze e sottolineò i pericoli delle tendenze panslavistiche e l’assenteismo romeno nella vita politica comunitaria. Il Fava ribatté che gli Ungheresi volevano annientare l’autonomia dei Romeni ma non riuscivano in ciò per la superiorità culturale di questi, che il panslavismo era uno spauracchio inventato dai Magiari e che i Romeni non partecipavano alla vita politica perché venivano ostacolati in ogni loro iniziativa. L’imperatore Francesco Giuseppe rivolse agli Ungheresi e ai Romeni un discorso improntato a un certo perbenismo legale, in cui indirettamente rimproverò sia lo scionivismo ungherese sia le clamorose proteste di piazza romene. Il Fava svisò la realtà: disse che tutte le allusioni del Sovrano erano rivolte ai Magiari e vide nelle leggere pene comminate agli imputati del processo di Cluj, una conseguenza dell’atteggiamento dell’Imperatore. Le pagine più vivaci del Fava riguardano i litigi con Óváry, quando questi sostenne le capacità di eloquenza forense del procuratore del processo Jess´zensky. La Corrispondenza internazionale offrì al Fava un lavoro sicuro e una certa soddisfazione personale nel difendere un popolo oppresso ma i suoi scritti erano troppo cavillosi, monotoni e poco sentiti per interessare i pochi intellettuali che seguirono la questione ungaro-romena. Nel 1894 pubblicò il libretto La questione rumena e gli agenti del signor Wekerle in Italia: vi ripeté le consuete battute polemiche e sottolineò che gli Italiani erano solidali coi Romeni, già da quando nel 1859 il generale Kossuth aveva separato la causa per l’indipendenza del suo popolo da quella degli Italiani e da quando aveva manifestato il suo doppio gioco nel corso di trattative in comune con la Romania, Napoleone III e Cavour. Il Fava poi ritenne che fosse proprio la debolezza dell’Impero a permettere ai Magiari di opprimere i vari popoli dell’Ungheria. Egli ricordò che Lipót Óváry, agente del Wekerle, cercava di frenare le simpatie degli Italiani verso i Romeni e affermava che al movimento nazionale romeno aderivano pochi adepti. Un altro agente, Stefano Türr, andava dicendo che le violenze magiare erano frutto di pura fantasia e che gli Ungheresi permettevano ai Romeni di mantenere la loro lingua, la loro religione e i loro costumi: il Fava si oppose alla propaganda del Türr, sostenendo che era la superiorità culturale dei Romeni a impedire l’opera di sottomissione degli Ungheresi. Il Fava nel 1894 andò a Bucarest, dove ricevette numerose adesioni e simpatie, come scrisse nel libro Ricordi Rumeni, pubblicato nello stesso anno. Nel volume riprese a parlare del memorandum dei nazionalisti transilvani, ponendo l’accento sulle difficoltà della vita politica delle minoranze: a esempio, i Romeni potevano votare solo se avevano un censo otto volte superiore a quello dei Magiari. Il Fava giudicò il comportamento dei pronipoti di Attila come una macchia incancellabile nella storia della nazione magiara. Disse che la città di Cluj era diventata un centro attivissimo di magiarizzazione ma i settemila abitanti romeni erano rimasti fedeli alle loro tradizioni e al loro modo di vivere, al punto che Nulla indica la dominazione ungherese, fuorché l’uniforme dei soldati e le insegne delle botteghe ove si vendono articoli monopolizzati dallo Stato. Il Fava colse l’occasione per esaltare la partecipazione dei patrioti romeni al processo per il memorandum e per esagerare le misure repressive delle autorità magiare. Egli scrisse che la stampa ungherese cercava di inculcare negli animi il più feroce odio razziale e la definì bugiarda e malvagia. Ma, come ritenne Giovanni Soliani, chi pronunciava quelle frasi non era persona arrabbiata contro qualcuno, disponeva solo di un bagaglio di lodi e maledizioni da dirigere, secondo l’occasione, da qualche parte, non importa dove. Il Fava notò che i Magiari col loro comportamento andavano contro i principi per cui si erano battuti nella rivoluzione del 1848 e non tenne presente la situazione politica in cui si trovavano: infatti nel 1894 non avevano raggiunto una sicura e completa autonomia e anzi la loro autonomia poteva conservarsi solo mantenendo in condizioni di debolezza gli altri popoli, i cui diritti venivano di conseguenza misconosciuti. Il Fava si stabilì in Romania dal 1894 al 1897 e, come notificò Claudio Isopescu, si accinse a pubblicare due nuovi settimanali: il Mesagerul National, Ziar Septamanal Popular Nationalist (1895-1896) e La Correspondence Rose. Nel primo il Fava annunciò la prossima celebrazione in Ungheria del millesimo anniversario della conquista della patria, con queste parole: L’anno prossimo, i nobili discendenti da Árpád festeggieranno rumorosamente il millennio della loro venuta in Europa, e in questa circostanza non risparmieranno alcun mezzo per riconquistare anche una minima parte della simpatia perduta. Essi inviteranno a Budapest una folla cosmopolita, si studieranno di stordirla con spettacoli, con banchetti e con feste di ogni genere, e col suono delle musiche, il tintinnio dei bicchieri e clamori assordanti di gioia copriranno il gemito dei popoli martoriati ed oppressi. La Correspondence Rose, fondata nel 1897, condannò le sopraffazioni ungheresi e informò i lettori su problemi di natura economica. Nello stesso anno il Fava fece la sua prima seria prova di traduttore dando una buona versione italiana dell’opera di Carmen Sylva (la regina Elisabetta di Romania), La servitù del Pelesch, subito pubblicata dalle edizioni Voicu di Bucarest. Nel 1897 lasciò l’Est, in seguito alla morte di una nipotina che aveva portato con sé, e si stabilì a Udine, dove incontrò spesso l’ungherese Lipót Óváry e la consorte dell’agente magiaro Stefano Türr, figlia del generale. Forse queste amicizie influirono sul voltafaccia del Fava, che prese a sostenere le ragioni magiare nel periodico italo-ungherese Il Mondo Politico, fondato a Parma nel 1909. Passato dalla parte della Triplice Alleanza, non considerò più i contrasti ungaro-romeni come un problema a sé stante ma li inserì in una vasta tematica che coinvolgeva tutto l’Impero. Trattò le questioni delle minoranze oculatamente e non con romantico favore come in precedenza, evidenziando i benefici dell’amministrazione imperiale per tutti i popoli del blocco asburgico, al contrario di quanto avveniva per le colonie francesi, tedesche e inglesi. Sottolineò che Vienna e Budapest incontravano numerose difficoltà nel governare il multiforme blocco di popoli ma che avevano dimostrato sempre di saperle affrontare con diligenza. A questo proposito ricordò le riforme agrarie di Beniamino Kallay, del barone Burian e la libertà morale e spirituale che il governo aveva lasciato alle numerose genti. Il Fava mancò di una personalità politica e anche qui è evidente l’influenza dei mandatari, in questo caso ungheresi: i suoi cambiamenti si spiegano solo ammettendo la sua superficialità politica e per il fatto che evidentemente scrisse sotto commissione e non cercando di rinvenire in lui una maturazione di carattere e di opinioni. Infatti in seguito tornò di nuovo a difendere i Romeni con i suoi inni di lotta, le barricate polemiche e la consueta retorica. Lipót Óváry, il conte Apponyi, Francesco Kossuth e il conte Leopoldo Edelsheim-Gyulai, tutti funzionari del governo di Budapest, scrissero su Il Mondo Politico ma per la loro posizione non poterono scendere ad affermazioni che esulassero da una visione generale dei fatti e preferirono strumentalizzare il Fava perché costituzionalmente portato a una politica d’assalto e perché, in quanto straniero, poteva risultare più obiettivo agli occhi dell’opinione pubblica. Il Fava, con una polemica più moderata del solito, spiegò che la maggior parte dei cittadini romeni erano magiarizzabili e che le rivolte dei Romeni, Serbi e Slovacchi erano opera di pochi e fanatici agitatori, dei fautori del panslavismo e degli emissari russi. Dunque, secondo il Fava, le nazionalità dell’Ungheria si dovevano convincere che al di là della frontiera magiara c’era per loro il pericolo di una catastrofe e che l’Europa intera si sarebbe opposta all’espansione slava. Ammonì l’irredentismo rumeno, definendolo utopistico e dannoso all’unità del regno. Dagli articoli del Fava si rileva la debolezza degli Asburgo, che si sforzavano di evitare lo sgretolarsi dell’artificiosa unità dei sudditi, scendendo a compromessi e affidandosi all’arma della persuasione. Il Fava cercò pateticamente di rinvenire i motivi delle lotte tra i vari governi e le varie etnie, ma gli fu impossibile creare un po’ d’ordine tra le popolazioni: troppe erano le mete celate dai vari complessi etnici e politici e troppi interessi internazionali approfittavano della fragilità insita nell’Impero. L’unica possibilità di sopravvivenza del regime asburgico stava nel conservare una parvenza di equilibrio: una soluzione decisa avrebbe comportato la creazione del caos e l’ombra della guerra. Proprio quando Vittorio Emanuele di Savoja, all’inizio della XXIII legislatura, pronunciò il discorso davanti alla nuova Camera, riconfermando l’alleanza alla Triplice e tracciando un quadro di politica conciliativa con le altre nazioni, il Fava parlò di una politica di grande potenza per l’Italia, aiutata in ciò dalla Triplice. Anche se in Italia aumentavano i dissidi intorno alla politica del Re, il Fava si sforzò di propagandare che uscire dall’alleanza equivaleva per l’Italia a cadere in una oscura nebbia gravida di minacce e pericoli: egli dimostrò sorprendentemente in questa occasione prudenza e conservatorismo. Nel 1910 diventò amico di Leopoldo Fava, un bizzarro personaggio in cerca di geniali invenzioni meccaniche, che si faceva accompagnare da un esperto collaudatore delle sue trovate. I tre formarono un club in Borgo Scacchini a Parma e decisero di fondare L’Epoca, un giornale indipendente che restò in vita per brevissimo tempo (se ne conoscono soltanto i primi dieci numeri), per mancanza di collaboratori e di lettori. Con la fine de L’Epoca si interruppe bruscamente anche la pubblicazione in appendice del romanzo di Dostojewskij Un’anima che si schiude, di cui lo stesso Fava aveva curato la traduzione. Allora il Fava fondò La Corrispondenza Rumena, che uscì senza continuità dall’aprile 1913 al luglio 1914: in essa tornò a parteggiare per i Romeni, divenuti più forti per i nuovi progressi nei Balcani, auspicando l’unione tra l’Italia e il paese dell’Est che più di tutti i popoli della Balcania irredenta è quello che ha più sofferto per l’idea latina. Ricordò i soprusi magiari solo a tratti, come quando scrisse che l’Ungheria fra gli stati costituzionali e liberali d’Europa, sebbene abitata da 5-6 nazionalità distinte, è il paese in cui viene calpestato il principio dell’eguaglianza dei popoli. Si lamentò che nella delegazione ungherese non fossero rappresentate anche le minoranze e spiegò il significato politico delle differenze economiche tra i Magiari assai facoltosi e i Romeni poveri, che si preoccupavano di andare d’accordo, per vivere, col padrone magiaro o ebreo, tralasciando i loro veri diritti, con la stampa minoritaria che cercava di risvegliare il movimento nazionale, a costo di incappare nella censura. Il Fava si dichiarò risentito del fatto che sul piano della legalità fossero sempre gli Ungheresi ad avere la meglio. Era vero che le elezioni politiche avevano dato pochi risultati al movimento nazionale promosso dal Comitato romeno, ma ciò teneva ancora più vivi i propositi di lotta e di una prossima liberazione. Invece gli Ungheresi per sopravvivere dovevano calpestare le minoranze. Gli Ungheresi da tempo miravano a eliminare la libertà confessionale dei popoli soggetti e nel 1812 riuscirono a fondare un episcopio greco-cattolico ungherese nei pressi di Satmár, in cui si parlava magiaro ma si seguiva il rito greco: il Fava ebbe, per questo, parole di sdegno, senza accusare il Papa, in quanto sperava in una successiva revisione della bolla. Egli così scrisse: Si dice poi pubblicamente in tutta l’Ungheria che nella nuova diocesi magiara abbia avuto la sua parte di influenza anche la nobile materia che si chiama oro, argento e carta monetata, umiliando certo il grande genio di Roma cattolica rappresentato dal sommo Leone XIII e da quel degno segretario di stato che fu il compianto Rampolla, i quali non avrebbero mai permesso una tale umiliazione della chiesa. Il Fava anche questa volta riferì notizie che gli vennero inviate dalla Romania, senza aggiungere alcuna critica personale. Nel 1914 fondò il secondo periodico italo-ungherese, La Corrispondenza Politica, di cui resta solo un articolo, riportato dall’Isopescu, nel quale egli tornò a difendere gli Ungheresi e la Triplice e negò con sconcertante disinvoltura qualsiasi forma di irredentismo in Transilvania. Scoppiata la prima guerra mondiale, il Fava si trasferì a Roma, dove abitò anche nel primo dopoguerra, dedicandosi alle traduzioni. In quella città vide la luce, nel 1917, una sua versione in prosa dell’Odissea di Omero e, nel 1920, la sua traduzione dal tedesco delle Origini della Guerra Mondiale di V. von Jagow. Quindi tornò a Parma e vi trascorse serenamente l’ultima parte della sua vita, collaborando con la redazione del quotidiano Il Piccolo. Fu sepolto nel cimitero della Villetta in Parma. È assai difficile giudicare la personalità del Fava e coglierne la vera natura, anche perché nei suoi scritti mancò di coerenza ideologica. D’altra parte i suoi mutamenti politici dovrebbero lasciare perplessi se egli nei suoi articoli avesse espresso profondamente le sue idee. Invece si dedicò superficialmente e marginalmente al giornalismo, trascrivendo notizie su commissione ed elaborandole con attributi. Se dunque egli considerò il giornalismo solo un passatempo remunerato, le accuse di incoerenza e scarsa intuizione politica non avrebbero più senso: sta di fatto, comunque, che il senso della sua attività giornalistica resta un mistero. Le vicende della sua vita, con i numerosi viaggi all’estero e con l’incessante fondazione di giornali, fanno pensare a una personalità vulcanica, che negli articoli non si riscontra: i suoi scritti dunque non servono a delineare la sua personalità. Il Fava sostenne, anticonformisticamente e con i suoi slanci di generosità, cause che già in partenza rivelavano la loro debolezza: a Parma nei primi anni di attività lottò contro un ambiente che non poteva capire le sue proteste, in Romania si scagliò contro gli Ungheresi quando essi erano i dominatori, nel 1910 abbracciò le istanze magiare per salvare un Impero che già vacillava e sostenne la Triplice quando tutti la giudicavano sorpassata e priva di significato sul piano pratico. Per questo è in fondo simpatico, per la stramberia di seguire una causa lontana conciliando ad un tempo l’ideale con la banale esigenza di dover sbarcare il lunario, per la sua bonaria confusione che lo portò ad essere un voltabandiera, un mercenario da poche lire al mese, per la sua modestia infine di travet nelle mene magiare e rumene. Il Fava, per uscire dalla routine quotidiana, si rivolse alle terre orientali e creò un mosaico di notizie di sapore esotico, che potevano dargli notorietà: egli non si propose scopi politici precisi, perciò i suoi articoli non resistono al vaglio di una critica in tal senso. Evase dalle fatiche delle traduzioni e delle lezioni private rivolgendosi alla vita dei paesi lontani dell’Est, le cui ragioni politiche spesso lo affascinarono e risvegliarono in lui gli istinti umanitari. Questa sua predisposizione romantica contrasta col fatto che egli scrisse su ordinazione, in un lavoro servile: ciò non si spiega tanto con le esigenze economiche, quanto col fatto che egli trovava interessante qualsiasi cosa fosse costretto a fare, per la sua capacità di deformare sotto un velo idealistico la realtà.
FONTI E BIBL.: B. Molossi, Dizionario biografico, 1957, 69; G. Capacchi, in Aurea Parma 3 1964, 231-241; C. Corradi, Parma e l’Ungheria, 1975, 155-166.
FAVALESI GIUSEPPE
Salsomaggiore XIX secolo
Fu costruttore e riparatore di chitarre e mandolini.
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.
FAZZI GIUSTINA
Parma 1730 c.-Verona post 1780
Fu allevata da Giuseppe Campioni che le fu padre adottivo. Istruita nelle lettere umane, divenne poi attrice comica di grande rilievo. Inizialmente recitò nel Teatro di San Luca, specializzandosi nelle commedie di Goldoni. Anche Carlo Goldoni, in una lettera a Francesco Vendramin, datata da Bologna 21 agosto 1759, la ricorda. Morto il Campioni (1767), passò, insieme al marito Bartolomeo Cavalieri (scrittore di commedie, comico e suggeritore), dalla Compagnia Franceschini nella Compagnia di Pietro Rossi. Accanto al Primo innamorato Leopoldo Maria Scherli diede prova di notevoli capacità recitative esibendosi a Padova (Teatro del marchese degli Obizzi) nel Carnevale del 1767 e in quello del 1768 con la Compagnia di Vincenzo Bugani. Abbandonata anche la Compagnia del Bugani, nel 1775 la Fazzi entrò in società con Maddalena Battaglia nel Teatro Grimani a San Giovanni Crisostomo di Venezia, dove recitò fino al 1780. Passata in quell’anno a seconde nozze a Verona, abbandonò la professione, stabilendosi in quella città. Secondo il Bartoli riuscì brava comica, secondo altri autori fu attrice rinomatissima.
FONTI E BIBL.: F. Bartoli, Notizie de’ comici, 1782, 165-166; M. Ferrarini, Parma teatrale ottocentesca, 1946, 72-73; M. Ferrarini, in Aurea Parma 1 1939, 27; N. Leonelli, Attori, 1940, 198; Enciclopedia spettacolo, II, 1955, 1599.
FEBBRONI OLIMPIO
Zibello 1898-
Professore di lettere, militò fin da giovanissimo nel Partito Popolare e negli anni 1942-1943 stabilì contatti con gli altri partiti che lottavano clandestinamente contro il regime fascista partecipando alla costituzione di comitati d’azione antifascisti a Parma e in altre città. Contribuì alla nascita della Democrazia Cristiana, che rappresentò poi in seno al comitato antifascista nel periodo badogliano. Dopo l’8 settembre 1943 fu tra gli animatori della resistenza armata in provincia di Parma e poi in quella di Piacenza, dove si rifugiò per sfuggire all’arresto. In quest’ultima città rappresentò la Democrazia Cristiana nel Comitato di Liberazione Nazionale.
FONTI E BIBL.: Enciclopedia della Resistenza e dell’antifascismo, II, 1971, 300.
FECORIDE SIVAPE, vedi PAVESI FEDERICO
FEDELE DA BORGO SAN DONNINO, vedi DALLARA LORENZO
FEDELE DA ILLICA, vedi ROLLERI VALENTINO
FEDELE DA PARMA, vedi TADDEI FRANCESCO ALESSANDRO
FEDELI GAETANO Parma 29 settembre 1779-post 1833
Figlio di Filippo. Fu al servizio dell’esercito bonapartista italiano nell’anno 1800. Fu promosso caporale (1801), sottotenente (28 settembre 1809), tenente (28 febbraio 1812) e capitano (4 giugno 1812). Prese parte alle campagne 1803-1808 (Regno di Napoli) e 1809 (Italia, Austria e Ungheria, dove fu ferito da colpo da fuoco alla spalla sinistra a Sabatek, sotto Toab, il 14 giugno 1809). Fu imbarcato per la spedizione di Lissa il 18 ottobre 1810 e sbarcò il 26 seguente. Nel 1812 fu in Russia e nella successiva ritirata. Nel 1813-1814 fu con l’armata d’Italia e di Illiria e nel 1815 a Napoli e in Francia. Capitano al servizio di Parma dal 14 settembre 1814, durante i moti del 1831 fu creato comandante della guardia nazionale. Al ristabilirsi del governo di Maria Luigia d’Austria perdette il grado di maggiore. Dopo alcuni mesi (12 novembre 1831) fu richiamato in attività di servizio. Nell’Ecclettico del 26 febbraio 1831 vi è un suo proclama alla guardia nazionale con cui la richiama a farsi forte nell’unione per mantenere quella libertà, pel di cui acquisto si è resa immortale. Posto in ritiro il 16 dicembre 1833, fu membro della Legion d’Onore.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Reggimento Maria Luigia, Matricola, 1814; Del Prato, L’anno 1831, 1919, XVIII; E. Loevison, Ufficiali, 1930, 23; O. Masnovo, Patrioti del 1831, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1937, 169.
FEDERICI PIETRO
-Parma 27 novembre 1873
Fece la campagna risorgimentale del 1848.
FONTI E BIBL.: Il Presente 29 novembre 1873, n. 325; G. Sitti, Il Risorgimento italiano, 1915, 406.
FEDERICO DA PARMA
Parma XIV/XV secolo
Fu grande amico di Gasparino Barzizza, come appare dalle lettera scrittagli da questi (la quale sta a pagina 212 delle sue Opere, Romae, 1723). Vi si leggono queste parole: Cassiodorum meum ad te mitto, ut illum quam familiarem tibi facias; nondum potui habere illum venalem, de quo tecum locutus fui, cum apud te essem: interim ita uteris meo, ut tuum quoque credas. Bucolicam Petrarchae cum parte Commentariorum mitto, ut liber iste sit argumentum amicitiae nostrae, non quod de te diffidam, sed ut amoris mei signum aliquod tibi exhibeam. Vale, mi Federice. Patavii. Non è verosimile che il dottissimo Barzizza prestasse o inviasse in dono manoscritti rari o importanti a persona che non fosse fine cultore delle lettere. Si può quindi ipotizzare che Federico fosse molto addottrinato nelle lettere latine, lingua nella quale corrispondeva col Barzizza. Il Barzizza morì nel 1431: pare probabile che Federico fiorisse all’inizio del XV secolo e fosse stato allievo del Barzizza.
FONTI E BIBL.: A. Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, II, 1827, 147.
FEDERICO DA PARMA, vedi anche BONZAGNI GIOVAN FEDERICO
FEDI MARCO
Fontanellato 1943-Parma 1990
Cantante di musica leggera, fu un tipico esponente del genere melodico all’italiana, vincitore di numerosi concorsi canori a livello regionale e nazionale. Iniziò la sua attività all’età di venti anni, lavorando con Angelo Bocelli in caffè concerto a Salsomaggiore, poi con l’orchestra romagnola di Germano Montefiori e con quelle parmigiane di Piero Barbieri, Giancarlo Zucchi e Corrado Medioli. Nella sua carriera incise sette musicassette: quattro da solista, una con Corrado Medioli, una con Claudio e Pino Corvino e una di canzoni parmigiane insieme ad altri interpreti.
FONTI E BIBL.: F. e T. Marcheselli, Dizionario Parmigiani, 1997, 131.
FEDOLFI GIOVANNI
Parma primo decennio del XIV secolo-post 1355
Compiuti gli studi di diritto civile e canonico nella città natale, ricoprì, secondo il Bolsi, le cariche di avvocato di una parrocchia, di prevosto della chiesa della Santissima Trinità, di provicario della curia vescovile di Parma e di abate delle chiese di San Marcellino e San Nicolò. Nel 1354 si trasferì a Genova al seguito di B. Capello, il podestà milanese che i Visconti imposero ai Genovesi dopo aver ridotto la città ligure sotto il loro dominio (1353). A Genova svolse le funzioni di giudice e consulente del podestà in materia giuridica. Non rimane di lui alcuna opera scritta. Le lettere che Francesco Petrarca gli indirizzò testimoniano che il Fedolfi fu nel novero delle amicizie più o meno intime che il grande letterato strinse durante i suoi soggiorni a Parma. A queste epistole, che attestano in via indiretta gli interessi letterari del Fedolfi, è legata in sostanza tutta la fama di quest’ultimo. Il Fedolfi è, assieme al suo amico Luchino Dal Verme, capitano e luogotenente dei Visconti a Genova dal 3 maggio 1355, il destinatario esplicito della epistola inserita con il n. 61 nelle Variae, che è però un chiarimento (richiesto al poeta dallo stesso Fedolfi) del contenuto allegorico di un’altra delle Variae, la n. 50, indirizzata dunque alla stessa persona. Quest’ultima epistola, scritta a Milano nell’estate del 1355, risponde a una domanda del Fedolfi e di un suo più importante amico, da identificarsi in Luchino Dal Verme, circa il modo in cui ci si possa riparare dalla violenza del Leone nemeo, cioè del segno zodiacale che nella stagione estiva rende eccessivo il calore del sole. Petrarca si rifiuta di credere che la domanda si debba intendere soltanto in senso letterale e, interpretando metaforicamente il caldo eccessivo come il simbolo delle passioni che soffocano lo spirito, consiglia di cercare il refrigerio di un raro albero a sette rami: quattro antichi, volti verso terra e tre più recenti, frutto dell’amorosa cura di un agricoltore celeste, volti verso l’alto. Nell’epistola n. 61, di poco posteriore, Petrarca spiega l’allegoria: i rami rappresentano le quattro virtù cardinali e le tre teologali e l’agricoltore è Cristo. Da questa epistola, di cui il codice Laurenziano 90 inf. 14 e il Palatino 79 conservano l’indirizzo, Egregio doctori domino Iohanni de Parma (il Palatino aggiunge iuris perito) sotio Domini Luchini de Vermo, si evince che il Fedolfi eseguì una miniatura raffigurante l’albero e l’orbe terracqueo, che spedì al Petrarca, insieme con la richiesta, sua e di Luchino Dal Verme, che fosse loro spiegata l’allegoria dell’albero. Evidentemente o il Fedolfi non era fornito di una dottrina troppo solida oppure desiderava possedere (da ammiratore qual era, più che amico) un commento d’autore al testo allegorico della prima lettera: cortesia richiesta e ricompensata in anticipo con l’invio della miniatura. Il Foresti ritiene che al Fedolfi siano state dirette anche altre tre epistole petrarchesche, cioè l’undicesima del secondo libro delle Epistole metriche (indirizzata a Luchino Visconti), l’epistola n. 21 delle Variae (a G. Zamorei) e la quarta dell’undicesimo libro delle Familiari, spostando la datazione di quest’ultima al 1350-1351 (invece che all’autunno del 1348). Questa ipotesi, che fu subito contestata dal Carrara ma che venne accolta pedissequamente dal Rizzi e parzialmente dal Wilkins, fu in tempi successivi, con persuasive argomentazioni, respinta dal Feo (ma accettata, limitatamente a Variae, n. 21, dal Faraggiana di Sarzana, che ignora l’articolo del Feo).
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Genova, Notai antichi, num. gen. 280, c. 207v (nell’atto del 2 luglio 1354, catalogato tra quelli di Francesco Roboreto ma redatto da un Philippus Noitoranus, il Fedolfi è qualificato iudex et assessor domini potestatis); Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, pluteo 90 inf. 14, sec. XV, c. 92v; Parma, Biblioteca Palatina, ms. 79, sec. XIV, c. 50r; F. Petrarca, Epistolae de rebus familiaribus et variae, a cura di G. Fracassetti, Florentiae, 1863, III, 440 ss., 473-476; O. Bolsi, Annotationes in iurisc. et iud. Parm. ordinem, Parmae, 1723, 22; A. Foresti, Aneddoti della vita di Petrarca, a cura di A. Tissoni Benvenuti, Padova, 1977, 173, 342-349 (per quanto discuribile, è la maggiore fonte di notizie sul Fedolfi); A. Carrara, recenione all’articolo del Foresti, in Giornale Storico della Letteratura Italiana LXXXIV 1924, 132 s.; F. Rizzi, F. Petrarca e il decennio parmense (1341-1351), Torino, 1934, 47, 156 ss., 161, 173, 304; E.H. Wilkins, The prose letters of Petrarch: a manual, New York, 1951, 20; E.H. Wilkins, The Epistolae metricae of Petrarch. A manual, Roma, 1956, 21; E.H. Wilkins, Petrarch’s correspondence, Padova, 1960, 17; M. Feo, Il sogno di Cerere, in Il Petrarca ad Arquà. Atti del Convegno di studi nel VI centenario (1370-1374), a cura di G. Billanovich-G. Fasso, Padova, 1975, 144; M. Feo, Di alcuni rusticani cestelli di pomi, in Quaderni Petrarcheschi I 1983, 37-43, 73 (fornisce una nuova edizione critica della Ep. metr., II, 11 e della Famil., IX, 4); C. Faraggiana di Sarzana, Gabrio Zamorei: un funzionario visconteo amico del Petrarca, in Studi Petrarcheschi, n.s., I 1984, 230; A. Tissoni Benvenuti, Alcune considerazioni su Parma e i letterati parmensi nel XV secolo, in Parma e l’Umanesimo italiano. Atti del Convegno internazionale di studi umanistici, a cura di P. Medioli Masotti, Padova, 1986, 122; U. Dotti, Vita di Petrarca, Bari-Roma, 1987, 311; F. De Propris, in Dizionario biografico degli Italiani, XLV, 1995, 806-807.
FEDOLFI PIETRO
Parma-1825 o 1826
Fu tenente colonnello dell’esercito ducale di Parma, Deputato civico nel 1781 e aiutante maggiore dei Reali Carabinieri. Il suo nome compare, con gli appellativi di Regiae cohortis, hastatorum ductor, nella lapide apposta nel 1782 dal duca Ferdinando di Borbone nell’Ospedale vecchio di Parma. Fu sindaco aggiunto di Parma nel 1807 e tenne corrispondenza col Bodoni. Nel 1827 Maria Luigia d’Austria acquistò dai suoi eredi molte terre situate entro i confini della Reale riserva di caccia: più di 14 ettari di tale tenuta erano costituiti da boschi da taglio e da castagni. Il Ferlaro fu fatto costruire dalla Duchessa per i figli su parte di quei terreni, sui quali preesistevano un casino e un oratorio. Il Fedolfi ebbe possedimenti anche a Sala. Sposò una sorella di Ubaldo Bianchi, uno dei precursori della meteorologia. Il 20 aprile 1816, poco prima di fare il suo ingresso in Parma, Maria Luigia d’Austria effettuò una breve sosta nella villa che il Fedolfi possedette a San Leonardo, sulla strada di Colorno. Fu assessore del podestà di Collecchio nel 1823 e consigliere anziano nel 1824.
FONTI E BIBL.: P.L. Spaggiari, Una Cassa di Risparmio progettata a Parma nel 1828, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1956, 145; A. Boselli, Il carteggio bodoniano della Palatina di Parma, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1913, 187; N. Pelicelli, Storia dell’Ospedale Maggiore di Parma fondato da Rodolfo Tanzi nel 1201, Parma, 1935; Malacoda 9 1986, 41.
FELCI LORENZO
Borgo Taro 1899-Bergamo 11 maggio 1985
Visse gli anni dell’infanzia e della giovinezza a Borgo Taro (questo Comune nel 1963 gli assegnò la medaglia d’oro riservata ai suoi cittadini più illustri). A diciotto anni fu alpino a Caporetto e a ventiquattro medico-chirurgo: l’Università di Parma lo laureò magna cum laude. Dopo un interinato come medico condotto a Bedonia, nel 1925 fu assistente volontario all’Istituto di Radiologia dell’Ospedale Maggiore di Parma. Nel 1929 fu libero docente in radiologia medica e nel 1931 (1º classificato nel concorso) aiuto radiologo all’Ospedale Maggiore di Bergamo. In questa veste si trovò per molteplici ragioni a dover, da solo, rendere funzionante il reparto dell’ospedale, inaugurato l’anno precedente. Primario incaricato nel 1932, fu effettivo nel 1935, a soli trentasei anni d’età. Nel 1962 gli venne conferita la medaglia d’oro della sanità pubblica a riconoscimento della sua preziosa opera nel campo specifico della cancerologia, attività a rischio e per la quale il Felci subì lesioni radiodermitiche alla mano sinistra. Fu animatore di congressi nazionali e internazionali e pioniere di incontri di studio e di aggiornamento medico-scientifico. Numerosi furono le sue pubblicazioni e i saggi e altrettanto numerosi i riconoscimenti di merito. Fu affascinato dal mondo della classicità, specialmente da quello greco: le sue conferenze all’Ateneo di lettere, arti e scienze, di cui fu socio, erano disquisizioni dotte e finissime sulla storia della medicina. Il Felci fu sepolto a Borgo Val di Taro.
FONTI E BIBL.: A. Bocchi Roncelli, in Gazzetta di Parma 24 maggio 1985, 4.
FELICE DA BORGO SAN DONNINO, vedi MOLLA ANTONIO
FELICE DA BUSSETO, vedi BOTTAZZI PIER GIOVANNI
FELICE DA MARETO, vedi MOLGA LUIGI
FELICE DA PARMA
Parma-Parma 22 aprile 1745
Frate teatino, fu predicatore di grande successo nelle maggiori città d’Italia.
FONTI E BIBL.: Beato Buralli 1889, 220.
FELICE DA PARMA, vedi anche FERRARI GIACOMO e SANTINELLI MARIO
FELICE DEI FIORI, vedi BIGGI FELICE FORTUNATO
FELICE MARIA DA BORGO SAN DONNINO, vedi AMANDOLESI GIUSEPPE e GODI ORTENSIO
FELICE MARIA DA PARMA, vedi PESCATORI GIULIO
FELICETTI TOMMASO
Parma 1770/1810
Orologiaio. Nel 1810 si segnalò nel restauro del planisferologio del Facini. Di lui si citano anche singolari orologi da tasca, rivestiti di smalto, costruiti tra il 1770 e il 1796.
FONTI E BIBL.: P. Tomasi, La scuola parmense di orologeria, in Gazzetta di Parma 15 giugno 1981, 3.
FELICI MATTEO
Parma 1635/1644
Sacerdote, fu cantore ordinario (basso) e servì in Cattedrale a Parma nel 1635. Il 23 gennaio 1637 lo si trova tra i cantori delle Compiete et Litanie alla chiesa della Steccata di Parma, come anche nelle grandi solennità dell’Annunciazione del 1637 e della Pentecoste del 1644.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 111.
FELICI RICCARDO
Parma 11 giugno 1819-Sant’Alessio 20 luglio 1902
Le sue origini sono oscure (nei registri battesimali della città di Parma il suo nome non compare, neppure tra i battezzati dell’Ospizio degli esposti): nell’ambiente dei suoi amici e degli allievi più intimi circolava la voce che fosse figlio illegittimo, abbandonato dopo la nascita, di un nobile parmense, da cui avrebbe ereditato prestanza fisica, intelligenza e crin fulvo. Certo la sua gioventù non fu facile e il Felici poté studiare solo a prezzo di gravi sacrifici personali. Nel 1839 andò a Pisa con l’intenzione di prepararsi alla Ecole Polytechnique di Parigi. A Pisa, per iniziativa del granduca Leopoldo II, si stava formando il primo nucleo della prima scuola italiana di fisica nell’Ottocento, con L. Pacinotti, O.F. Mossotti e C. Matteucci. Soprattutto per influenza di quest’ultimo il Felici abbandonò il suo primitivo progetto e si dedicò alla fisica, cominciando quasi immediatamente ad aiutare il Matteucci nel lavoro di laboratorio. Dal Matteucci fu nominato aiuto alla cattedra di fisica nel 1846, quando già da due anni aveva cominciato a pubblicare qualche breve nota. Durante la prima guerra d’indipendenza il Felici con il grado di tenente fece parte del battaglione di universitari pisani che, col Mossotti in qualità di maggiore e il Matteucci in quella di commissario civile, si batté valorosamente a Curtatone. Nel 1849 il Felici ritornò all’insegnamento, sostituendo stabilmente, sino a ottenere la cattedra, sempre a Pisa, nel 1859, il Matteucci, sempre più impegnato nell’attività politica. La sua ricerca si indirizzò verso lo studio delle proprietà delle correnti elettriche (Sulla propagazione della corrente elettrica nell’interno di una sfera, in Annali di Scienze Matematiche e Fisiche I 1850, pp. 312-318). Risale al 1851 l’avvio del più rilevante programma di ricerca del Felici, che sviluppò ininterrottamente sino al 1859, incentrato sulla teoria dell’induzione elettrodinamica (Saggio di una spiegazione dei fenomeni dell’induzione elettrodinamica, in Annali di Scienze Matematiche e Fisiche II 1851, pp. 65-80; Saggio di un’applicazione del calcolo alle correnti indotte dal magnetismo in movimento, in Annali di Scienze Matematiche e Fisiche IV 1853, pp. 173-183; Sulla teoria matematica delle correnti indotte in un corpo di forma qualunque, in Annali di Scienze Matematiche e Fisiche V 1854, pp. 35-47; Sulla teoria matematica della induzione elettrodinamica, in Annali delle Università Toscane 2 1854, pp. 1-30, 99-136, 2 1854, pp. 5-24; Ricerche sulle leggi generali della induzione elettrodinamica, in Il Nuovo Cimento I 1855, pp. 325-334; Sur les courants induits par la rotation d’un conducteur autour d’un aimant, in Annales de Chimie et de Physique, s. 3, XLIV 1855, pp. 343-346; Sulla legge di Lenz, e sopra alcune recenti esperienze del prof. Matteucci sull’induzione elettrodinamica, in Il Nuovo Cimento III 1856, pp. 198-208; Mémoire sur la loi de Lenz, in Annales de Chimie et de Physique LI 1857, pp. 378-382; Sulla spiegazione del diamagnetismo, partendo dalla teoria dell’induzione elettrodinamica, in Il Nuovo Cimento IX 1859, pp. 16-39; Esperienze che dimostrano che quando un corpo ruota sotto la influenza di una calamita, la forza che, in virtù delle correnti indotte, si sviluppa fra la calamita e il corpo indotto, è repulsiva od attrattiva a seconda della direzione del moto rotatorio, ma che la intensità della forza repulsiva, nel primo caso, è maggiore della attrattiva che ha luogo nel secondo, in Il Nuovo Cimento X 1859, pp. 5-12). Quando il Felici iniziò il suo studio esistevano varie teorie dell’induzione elettromagnetica, quali quella di F.E. Neumann e quella di W. Weber. Partivano da svariate ipotesi sulla natura delle leggi elementari dell’induzione, dalle quali per integrazione si giungeva poi a formulare leggi relative a circuiti completi, le sole che si potevano controllare sperimentalmente. Poiché nel corso dell’integrazione le differenze tra le diverse formule elementari scomparivano, così come scomparivano gli altri termini che si poteva pensare di aggiungere arbitrariamente a queste formule, l’esperienza non poteva consentire di stabilire alcunché circa le leggi elementari dell’induzione. Il Felici riuscì a stabiire sperimentalmente la natura di queste leggi elementari. Il modello metodologico cui si ispirò esplicitamente era quello rappresentato autorevolmente da A.-M. Ampère, che si era sforzato di elaborare una teoria dei fenomeni elettrodinamici dedotta unicamente dall’esperienza. Nella convinzione che un buon metodo sperimentale consente di scoprire con piena sicurezza le leggi fondamentali della natura, portando alla identificazione di fatti e teoremi, il Felici operò con l’intenzione di fondare direttamente sul responso degli strumenti la validità e la forma delle leggi dell’induzione, anche se il suo sperimentalismo fu sempre accompagnato e supportato da capacità matematiche ragguardevoli. Dopo avere studiato l’influenza esercitata sul fenomeno dell’induzione dall’intensità della corrente inducente, dalla natura e dalla grandezza dei circuiti, dalle distanze e le forme e le posizioni relative dei circuiti inducente e indotto, il Felici indagò il fenomeno nelle tre circostanze in cui può avvenire, cioè per l’apertura o la chiusura del circuito inducente, per il moto relativo tra l’indotto e l’inducente e per il moto relativo delle parti di uno stesso circuito. Arrivò così alle formule relative ai tre casi diversi, dalle quali dedusse, come verifica, proprietà già note e proprietà nuove, che immediatamente controllò con successo. Le esperienze del Felici stabilirono che la legge elementare ipotetica da cui era partito Neumann era effettivamente corretta per il caso di induzione prodotta dal moto relativo, mentre per induzione generata da apertura o chiusura del circuito inducente essa risulta valida solo sotto opportune condizioni. Le leggi del Felici furono successivamente assunte da H.L. von Helmholtz per una rinnovata teoria dell’induzione che rovesciava la precedente impostazione ipotetico-deduttiva, partendo da un insieme di leggi sperimentali bene stabilite, appunto quelle del Felici, per fonderle in una formula generale. Terminato questo grande ciclo di ricerche, il Felici, che nel frattempo si era sposato nel 1854 con Elisa Frullini, dalla quale ebbe una figlia, Isabella, si dedicò in misura progressivamente crescente ad attività organizzative, assumendo per due volte la carica di rettore dell’Università di Pisa, nel 1870 e nel 1882, e tenendo la direzione del Nuovo Cimento, la principale rivista italiana di fisica, fino al 1893, anno in cui si ritirò dall’insegnamento. Parallelamente la sua attività di ricerca andò scemando, diventando praticamente nulla dopo il 1875. Prima di questa data il Felici compì due gruppi di ricerche che, se certo non erano del livello raggiunto da quelle sull’induzione, ebbero comunque un notevole rilievo. Il primo gruppo riguardava la determinazione del valore della velocità di propagazione dell’elettricità in un circuito. Egli ottenne un valore di 260000 km al secondo, molto più prossimo alla realtà di quello ottenuto da C. Wheatstone con celebri esperienze che davano un valore di 460000 km al secondo (Esperienze sulla velocità della elettricità e sulla durata della scintilla, in Il Nuovo Cimento XV 1862, pp. 339-365; Nuove esperienze sopra la velocità della elettricità e sulla durata della scintilla, in Il Nuovo Cimento XVII 1863, pp. 28-44; Nuova esperienza sopra la velocità e sulla durata della scintilla, in Annali delle Università Toscane 2 1866, pp. 5-18). Con il secondo gruppo di ricerche sperimentali, più notevole del precedente, il Felici studiò la polarizzazione dei dielettrici, chiarendo per primo che la polarizzazione è un’azione che parte da tutti i punti della massa del dielettrico e non dalla sola superficie, che è indipendente dallo stato fisico di questa superficie, che si sviluppa e che cessa con grande rapidità ed è proporzionale all’azione inducente. Anche in questo caso, come già in quello dello studio dell’induzione, il Felici ricondusse una questione che veniva trattata quasi esclusivamente da un punto di vista teorico e ipotetico a un insieme di leggi empiriche (Sulle azioni elettriche dei corpi non conduttori soggetti alla influenza di un corpo elettrizzato, in Il Nuovo Cimento, s. 2, V-VI 1871, pp. 5-33, 73-93; Esperienze sul tempo impiegato da un coibente per ritornare allo stato naturale, in Il Nuovo Cimento X 1873, pp. 80-97). Nei suoi ultimi lavori il Felici ritornò a studiare alcuni aspetti della teoria dell’induzione, costruendo un notevolissimo interruttore, capace di dare interruzioni a intervalli di un ventimillesimo di secondo, che ebbe poi larga diffusione nella strumentazione fisica (Sopra un nuovo interruttore e sul suo uso in alcune esperienze d’induzione, in Il Nuovo Cimento XII 1874, pp. 115-140). Ebbe molti riconoscimenti per i suoi meriti scientifici: fu presidente della Società italiana di fisica e membro di svariate società scientifiche italiane e straniere, quali l’Accademia dei Lincei, l’Accademia dei XL, l’Accademia delle scienze di Torino e quella di Bologna, l’Istituto veneto, l’Istituto lombardo, la Physical Society di Londra e la Physikalisch-medicinische Gesellschaft di Würzburg. Non esiste una raccolta completa degli scritti del Felici. Le sue principali memorie sull’induzione elettrodinamica sono state tradotte in tedesco e pubblicate in un volume della celebre collana Ostwald’s Klassiker: Riccardo Felici, Ueber die mathematische Theorie, Leipzig, 1899. Una bibliografia degli scritti del Felici, però con alcune incompletezze e imprecisioni, è contenuta in Il Nuovo Cimento, s. 5, IV 1902, pp. 244-246.
FONTI E BIBL.: Necrologio in Rendiconti della Accademia Nazionale dei Lincei, classe di scienze fisiche, matematiche e naturali, s. 5, 2 1902, 286-294; Il Nuovo Cimento, s. 5, IV 1902, 233-246; F. Grassi, Il secolo XIX nella vita e nella cultura dei popoli. La fisica e l’elettrotecnica, Milano, s.d., 445 ss.; O.M. Corbino, Il contributo italiano ai progressi delle elettrologie nell’ultimo cinquantennio, in Atti della V Riunione della Società italiana per il progresso delle scienze, Roma, 1912, 278, 294; A. Occhialini, Notizie sull’istituto di fisica sperimentale dello Studio pisano, Pisa, 1914, 12-18; A. Pochettino, Riccardo Felici, in L’Elettrotecnica XVII 1930, 487 s.; G. Polvani, Fisica, in Un secolo di progresso scientifico italiano 1839-1939, Roma, 1939, I, 585, 589 s., 598; L. Puccianti, Il contributo della scuola di Pisa alla fisica italiana, in Atti della XXVIII riunione della Società italiana per il progresso delle scienze, Roma, 1940, Relazioni, I, 328-332; M. Gliozzi, Storia della fisica, in Storia delle scienze, Torino, 1962, II, 282; R. Maiocchi, Il ruolo delle scienze nello sviluppo industriale italiano, in Storia d’Italia, Annali, 3, Scienza e tecnica, Torino, Einaudi, 1980, 874 s.; B.J. Reeves, Le tradizioni di ricerca della fisica italiana nel tardo diciannovesimo secolo, in La scienza accademica nell’Italia post-unitaria, a cura di V. Ancanari, Milano, 1989, 82 ss.; La storia delle scienze, a cura di C. Maccagni-P. Freguglia, II, La cultura filosofica e scientifica, Busto Arsizio, 1989, 322 s.; R. Majocchi, in Dizionario biografico degli Italiani, XLVI, 1996, 74-76.
FELICIANO DA BEDONIA o DA PIACENZA, vedi LUSARDI FRANCESCO MARIA BENEDETTO
FELINI ANTONIO
Parma 1779
Sacerdote, fu cantore della Cappella di San Paolo in Parma fino a che venne soppressa il 12 dicembre 1779. Ottenne allora la pensione di 540 lire annue.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato, Ruolo A, 1, fol. 892-897; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 215.
FELINI ANTONIO MARIA EGDIO Parma 3 aprile 1704-post 1756
Figlio di Francesco e Giovanna Dominici. Artista noto attraverso un’incisione del 1756 di Giovanni Ramis raffigurante la Beata Vergine del Fiore dell’omonimo oratorio di Parma. Di questa incisione si trova una copia nella Biblioteca Palatina di Parma, con la scritta Egid. Felini Pinx et Delin.
FONTI E BIBL.: U. Thieme-F. Becker, XI, 1915; Enciclopedia pittura italiana, II, 1950, 908; Dizionario Bolaffi Pittori, IV, 1973, 318.
FELINI EGIDIO, vedi FELINI ANTONIO MARIA EGIDIO
FELINI FRANCESCO
Parma seconda metà del XVII secolo
Pittore attivo nella seconda metà del XVII secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, VI, 109.
FELINI GALEAZZO
Borgo San Donnino 1523/1524
Pittore, forse figlio del maestro Bernardino. Stipulò contratti nel 1523 e 1524.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, III, c. 199; Archivio Storico per le Province Parmensi XLVI 1994, 328.
FELINO BARTOLOMEO o BERTOLINO, vedi GUARINI BARTOLOMEO
FELINO SANDEO, vedi SANDEO FELINO MARIA
FELIS, vedi BAZZI TULLO
FELLONI
Parma 1777/1791
Fu primo basso alla chiesa della Steccata di Parma dal 1777 al 1791.
FONTI E BIBL.: Archivio della Steccata, Mandati 1777-1791; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936.
FELLONI CRISTOFORO
Bozzi di Bedonia-Bedonia 1905
Fu legionario della Legione straniera. Dopo il ripetuto fallimento di diversi attacchi francesi alla Torre di Malakoff, il comandante in capo Mac Mahon fece trasferire sul posto un reparto speciale di Zuavi algerini, integrato, per le gravi perdite subite in precedenza, da reparti della legione straniera. Tra questi ultimi Jan Brusca da Pontestrambo, già galeotto nelle segrete del Castello d’Iff, e il Felloni, emigrato in Francia e quindi volontario nella Legione a Marsiglia. Il Felloni, dotato di robusta costituzione fisica, salito su una scala appoggiata alla Torre di Malakoff, riuscì a portare sulle spalle lo zuavo portabandiera che lo precedeva, ormai colpito a morte, riuscendo a innalzare sulla torre il vessillo di Francia. La coraggiosa impresa fu determinante per la vittoria finale: infatti, girate le colubrine verso i difensori interni, si spianò la strada per la conquista di Sebastopoli. In riconoscimento del suo eroico comportamento il Felloni venne insignito della Legione d’onore e lo stesso comandante Mac Mahon, alcuni anni più tardi, lo volle con sé come guardia del corpo durante la campagna d’Italia, quando a capo del 2º Corpo d’armata, il 4 giugno 1859, a Magenta con abile mossa tattica determinò la sconfitta degli Austriaci e ottenne da Napoleone III il titolo di marchese e duca di Magenta. Il Felloni, rientrato a Bedonia sul finire del secolo, vi morì ormai vecchio e pieno di acciacchi.
FONTI E BIBL.: F. Ferrari, Mito, tradizione, storia, 1983, 75.
FELLONI LODOVICO
Parma-post 1781
Nella stagione di Fiera del 1763 cantò (basso) come primo buffo nel Pubblico Teatro di Reggio Emilia in La baronessa riconosciuta e in La baronessa riconosciuta e maritata. Ritornò su quelle scene nel Carnevale del 1781 in Il cavaliere magnifico e Il matrimonio per inganno.FONTI E BIBL.: Fabbri e Verti; G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.
FENEUILLE LOUIS AUGUSTE, vedi FENEULLE LOUIS-AUGUSTE
FENEULLE LOUIS-AUGUSTE Condé-sur-l’Escaut 1733-Parma 15 aprile 1799
Giunto a Parma in una data imprecisata, frequentò la scuola dell’architetto lionese E.A. Petitot, chiamato alla Corte di Parma dal ministro G. Du Tillot nel 1753, e nel 1759 conseguì il secondo premio al concorso di architettura bandito dall’Accademia di belle arti parmense. Il concorso, il cui tema era Una rotonda, fu vinto dal bolognese L. Balugani. L’anno successivo il Feneulle ottenne il primo premio con Una magnifica fiera, di cui si conservano otto elaborati presso l’Accademia di belle arti di Parma. Uno di questi visualizza la disposizione delle basiliche poste al centro di ogni lato, un secondo disegno raffigura invece il lungo porticato che avrebbe dovuto collegare il teatro, carico di reminiscenze stilistiche desunte dall’architettura romana, ai due corpi di guardia laterali. Il Feneulle aveva inoltre previsto l’impiego dell’ordine ionico sul fronte principale e di quello dorico sul retro. Alberi e fontane arricchivano l’area sulla quale avrebbe dovuto sorgere l’edificio della fiera. Nel 1765 il Feneulle si recò a Roma. In un ambiente denso di suggestioni (oltre alle grandi raccolte, le collezioni pontificie e quelle delle dimore patrizie private, Roma offriva i grandi cantieri religiosi e di committenza privata) egli completò e arricchì la propria formazione e, al suo rientro a Parma, venne nominato professore presso l’Accademia di belle arti. Dal 1766 il nome del Feneulle ricorre tra quello degli accademici professori aggiunti e poi tra quelli effettivi con voto (Mambriani, 1992, p. 175). Controllore dei reali palazzi, il Feneulle svolse un’intensa attività per la congregazione degli edili, il corpo speciale preposto a compiti attivi fin dal momento della sua istituzione, nel 1767, all’epoca in cui l’intendente della casa sovrana, il Du Tillot, ricopriva la carica di ministro. Nel decennio 1760-1770 la politica urbana sostenuta dal Du Tillot procedette, a Parma, su una duplice linea: da un lato la promozione di lavori alle residenze ducali, dall’altro un’intensa opera di riorganizzazione dell’estetica cittadina rappresentata da numerosi embellissements. Nel 1768 il Feneulle fu sostituito dall’abate G. Furlani, allievo del Petitot e segretario dell’Accademia dal 1777. Sempre nel 1768 il Feneulle si sposò con Giovanna Pietra Chepy, da cui ebbe tre figli, Giuseppa, Luigi e Leonice (Scarabelli Zunti, c. 118). Dal 1776 fu architetto delle febbriche ducali. Le fonti ricordano i progetti per la ricostruzione di palazzo Venturi Pettorelli (1780) su strada dei Genovesi n. 34, nel cui cortile lo scenografo veneziano P. Gonzaga realizzò una prospettiva dipinta (1782). Si conserva inoltre lo studio (collezione privata, in Consigli Valenti, 1988) per la ristrutturazione della dimora parmense del marchese T. Ventura, avviata dopo il 1786, anno in cui questi ereditò il palazzo del padre. Il disegno documenta l’adesione del Feneulle ai canoni del neoclassicismo petitotiano. Nell’ambito dei lavori di riqualificazione e di potenziamento delle istituzioni ospedaliere sostenuti nel corso del Settecento, allorché si assistette a un ampliamento di questi edifici e alla loro riorganizzazione amministrativa, si collocano i lavori all’ospedale parmense, promossi dal duca Ferdinando di Borbone. Il Duca commissionò al Feneulle l’intervento di ristrutturazione dell’ingresso, ideato in forma di arco di trionfo, e lo scalone dell’Ospedale della Misericordia, posto su strada di Porta Santa Croce (1782). Una tavola elaborata da A. Sanseverini bene documenta la qualità dell’intervento realizzato (Archivio di Stato di Parma, Raccolta Sanseverini, vol. I, mappa 24). Palese è il richiamo alla tipologia dell’arco di trionfo romano che il Feneulle ripropose per sottolineare il carattere civico dell’istituzione e la funzione svolta dal nosocomio parmense. Il nuovo portale interrompe il parato in laterizio del fronte rinascimentale dell’edificio ed evidenzia l’ingresso all’ospedale. In qualità di scenografo il Feneulle nel 1780 curò l’allestimento delle Nubi di Aristofane, rappresentata nel teatro del Collegio dei Nobili. Presso l’Archivio di Stato di Parma (Mappe e disegni, vol. 4) si conservano i suoi disegni acquerellati del Teatro Farnese, nonché la planimetria della scala di accesso al teatro medesimo, nell’incisione di G. Patrini. Si tratta di una serie di elaborati che costituirono le basi per le successive incisioni raffiguranti rilievi scientifici del teatro di Ranuccio Farnese. È stata avanzata l’ipotesi di una sua collaborazione (1794-1795) nel cantiere dell’oratorio di San Lorenzo, eretto per volere di Ferdinando di Borbone a lato della Rocca di Sala (Cirillo-Godi, II, 1986, p. 311). A questi anni risalirebbe pertanto anche il disegno per la portella del tabernacolo dell’altare del medesimo oratorio (collezione privata), reso noto da Cirillo e Godi (II, 1986, p. 317). Il suo nome è stato avanzato, seppure dubitativamente, con quello di Donnino Ferrari, direttore della scuola di architettura dell’Accademia e professore di architettura superiore, a proposito della costruzione della facciata dell’oratorio di Santa Maria del Buon Cuore a Copermio di Colorno (Parma; Pellegri, 1981, p. 114). Il Feneulle fu sepolto nella chiesa della Santissima Trinità il 16 aprile 1799 (Scarabelli Zunti, c. 119). Un piccolo ritratto del Feneulle si conserva presso il Museo Glauco Lombardi di Parma (Pellegri, 1984, p. 81).
FONTI E BIBL.: Parma, Archivio dell’Accademia di belle arti, Atti accademici, I-II, ad annum 1796, Bandi di tutti i concorsi 1758-1859, in particolare ad annum 1760; Archivio di Stato di Parma, Autografi illustri, b. 4397, lettere in data 21 febbraio 1755, 29 marzo 1771, 12 settembre 1784, Mappe e disegni, IV, nn. 18 bis, 23, 33-35, Raccolta Sanseverini, I, mappa 24; Parma, Soprintendenza ai Beni artistici e storici, ms. 107: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, VIII, 1751-1800, cc. 118 s.; P. Zani, Enciclopedia metodica critico-ragionata delle belle arti, VIII, Parma, 1794, 222; P. Donati, Nuova descrizione della città di Parma, Parma, 1824, 95, 117, 180; P. Malaspina, Nuova guida di Parma, Parma, 1871, 89; L. Testi, Parma, Bergamo, 1905, 134; N. Pelicelli, Guida storica e monumentale della città e provincia di Parma, Parma, 1906, 175, 210; M. Pellegri, E.A. Petitot architetto francese alla Real Corte dei Borbone di Parma, Parma, 1965, 65, 105, 139; L. Gambara-M. Pellegri-M. De Grazia, Palazzi e casate di Parma, Parma, 1971, 256; G. Canali-V. Savi, Parma neoclassica, in Parma la città storica, a cura di V. Banzola, Parma, 1978, 221, 228, 265 n. 53; B. Adorni, I concorsi di architettura dell’Accademia parmense, in L’arte a Parma dai Farnese ai Borbone (catalogo), Parma, 1979, 222; G. Allegri Tassoni, L’Accademia parmense e i suoi concorsi, in L’arte a Parma dai Farnese ai Borbone, 1979, 190; M. Dall’Acqua, in L’Arte a Parma dai Farnese ai Borbone, 1979, 296-298; L’Accademia parmense di belle arti (catalogo), a cura di M. Pellegri, Parma, 1979, 56; O. Banzola, L’ospedale vecchio di Parma, Parma, 1980, 21, 113, 115, 189, 191-193; M. Pellegri, Colorno. Villa ducale, Parma, 1981, 114; M. Pellegri, Il Museo Glauco Lombardi, Parma, 1984, 77, 80 s.; G. Cirillo-G. Godi, Guida artistica del Parmense, II, Parma, 1986, 311, 317; A. Musiari, Neoclassicismo senza modelli. L’Accademia di belle arti di Parma tra il periodo napoleonico e la Restaurazione, Parma, 1986, 17, 28, 51; P. Consigli Valente, in Disegni antichi, Parma, 1988, 70 s.; M. Pellegri, Concorsi dell’Accademia reale di belle arti di Parma dal 1757 al 1796, Parma, 1988, 17, 23, 26-28, 140, 150, 157, 165, 181, 200, 255, 266; G. Capelli, Il teatro Farnese di Parma: architettura, scene, spettacoli, Parma, 1990, 131, 149; C. Mambriani, L’Accademia di belle arti di Parma e la formazione dell’architetto, in L’architettura nelle Accademie riformate. Insegnamento, dibattito culturale, interventi pubblici, a cura di G. Ricci, Milano, 1992, 171-173, 175; G. Bertini, Colorno una guida, Colorno, 1993, 91; U. Thieme-F. Becker, Künstler-Lexikon, XI, 386; Dizionario di architettura e urbanistica, II, Roma, 1968, 320; A. Coccioli Mastroviti, in Dizionario biografico degli Italiani, XLVI, 1996, 127-128.
FERABOSCHI o FERABOSCI ANTONIO o ANTONIO MARIA o ANTON MARIA, vedi FERRABOSCHI ANTONIO MARIA
FERAGAZZI MARIANNA
Parma 1774
Pensionata della Reale Scuola di Ballo, nel 1774 fu retribuita per aver partecipato al balletto dato in occasione della visita a Parma dell’arciduca di Milano (Archivio di Stato di Parma, Spettacoli e Teatri borbonici, b. 4).
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.
FERATI GIOVANNI
Busseto seconda metà del XV secolo
Orefice attivo nella seconda metà del XV secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, II, 217.
FERDINANDO DA PARMA, vedi CASTELLINA FLAMINIO
FERDINANDO DI BORBONE, vedi BORBONE PARMA FERDINANDO
FEREOLI ENEA
Parma 1889-1960 Avviato giovanissimo all’attività di lavorazione delle carni suine esercitata dalla famiglia da più generazioni, si specializzò nella produzione di una vasta gamma di salumi freschi e stagionati, nella quale venne poi coadiuvato dai figli Gino e Mario, contribuendo a diffondere sul mercato nazionale e internazionale la notorietà del salame tipico di Felino.
FONTI E BIBL.: Cento anni di associazionismo, 1997, 396.
FEREOLI ENRICO
Sala Baganza 1 dicembre 1901-Porporano 3 febbraio 1991
Prima di scoprire la vena artistica fece il sorvegliante di caldaie a vapore, il barbiere e il falegname. Nel 1960 una grave malattia lo costrinse al riposo ma, contemporaneamente, gli permise di dedicarsi alla pittura, una pittura essenziale e romantica, ritmica nei tasselli quasi da mosaico, legata a Parma e ai suoi angoli più caratteristici, spesso scomparsi. Non potendo uscire di casa, su suggerimento del figlio, cominciò con il copiare cartoline, poi, col bel tempo, all’aperto, prese a fissare sui notes i vecchi borghi, in piccoli disegni sommersi da minute annotazioni (calce, mattoni, finestre, comignoli, giallo, rosso, vetro, legno, porte, tono dei tetti). Dal 1962 tenne una decina di mostre personali, partecipando alle più importanti rassegne nazionali di arte naïve. Sono da ricordare la mostra dei pittori naïfs italiani e francesi organizzata dall’Ente Premi di Roma (1964), il Centro internazionale di Biella (1964), il Premio dei naïfs di Luzzara (dal 1968 in poi), il Centro di Arte primitiva del Paiolo di Reggio Emilia (1970), l’Esposizione di artisti contemporanei di Parigi (1981) e il Salone di Vichy (1982). L’ultima sua esposizione fu nell’ottobre 1982, alle Stanze dell’ex Convento di San Paolo a Parma, dedicata al 60º anniversario delle Barricate di Parma del 1922. All’estero presentò opere in gallerie di Monaco, Zagabria, Parigi, Grenoble, Lione, Eberbach, Londra, Strasburgo, Berna, Costanza, Morges, Liegi, Bruxelles, New York. Due suoi quadri furono ammessi al Museo nazionale della pittura Naïve di Luzzara, mentre altri quattro fanno parte del Museo di arte naïve Ile de France di Vicq. Ricevette due importanti riconoscimenti: la medaglia d’oro per il maggior numero di voti dati dal pubblico alla rassegna di San Giorgio di Nogaro e la medaglia d’oro del Museo di Luzzara (31 dicembre 1982). Il Fereoli riprodusse un mondo di piccole cose, scandite in geometrizzazioni che vanno ben oltre gli oggetti e i personaggi rappresentati, per raggiungere spesso la purezza del ritmo: sono tagli di strade, con i tetti in rigorose linee spezzate, interni, con nature morte sospese in una dimensione che non è certo quella reale, e vedute campestri dalla vegetazione appena sfiorata, in tocchi rapidi e leggeri. E tutto come sotto una campana di vetro, per una poesia un po’ infantile e un po’ trascendentale perché dettata direttamente dalla sensibilità, senza le abituali deformazioni obbligate dalla forma artistica e dalle convenienze rispettate dalla pittura di scuola: una ventata di poesia sorprendentemente e autenticamente ingenua. La Parma di Fereoli non appartiene che a lui solo. Fuori dal tempo, fuori dallo spazio. E tutto perché un modesto ebanista, prima di diventare il pittore naïf che conosciamo, in verità ha già abitato, a sua insaputa, nel passato della sua città, e ha saputo renderla così vera come Stendhal l’aveva inventata (Anatole Jakovsky). Autore tra i più genuini dell’art naïf su scala europea, egli attinse a un mondo interiore molto ricco di linfa che scorre lungo propaggini irradiate oltre gli spazi visivi. Ne risultano percorsi di cose e di sentimenti che non possono essere semplificati in termini di formula pittorica, più o meno rigida. Nella proposizione ingenua del Fereoli, sono raccolti i valori dei rapporti umani, tipici dell’originaria civiltà contadina. Risaltano i princìpi solenni del lavoro e della solidarietà, le speranze del domani migliore nutrite dalle masse per troppo tempo escluse dalla Storia. Punteggiano questo racconto in pittura, questa allegoria della gente comune, le vicende particolari, liete o drammatiche e i momenti dell’incontro gioioso in nome dell’amicizia oppure della solitudine o, meglio, del raccoglimento nell’abbraccio con la natura. Attraverso questa ininterrotta cronaca pittorica, affiorano i contorni dei luoghi familiari, si ricompongono gli sfondi di un paesaggio sempre percepito come ambiente organico, necessario e provvido di doni, caro ai ricordi diretti e alle memorie recuperate tramite le storie familiari che collegano il presente a una identità antica. Il Fereoli ebbe sempre piena padronanza dei proprii equilibri: l’artista rifiutò ciò che, prima ancora, l’uomo aveva rifiutato, vale a dire un mondo piatto ed esteriore. Le sue composizioni parcellari sono realistiche, ma lasciano spazio per la fantasia. Il racconto non è formalistico: prende movimento dai contenuti, acquisisce i propri dettagli necessari per lo sviluppo del tema prescelto senza farsi descrittivo o lezioso e senza mai disperdere la propria essenza, che consiste nell’autenticità espressiva e nel rigore dei riferimenti. In lui si ritrovano i multiformi temi della complessità esistenziale: travagli, scontri, emozioni appena percettibili perché controllate da una sorta di pudore e vicende di paese. Il tutto, pieno di respiro, reso con misura e con garbo, vibrante di ironia o venato di malinconia. Il Fereoli fu sepolto a Sala Baganza.
FONTI E BIBL.: T. Marcheselli, in Gazzzetta di Parma 4 febbraio 1991, 5; P. Tomasi, in Per la Val Baganza 10 1991, 255.
FEREOLI FRANCESCO
Parma-Parma 4 agosto 1825
Appartenne a una ricca famiglia patrizia parmigiana. Fu cavaliere dell’Ordine Costantiniano, consigliere di Stato, delegato del Distretto di Piacenza e consigliere di Prefettura. Occupò diverse cariche civili e fu insegnante di Jus Civile all’Università di Parma. Nel 1821 ebbe, ormai vecchio, l’incarico di riordinare l’Archivio Comunale di Parma. La sua morte fu causata da apoplessia.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 10 agosto 1825; G. Sitti, Archivio Comunale di Parma, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1914.
FERIOLI VINCENZO
Suzzara o Tabellano 4 ottobre 1932-Parma 6 settembre 1969
Conseguita la laurea con il massimo dei voti e la lode presso l’Ateneo di Parma, iniziò una prestigiosa carriera in qualità di assistente volontario e, dal 1964, ordinario presso la cattedra di Patologia medica, diretta dal professor Migone. Nel 1963, vincitore di una borsa di studio Nato, si perfezionò a Lione nella terapia emodialitica dell’insufficenza renale, presso la Clinica di malattie metaboliche e renali diretta dal professor J. Traeger. Rientrato nell’Ospedale di Parma, si dedicò con passione al reparto emodialitico della Patologia medica. Nel 1969 conseguì la libera docenza di Semeiotica medica. La sua intensa attività di ricerca scientifica è testimoniata da oltre quaranta pubblicazioni. La sua ricerca nefrologica, non limitata alla specializzazione ma inserita nella più vasta corrente della biologia, è un chiaro esempio di come possono essere accomunate doti umane e scientifiche. Il suo appassionato entusiasmo trasformò in missione l’infaticabile dedizione allo studio e alla professione. Pur avvendo raggiunto una solida posizione professionale, preferì continuare a lavorare presso il centro del rene artificiale, di cui fu uno dei fondatori, dedicandosi direttamente alla cura dei pazienti e trascorrendo molte ore tra le corsie. Il Ferioli si impegnò attivamente anche nell’Associazione Volontari Italiani Sangue con numerose iniziative per diffondere il messaggio della donazione. Diede vita in prima persona alla sezione Associazione Volontari Italiani Sangue di Vigatto, organizzando incontri con la popolazione e mettendosi a disposizione per visitare gli aspiranti donatori. Con il Ferioli l’Associazione Volontari Italiani Sangue di Vigatto e ancor più quella provinciale diedero vita alla struttura di attento controllo sanitario nei confronti dei donatori periodici, rispetto l’aspetto più importante della raccolta di sangue. Fu un instancabile organizzatore di iniziative culturali, sportive e sanitarie tese a propagandare lo spirito associativo.
FONTI E BIBL.: R.T., in Gazzetta di Parma 30 agosto 1999, 8.
FERLONI ANTONIO SEVERINO
Borgo San Donnino 17 aprile 1740-Milano 23 ottobre 1813
Nacque da Giacomo, negoziante in Borgo San Donnino e da Francesca Rovaldi. Dopo i primi studi sotto la guida dei gesuiti e poi di un minore conventuale, padre Ruina, che gli fu maestro di teologia, passò a Parma, nella cui Università studiò diritto canonico e divenne sacerdote. Mancano notizie precise che permettano una ricostruzione cronologica della sua attività negli anni immediatamente successivi, anche se è probabile che vivesse a Borgo San Donnino con qualche ufficio ecclesiastico e che durante questo periodo compilasse una Cronaca di quella terra, rimasta inedita, che il Pezzana (Storia, V) dice di aver potuto consultare e che cita ripetutamente, confutandone alcune affermazioni. Era sicuramente a Borgo San Donnino nel 1766, quando iniziò una corrispondenza col ministro G. Du Tillot, allora impegnato nel suo radicale programma di riforme ecclesiastiche. Uno dei più decisi oppositori alla sua realizzazione era il vescovo di Borgo San Donnino, Girolamo Baiardi, sostenitore dell’autorità e dei privilegi ecclesiastici, e tra il 1766 e il 1768 il Ferloni inviò al ministro una nutrita serie di documenti e informazioni tali da costituire un pesante atto di accusa contro le prevaricazioni del vescovo, che avrebbe fatto sparire antiche scritture e decisioni favorevoli ai diritti dei poteri civili e una denuncia degli abusi commessi ai danni della Comunità. Dapprima spontaneamente e poi sollecitato dal Du Tillot, il Ferloni continuò nella sua funzione di informatore, coinvolgendo nella sua attività, con l’autorizzazione del ministro, anche il proposto della Cattedrale Vittorio Pallavicini Pincolini, assai bene informato della storia ecclesiastica locale e in possesso di un ricco archivio. Nello stesso tempo però il Ferloni richiese che questa sua attività rimanesse segreta, ottenendo l’assicurazione che il suo nome sarebbe stato eliminato dalle missive. Così rassicurato, a notizie storiche e informazioni di ogni tipo aggiunse proposte concrete di carattere decisamente riformatore e consigli relativi a provvedimenti da prendere come, per esempio, la riforma di tutti gli ospedali e ricoveri di Borgo San Donnino da riunirsi in uno solo oppure l’apertura di una casa di lavoro. Ma il 23 marzo 1770 inviò al ministro una lettera nella quale ritrattò quanto aveva scritto contro il vescovo e dichiarò che un serio esame di coscienza e il consiglio di persone illuminate lo spingevano ora a confessare che la sua corrispondenza era stata dettata da risentimenti per supposti torti ricevuti, dall’ambizione di rendersi utile alla Corte e dal desiderio di avere la protezione di uomini potenti, anche se insistette sui sentimenti di pietà, carità e zelo che lo avevano spinto a volere porre rimedio a mali reali. Pregava quindi il ministro di distruggere le sue lettere, perché non rimanessero a trista memoria del suo rossore. Il Du Tillot gli manifestò la sua comprensione, anche perché si era già accorto che il contegno del Ferloni non era libero da passioni e lo rassicurò che il carteggio non sarebbe stato dato alla luce. Il Benassi (nella recensione a G. Sforza) ipotizzò che tale carteggio, dopo il licenziamento del Du Tillot (1771), durante un’operazione di riordino delle sue carte, fosse venuto a conoscenza delle autorità laiche e religiose e avesse suscitato lo sdegno del duca Ferdinando di Borbone, che aveva ormai abbandonato la politica ecclesiastica del suo ex ministro. È comunque certo che il Ferloni fu bandito da Parma nel 1780, per ordine del Sovrano. Sembra invece poco convincente la voce corrente che tale esilio, come rileva il Pezzana nelle sue Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, fosse dovuto a una imprudenza del Ferloni, il quale avrebbe presentato al Duca una medaglia d’oro a nome di papa Pio VI, senza che ne avesse avuto commissione. Anche se il fatto era accaduto, non poteva essere un motivo valido per l’espulsione e, peraltro, da una lettera dello stesso Pontefice (pubblicata nel 1784 in appendice a uno scritto del Ferloni) risulterebbe che nel 1775 fosse stato effettivamente incaricato di presentare un donativo del Papa al Duca. Ma, come spesso accade nelle biografia del Ferloni, non è facile distinguere i fatti realmente accaduti e le voci o le spiegazioni, forse messe in circolazione da lui stesso. In ogni caso, dopo la caduta del Du Tillot, il Ferloni rivolse il suo fervore verso la predicazione e, grazie alla sua parola facile ed eloquente, divenne presto oratore di fama. Secondo talune indicazioni dei suoi biografi, si trasferì a Milano e poi, in veste di predicatore, passò per varie città italiane (Roma, Genova, Venezia e Torino) e straniere (Vienna). Connessa a questa attività è la pubblicazione del suo scritto Adorazioni all’amore di Gesù solite recitarsi nelli suoi spirituali esercizi al popolo dall’abate Antonio Severino Ferloni (s.i.t.). Gli spostamenti frequenti inerenti alla sua missione non gli impedirono di compilare anche un’opera di vasta mole, De’ viaggi da’ sommi pontefici intrapresi cominciando da s. Pietro apostolo sino al regnante Pio VI. Opera in due parti divisa nella quale si dà l’idea degli affari interessanti la storia e il governo de’ pontefici viaggiatori, uscita a Venezia nel 1783, presso lo stampatore Zatta, il quale in quella occasione annunciò che il Ferloni stava preparando un’opera assai più vasta e interessante di argomenti di politica ecclesiastica. Pio VI, in onore del quale era stata scritta l’opera, gradì l’omaggio del Ferloni e, nella lettera di ringraziamento che gli inviò, fu prodigo di elogi. Ma il lavoro fu accusato di superficialità e approssimazione e il Ferloni rispose con la Confutazione apologetica all’esame critico del padre D.N.N., pubblicato nel Giornale letterario dei confini d’Italia, Bologna, 1784, allegandovi la lettera di Pio VI del 1775, già ricordata, e l’altra con la quale il Pontefice lo ringrazia ed elogia. Nel 1789 giunse a predicare a Lucca e qui, se pure ebbe un caloroso successo per la sua facondia oratoria, sollevò un certo scandalo per la sua familiarità con una signora lucchese, Francesca Romani. Le autorità ecclesiastiche ritennero tale comportamento poco idoneo alla veste che indossava e lo invitarono a tornare nella sua patria (Archivio di Stato di Lucca, Archivio Sardini, 75: Documenti relativi alla cronaca ecclesiastica lucchese, c. 36; Archivio Sardini, 158: Zibaldone lucchese dell’abate J. Chelini, I, cc. 183-193). Dopo un breve tempo trascorso a Borgo San Donnino, per la Quaresima del 1790 andò a predicare alla Corte di Napoli, riscuotendo anche qui ampio consenso. Desideroso di tornare a Parma, riuscì a ottenere dal re Ferdinando di Borbone la nomina a vice gran priore della chiesa della Steccata di Parma, dove era l’amministrazione dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio di cui il Re era gran maestro e di cui si riteneva gli spettassero le nomine. Ma, giunto ai confini di Parma, il Duca gli impose di recarsi a Borgo San Donnino e di non comparire in città, a causa di molti pregiudizi fattigli in materie poco lodevoli ad un Ecclesiastico, frase che può ben riferirsi al suo contegno spregiudicato o alla sua passata attività di informatore del Du Tillot (Archivio Sardini, 75). Poco dopo il Re di Napoli gli tolse l’incarico e la pensione. Il Ferloni riprese così le sue peregrinazioni: nel 1792 tornò a Lucca dove tenne un discorso di intonazione chiaramente antirivoluzionaria, Orazione sacro-politica recitata nella sala del Senato della Serenissima Repubblica di Lucca nel secondo sabbato di quaresima dal Ferloni predicatore nella metropolitana l’anno 1792 (Lucca, 1792) e nel 1795 fu di nuovo nella città toscana, dove riallacciò i rapporti con la Romani, con la quale ebbe però una relazione burrascosa culminata con una lite per ragioni economiche, composta poi da comuni amici (Archivio Sardini, 158). Soprattutto questo soggiorno lucchese dovette segnare l’inizio della carriera politica del Ferloni, ormai pienamente convertito alle idee rivoluzionarie e deciso a cogliere il momento propizio non solo per far valere i suoi talenti di propagandista e di oratore, ma per ottenere una brillante affermazione politica nel nuovo ordine che andava profilandosi. Certo, la Repubblica oligarchica lucchese non potè offrire ampi margini all’ambizione del Ferloni, che invece trovò un clima assai più favorevole con l’arrivo in Italia delle armate repubblicane francesi, mentre le sue convinzioni divennero sempre più radicali. I calcoli militari del Bonaparte, seriamente impegnato a fronteggiare agli Austriaci nella valle Padana, preservarono dall’invasione il territorio lucchese, anche quando le truppe francesi occuparono Livorno. Anzi le autorità francesi non avevano alcun interesse, in quel momento, a fomentare disordini e a provocare radicali cambiamenti di governo. Furono proprio queste a informare, nell’agosto del 1796, le autorità lucchesi di una trama eversiva contro la Repubblica. Il console di Francia a Livorno, Charles Rendon de Belleville, riferì anche che il Ferloni gli si era presentato con una profezia secondo la quale sarebbe divenuto papa e si sarebbe impegnato allora a riunire tutti i popoli cristiani alla Repubblica francese. Il 19 agosto, per ordine della magistratura, il Ferloni venne arrestato, con l’accusa di essere coinvolto nella congiura. Dal processo non risultarono però prove a suo carico. Il 15 novembre fu scarcerato, ma con l’obbligo di non muoversi da Lucca, infine l’11 dicembre 1797 venne sciolto anche da quest’obbligo (Archivio di Stato di Lucca, Archivio Sardini, 158, cc. 242, 353; Cause delegate, 101, ins. 91). Nel 1798, secondo l’estensore della voce riguardante il Ferloni nella Biographie universelle del Michaud (siglata G.n., da identificarsi con l’abate Aimé Guillon de Montléon, che anche lo Sforza in Cronache e biografie lucchesi indica come uno dei suoi biografi) e secondo quanto si legge nella Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia, si trovava a Roma quando le truppe francesi occuparono la città e venne proclamata la Repubblica. In tali circostanze, la sua casa sarebbe stata saccheggiata, provocando la perdita di tutti i suoi averi e del manoscritto di un’opera che poteva formare trenta volumi: Storia delle variazioni della disciplina della Chiesa. Su questa opera, di cui il Ferloni doveva aver molto parlato, sostenendo che era il frutto delle sue lunghe ricerche negli archivi vaticani e in altri italiani e tedeschi, si hanno solo vaghi e generici riferimenti, né vi è alcuna certezza che sia stata realmente scritta e che non si tratti solo di una vanteria del Ferloni. In ogni caso il Ferloni era di nuovo a Lucca quando il territorio della Repubblica, divenuto di grande importanza strategica, fu invaso dai Francesi, tra il 2 e il 4 gennaio 1799. Il Ferloni celebrò gli avvenimenti con due focosi discorsi, dati subito alle stampe ma editi senza note tipografiche: Sermone detto dal citt. abbate Ferloni nel tempio primario di S. Martino in occasione dell’innalzamento dell’albero della libertà eseguito dal popolo di Lucca la mattina de’ 16 piovoso anno 7 Rep. e Discorso del citt. Ferloni in occasione che la Nazione lucchese inalzò solennemente su la pubblica piazza di S. Michele l’albero della libertà li 29 piovoso anno VII Rep. (Lucca, 1799). Risale a questo periodo anche l’altro scritto, Prospetto di felicità pubblica che il citt. Ferloni ha presentato diverse volte ai suoi colleghi nella Società patriottica sino da prima che si facesse la rivoluzione e da’ patriotti generalmente acclamato (Lucca, 1799). Il 6 marzo iniziò la pubblicazione di un giornale settimanale, La Staffetta del Serchio. Ma la fine del governo oligarchico e l’avvento della Repubblica democratica non portarono al Ferloni quella posizione politica alla quale aspirava. Dalle pagine del suo giornale, che portava il motto Post nubila Phoebus, dopo il primo numero nel quale inneggiò alla libertà che si godeva in quei giorni e permetteva a ognuno di esprimere i propri sentimenti, presto cominciò a stigmatizzare duramente l’operato dei nuovi governanti lucchesi, accusandoli, tra l’altro, di venalità e di volere imbavagliare la libertà di stampa. Contro la nuova legge sulla stampa, emanata dai nuovi Consigli legislativi, ricorse ripetutamente alle autorità francesi, finché l’intervento del generale S.-A.-F. Miollis riuscì a farla modificare (8 aprile). I ripetuti attacchi del Ferloni contro i nuovi governanti, da lui definiti incapaci e privi di senno, spinsero infine il governo a bandirlo dal territorio lucchese. Tra il 6 e il 7 maggio fu fatto accompagnare al confine con Pisa, da lì passò a Livorno, ma l’8 giugno, con un salvacondotto, tornò a Lucca. Qui partecipò alla cerimonia funebre in onore dei plenipotenziari francesi uccisi a Rastadt e subito stampò il Discorso del citt. Ferloni per la memoria funerea dei ministri plenipotenziari francesi a Rastadt celebrata solennemente in Lucca il dì 20 pratile anno 7 Rep. (Lucca, 1799; Archivio Sardini, 159: Zibaldone, II, passim). Con l’insorgenza aretina, che dilagava in Toscana, e coi successi delle armate austro-russe, la presenza dei Francesi divenne sempre più insostenibile. L’8 luglio anche il Ferloni fuggì da Lucca alla volta di Massa, ponendo così fine alla sua attività di giornalista (l’ultimo numero della Staffetta del Serchio uscì il 3 luglio). Quando Lucca fu occupata dagli Austro-Russi, la casa del Ferloni fu messa a sacco dalla popolazione e una sua effige data alla fiamme (30 luglio; Archivio Sardini,160: Zibaldone, III, c. 27). Il Ferloni, che aveva cercato rifugio in Francia, dopo la campagna d’Italia del 1800 e la vittoria di Marengo rientrò a Milano e qui rimase durante i rapidi cambiamenti di governo a Lucca, successivi a ogni nuova occupazione. Da Milano cercò di screditare il governo lucchese di nuovo democratizzato, adoperandosi per far richiamare il generale G.-J. Clément e per sostituirlo con un altro più vicino alle idee dei veri parioti lucchesi. Dopo essere passato da Firenze, nel gennaio 1801 tornò a Lucca. Il clima della città divenne sempre più difficile per lui, malvisto come era da tutti e a nulla valsero i suoi tentativi per ottenere un risarcimento dei danni subiti. Due gioni dopo essere ricorso a Gioacchino Murat perché intercedesse direttamente, venne arrestato (5 maggio 1801) e accusato, insieme con altri, di complicità nel delitto di cospirazione contro lo Stato (Archivio di Stato di Lucca, Governo provvisorio, 39, Processi straordinari 1800-1801). Agli atti del processo è allegata tra le tante carte una memoria del Ferloni sopra la soppressione degli Ordini religiosi e delle confraternite e la devoluzione dei loro beni alla organizzazione di ospizi per trovatelli, case di lavoro per i poveri e pubblici laboratori di seta, che mostra come egli fosse rimasto fedele alle idee riformatrici della sua gioventù, forse influenzate anche da motivi giansenisti. Si trova pure una lettera al Murat con pesanti accuse al malgoverno e alla doppiezza dei governanti, i quali fingevano che il paese fosse povero per non pagare le contribuzioni di guerra. Il Ferloni promette invece che queste sarebbero state cospicue, nel caso di una sua assunzione al governo, e si impegna a pagare 500000 franchi e a rifornire lautamente 1000 soldati se questi fossero stati inviati a Lucca entro il 30 floreale, per creare un nuovo governo nel quale si riservava il ruolo di ministro dell’Interno, Relazioni estere e Finanze. Dopo una lunga istruttoria, l’11 settembre 1801 fu condannato a 10 anni di carcere e all’esilio perpetuo da Lucca. Lo stesso giorno della condanna, per ordine del Murat, fu scarcerato. Ospitato dapprima nell’abitazione del comandante della piazza generale G. Mouton de Lobau, nella notte tra il 15 e il 16 partì da Lucca, portando con sé tutti i suoi fogli, i suoi averi e le carte del processo e si diresse a Milano (Archivio Sardini, 161; Zibaldone, IV, c. 496). Non è ben chiaro quale ruolo o posizione egli avesse a Milano. Giuseppe Valeriani scrisse di averlo conosciuto ormai caduto in estrema miseria quando aveva cercato di accattivarsi la benevolenza del Bonaparte scrivendo omelie in favore della coscrizione. Postosi così in luce, il suo talento fu richiesto per stendere alcuni indirizzi di adesione dei vescovi italiani alle tesi che sarebbero state sostenute nel concilio di Parigi del 1811. Ma tale attività non lo sollevò dalla miseria, né egli godé della larga munificenza dei viceré Eugenio, al contrario di quanto scrisse dopo la sua morte il Giornale Italiano (n. 308). In realtà, sembra che solo poco prima di morire ottenesse una modesta elargizione. Subito dopo la sua morte il suo nome ricorse in scritti altamente elogiativi ma altrettanto generici o scarsamente precisi nelle notizie che riguardavano la sua vita. Cominciò il Giornale Italiano che, nel citato numero, lo definì uno degli uomini più celebri della seconda metà del secolo XVIII e tra i più profondi conoscitori della storia ecclesiastica, oltre che autore di opere importanti per dottrina e profondità di argomenti, giudizio universalmente condiviso all’epoca nell’ambiente milanese. Secondo il Giornale Italiano, la Biographie universelle e la Storia amministrativa, compose infatti anche Dell’autorità della Chiesa secondo la vera idea che ne ha data l’antichità, onde conoscere l’abuso che se ne è fatto e la necessità di emendarlo, ma pure di questa opera non si ha traccia.
FONTI E BIBL.: G. Valeriani, Storia dell’amministrazione del Regno d’Italia durante il dominio francese, Lugano, 1823, LXXXV, 192 ss.; A. Mazzarosa, Storia di Lucca dalla sua origine fino al 1814, Lucca, 1833, II, 180 s.; A. Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, IV, Parma, 1833, 402 ss.; A. Pezzana, Storia della città di Parma, V, Parma, 1859, ad Indicem; C. Massei, Storia civile di Lucca dall’anno 1796 all’anno 1848, I, Lucca, 1878, 237 s.; G. Sforza, Contributo alla storia del giornalismo italiano. I. I giornali lucchesi (1756-1850), in Rivista Storica del Risorgimento Italiano I 1896, 451; G. Sforza, Un giornalista del secolo XVIII, in Ricordi e biografie lucchesi, Lucca, 1916, ad Indicem (cfr. recensione di U. Benassi in Archivio Storico per le Province Parmensi, n.s., XVIII 1918, 253 ss.); G. Arrighi, Una trama contro la Repubblica di Lucca organizzata a Livorno nel 1796, in Rivista di Livorno 5 1956, 6 s.; P.G. Camaiani, Un patriziato di fronte alla Rivoluzione francese. La Repubblica oligarchica di Lucca dal 1789 al 1799, in Rassegna Storica Toscana, I, 1984, I, 72 s., 95 s., 100, 102; G. Tori, Il movimento giacobino lucchese, in La Toscana e la rivoluzione francese, a cura di I. Tognarini, Napoli, 1994, ad Indicem; Nouvelle Biographie univers., Michaud, XIII, Paris-Leipzig, 1855, 578 s.; Dizionario biografico universale, II, Firenze, 1842, 726; Grand Dict. universel du XIX siècle, Larousse, VIII, Paris, 1872, 251; N. Danelon Vasoli, in Dizionario biografico degli Italiani, XLVI, 1996, 318-321.
FERLONI SEVERINO, vedi FERLONI ANTONIO SEVERINO
FERLONI STANISLAO
Borgo San Donnino 1730 c.-1800/1810
Fratello di Antonio Severino, è considerato tra i più reputati storiografi borghigiani per la serietà da lui posta nella raccolta ed esposizione di antiche memorie borghigiane e per la diligenza nel redigere cronache di fatti e avvenimento del suo tempo. La sua opera maggiore, dal titolo Compilazione di diverse memorie storiche-cronologiche della città di Borgo San Donnino raccolte da diverse scritture antiche e moderne, è conservata in manoscritto nell’Archivio di Stato di Parma e si compone di 245 fogli oltre agli indici.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 158.
FERMI LUIGI Parma 1848
Medico, fu volontario nella guerra del 1848 nella 1ª Colonna Parmense come chirurgo.
FONTI E BIBL.: U.A. Pini, Medici di Parma nel Risorgimento, 1960.
FERMO TADDEO
Parma-post 1859
Musicista, cittadino parmense, nel 1859 entrò in Ucraina.
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.
FERONI GIOVANNI
Gaiano 1779
Abitante di Gaiano nella casa del quale pernottò la notte tra il 23 e il 24 agosto 1779 Ferdinando di Borbone, duca di Parma, che da Sala si recava, col suo seguito, a Parma, passando da Talignano, Gaiano e poi Collecchio.
FONTI E BIBL.: U. Delsante, Dizionario Collecchiesi, in Gazzetta di Parma 1 febbraio 1960, 3.
FERONI TIMOTEO, vedi FERRONI TIMOTEO
FERRABOSCHI ANTONIO MARIA
Parma o Laino 1672-post 1740
È tuttora incerto l’anno di nascita del Ferraboschi, figlio di Martino, oriundus loci Layni episcopatus comensis, variamente riferito al 1663 e al 1672-1774. Il Riccomini indica il 1674 (Riccomini, 1972, p. 54), ma questa data potrebbe essere anticipata al 1672 se si volesse prestare fede a un registro degli stati d’anime del 1688 della piacentina chiesa di Santa Maria degli Speroni, nel quale il Ferraboschi a quell’epoca risultava avere 16 anni (Arisi, 1976). Sono questi gli anni dei grandi lavori a fresco e a stucco condotti all’interno del palazzo Farnese di Piacenza, la residenza voluta da Margherita d’Austria, moglie di Ottavio Farnese (la costruzione era stata iniziata nel 1559). In particolare, i lavori per l’ornato plastico furono diretti dal lainese Paolo Frisoni (1685), che con le sue maestranze andava realizzando le decorazioni a stucco nell’appartamento della Duchessa, su disegni approntati dal bolognese Andrea Seghizzi. Gli ornati furono conclusi dopo il 1688, anno in cui il Frisoni risulta ancora attivo nel palazzo con il Ferraboschi. Il Ferraboschi appartenne a quella schiera di stuccatori di origine comasca largamenti attivi nel Ducato farnesiano dall’inizio del XVII secolo e di cui si conservano testimonianze qualitativamente interessanti a Parma, negli edifici di promozione farnesiana quali il Teatro Farnese, la chiesa della Santissima Annunziata e l’oratorio dei Rossi o in episodi circoscritti come quello che vide impegnati Leonardo e Domenico Reti in una delle più imponenti imprese plastiche della Parma seicentesca, la cappella della Madonna di Costantinopoli nella chiesa di San Vitale (1666-1669). Committente di questo gran teatro, come ha definito Riccomini la magniloquente invenzione decorativa in stucco opaco con sedici grandi figure, putti, racemi e cartigli, fu il conte Carlo Beccaria, appartenente all’antico patriziato pavese e tesoriere di Ranuccio Farnese, duca dal 1646 al 1694. L’attività svolta a Parma e a Piacenza da G. Battista Barberini e dai Reti, Luca e i nipoti Leonardo e Domenico, incontrastati protagonisti della scultura sotto il ducato di Ranuccio Farnese, è stata in parte ricostruita e ne sono stati individuati anche i riflessi sull’attività del Ferraboschi, ultima espressione della scultura barocca a Parma ove, con l’arrivo dei Borbone, la cultura intraprese ben altra rotta. Dell’opera del Ferraboschi non si hanno notizie sicure, se si escludono alcuni degli apparati ornamentali conservati in chiese di Parma e del Ducato estense. Il riferimento è sia alla coppia di statue poste ai due altari della soppressa chiesa di San Francesco a Reggio Emilia ricordata nelle memorie manoscritte del Sogari (citato in Campori, 1855), sia alla decorazione dell’altare di Sant’Antonio e della cupola della chiesa di San Pietro a Parma, completamente rinnovata a partire dal 1709. Le ricerche del Guerra hanno reso noti i nomi delle maestranze, in larga parte lombarde, che concorsero alla decorazione della chiesa parmense (Ghidiglia Quintavalle-Guerra, 1948), in cui il Ferraboschi eseguì intorno al 1714 putti nei pennacchi della cupola e l’intera ornamentazione dell’altare di Sant’Antonio, con due Virtù poste ai lati e angeli. Numerosi infine furono gli interventi decorativi condotti nelle chiese del territorio. Al Ferraboschi si devono infatti la raffinata decorazione a stucco della chiesa dei gesuiti di Borgo San Donnino, costruita verso il 1710 su progetto del Brameri (1707), gli stucchi delle tribune dell’oratorio di San Luigi a San Secondo, eseguiti intorno al terzo decennio del Settecento, e quelli della chiesa di Santa Maria Assunta di Sissa (1730-1740; Cirillo-Godi, I, 1984, pp. 187 s.). Il diario carpigiano di Giulio Cesare Benetti registra l’odornamento in scagliola (1724) di una cappella del Duomo di Carpi (citato in Campori, 1855). Risale a quell’anno in effetti l’ancona di San Valeriano, realizzata in stucco e scagliola a finto marmo, con dorature in rilievo, della Cattedrale carpigiana dell’Assunta (Pelloni, 1990, p. 155). A Barnaba Solieri, meglio noto come fra’ Stefano da Carpi, plasticatore attivo anche come pittore, spettano i due angeli laterali sulle nubi (1775). Committente era stato il Comune di Carpi che voleva collocarvi il reliquiario argenteo di San Valeriano, protettore dei raccolti e comprotettore della città. Questa scenografica macchina liturgica esibisce i caratteri propri dello stile del Ferraboschi, al quale si deve anche l’ornamentazione a stucco dell’altare della chiesa di Santa Maria della Porta a Guastalla. Al Ferraboschi si assegna per ragioni di stile l’esecuzione delle grandi figure di putti e di angeli le cui forme palesano strette affinità con quelle ideate per la chiesa di San Pietro a Parma. Il Ferraboschi fu anche attivo nella chiesa di Santa Maria della Porta nel 1701, documentato con lo stuccatore Michele Costa per l’ornamentazione degli altari di Sant’Antonio di Padova e di San Francesco di Paola e del ciborio dell’altare maggiore.
FONTI E BIBL.: Parma, Soprintendenza ai Beni artistico e storici, E. Scarabelli Zunti, Docmenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, VII, ms. 107, 1701-1750, sub voce; G. Campori, Gli artisti italiani e stranieri negli Stati estensi, Modena, 1855, 200; P. Malaspina, Nuova guida di Parma, Parma, 1871, 172; G. Copertini, In difesa della chiesa di San Pietro Apostolo e dell’oratorio di San Quirino in Parma, in Parma per l’Arte I 1951, I-VIII; G. Martinola, Lettere dai paesi transalpini degli artisti di Meride e dei villaggi vicini (XVII-XIX), Roma, 1963, 171; A. Ghidiglia Quintavalle-E. Guerra, La chiesa di San Pietro Apostolo in Parma nella storia e nell’arte, Parma, 1948, 26, 38; E. Riccomini, Ordine e vaghezza. La scultura in Emilia nell’età barocca, Bologna, 1972, 13, 54 s.; F. Arisi, Quadreria e arredamento del palazzo Farnese di Piacenza, Piacenza, 1976, 18 n. 6; E. Riccomini, Vaghezza e furore. La scultura del Settecento in Emilia e Romagna, Bologna, 1977, 19; R. Arisi, La Madonna della Porta di Guastalla, Reggiolo, 1978, 125 s.; R. Arisi Riccardi, Scultori in legno, in Società e cultura nella Piacenza del Settecento (catalogo), I, Piacenza, 1979, 137; G. Cirillo-G. Godi, Guida artistica del Parmense, I, Parma, 1984, 38, 178, 187 s., II, Parma, 1986, 118, 146, 311; M. Mussini, La cultura artistica nella Guastalla dei Gonzaga, in Il tempo dei Gonzaga, Guastalla, 1985, 207; A. Garuti, Un percorso per immagini, in A. Garuti-D. Colli-R. Pelloni, Un tempio degno di Roma. La cattedrale di Carpi, Modena, 1987, 68 ss.; R. Pelloni, Un segreto da svelare: l’arte della scagliola, in La scagliola carpigiana e l’illusione barocca, Modena, 1990, 154 s.; A. Garuti, Proposte per un ideale itinerario di visita, in La scagliola carpigiana e l’illusione barocca, 1990, 199; A. Coccioli Mastroviti, in Dizionario biografico degli Italiani, XLVI,1996, 391-393.
FERRADINI GIUSEPPE, vedi FERRARINI GIUSEPPE
FERRANTE CARLO, vedi GIANFATTORI FERDINANDO CARLO
FERRANTE MARIO
-Aden Fedio 13 gennaio 1936
A Parma, dove risiedette per lungo tempo, ricoprì la carica di ufficiale superiore addetto ai Fasci Giovanili di Combattimento e fu consigliere della locale Sezone degli Alpini. L’inizio della prima guerra mondiale lo trovò sottotenente all’8º Reggimento Alpini, Battaglione Cividale. Quaranta giorni dopo riportò una ferita alla gamba sinistra mentre era di pattuglia sul Monte Rosso. Dimesso dall’ospedale e promosso tenente, tornò al fronte col suo battaglione, riportando una seconda ferita, al piede destro, mentre partecipava alla controffensiva degli Altipiani, il 18 giugno 1916, a Vaccarese (Novegno). Ricoverato prima all’ospedale territoriale di Parma, poi a quello di Genova e infine assegnato al servizio sedentario per postumi di ferita, il Ferrante fece istanza di essere inviato di nuovo al fronte, che raggiunse nell’ottobre dello stesso anno, incorporato nel 73º Reggimento Fanteria, col quale partecipò a numerose offensive sul Carso e sull’Isonzo, restando ferito, al piede sinistro, una terza volta, il 1º novembre 1916, sul Veliki Kribach. Il suo eroico contegno gli meritò prima la nomina in servizio permanente effettivo e poi la promozione a capitano. Appena guarito dalla terza ferita di guerra, fece domanda di essere inviato ancora al fronte dove prese parte alla battaglia finale della prima guerra mondiale, in un primo tempo col 9° Battaglione Complementare della 52a Divisione Alpina, poi presso il Comando del 99° Gruppo Alpini. Dopo la battaglia di Vittorio, fu inviato per pochi mesi in Albania e quindi rientrò a Parma, dove frequentò la Scuola di Applicazione per la Fanteria negli anni 1920-1921. Frequentò successivamente il 3° corso di osservazione aerea presso la Scuola Militare di Roma, poi prestò servizio al 157° Reggimento Fanteria e infine venne destinato a Parma, ottenendo la nomina a maggiore, nel 62° Reggimento Fanteria, il 1° gennaio 1930. All’avvicinarsi del conflitto italo-etiopico, ottenne di essere inviato a combattere nell’Africa Orientale: si imbarcò a Taranto il 21 aprile 1935. Sbarcato a Mogadiscio il 9 maggio, assunse il comando del 9° Battaglione Arabo-Somalo. Scoppiata al guerra etiopica, il Ferrante partecipò subito a veloci e vittoriose puntate offensive nel territorio nemico e nei primi giorni del gennaio 1936 mosse col raggruppamento del colonnello Martini verso Neghelli. Durante la vittoriosa offensiva, mentre il Ferrante, all’avanguardia della Colonna, incalzava il nemico, trovò eroica morte sul campo. Alla memoria del Ferrante fu concessa la medaglia d’argento al valor militare, con la seguente motivazione: Comandante di un battaglione arabo-somalo, improvvisamente attaccato da forze preponderanti mentre stava collocando gli avamposti alla testa dei propri reparti, reagiva violentemente per arrestare il nemico e ricacciarlo. Nell’aspro combattimento dava mirabile esempio di slancio, tenacia, alto valore e infliggeva al nemico perdite notevoli. Mortalmente colpito, cadeva da eroe incitando i suoi fedeli ascari alla lotta.
FONTI E BIBL.: Parmensi alla conquista dell’Impero, 1937, 201-203.
FERRANTE GABRIELE
Colorno 1525 c.-Padova post 1545
Fu uno dei primi gesuiti parmigiani. Ebbe il titolo di coadiutore.
FONTI E BIBL.: M. Scaduto, Catalogo dei gesuiti, 1968, 55.
FERRARESI ELISABETTA
1746 c.-Padova marzo/maggio 1776
Figlia di Massimo, capocomico, e di Teresa. Ancora giovanissima e assai bella, la Ferraresi fu maritata dal padre all’Arlecchino Giovanni Fortunati. Recitò quasi sempre la parte di seconda donna, prima nella compagnia del padre, poi in quella di Onofrio Paganini e poi nelle altre in cui si trasferì il marito. Fu assai abile nelle parti in lingua veneziana. Fu madre di molti figli, che lasciò orfani giovanissimi, spirando a conclusione di una malattia cronica che la perseguitò a lungo.
FONTI E BIBL.: F. Bartoli, Notizie de’ comici, 1782, 233; Aurea Parma 1 1939, 27; M. Ferrarini, Parma teatrale ottocentesca, 1946, 73.
FERRARESI MASSIMO1720 c.-Parma 1767
Fu eccellente comico per la maschera di dottor Balanzone o secondo Zanni ed esperto capocomico.
FONTI E BIBL.: F. Bartoli, Notizie de’ comici, 1782, 210; Aurea Parma 1 1939, 27.
FERRARESI TERESA
1725 c.-Parma
Moglie di Massimo Ferraresi, che sposò verso il 1745. Fu anch’essa attrice e lavorò con dello spirito nel carattere di serva.
FONTI E BIBL.: Aurea Parma 1 1939, 27.