Il carteggio e il contesto storico
di Ubalo Delsante
Dal 2014, la data che segnava lo scoccare del Centenario dall’attentato di Sarajevo e del conseguente inizio della Grande Guerra, dovunque sono fiorite le riscoperte, in vecchi cassettoni e armadi impolverati delle soffitte, di carteggi e diari di soldati che avevano fatto quell’esperienza. Fogli e quaderni scritti, talvolta, prima di soccombere in prima linea o in un ospedaletto militare. E molti di questi fascicoli sono finiti in tipografia. Nel Parmense, si può contare una decina di pubblicazioni di questo genere, che consentono anche a noi, che abbiamo conosciuto quel mondo dai libri di scuola, da alcuni importanti romanzi e significative opere cinematografiche, e talvolta dai racconti dei nostri nonni, di meglio entrare nello zeitgeist, nello spirito di quel tempo. Un tempo di guerra che coinvolse tutti, i giovani uomini al fronte e i più anziani e le donne a casa.
Per taluni aspetti che ne caratterizzarono la durata e lo svolgimento, la Prima guerra mondiale assunse la funzione di un “immenso laboratorio di scrittura”, al quale presero parte anche le masse popolari cosiddette “illetterate”, che fino a quel momento avevano manifestato una scarsa dimestichezza con la pratica scrittoria, utilizzata solo in circostanze obbligate e straordinarie. Si trattava, infatti, di persone che vivevano spesso all’interno di comunità prevalentemente rurali, nelle quali si privilegiava una comunicazione orale segnata, peraltro, dalla lingua dialettale.
Gli effetti, assolutamente dirompenti, che il conflitto ebbe sui legami sociali e affettivi degli italiani e sull’equilibrio psicologico dei combattenti, spinsero una massa crescente di individui a fare ricorso alla scrittura. Molti “fanti contadini” dunque impararono a scrivere proprio durante la guerra, spinti da esigenze pratiche – appuntare gli indirizzi dei commilitoni, comunicare con la comunità d’origine per avere notizie sui famigliari e sugli “affari” – o ancora da esigenze autobiografiche, allo scopo di razionalizzare l’esperienza che stavano subendo (soprattutto attraverso la stesura di un diario, tenuto per lo più da chi possedeva una cultura superiore).
I ricordi che abbiamo letto finora, almeno da noi, sono stati stesi, sotto forma di lettere o di diari, da militari che hanno vissuto i disagi e i timori della prima linea, le trepidazioni delle ferite e delle malattie, oppure le umiliazioni e le ristrettezze della prigionia. E che, pur in quelle situazioni precarie, si preoccupavano della salute delle persone care, dei genitori, della moglie, dei figli, dell’andamento delle stagioni, del lavoro a casa o nei campi.
Il carteggio, che lo staff di docenti e collaboratori del Liceo delle Scienze Umane “Albertina Sanvitale” e del Montanara Laboratorio Democratico A.P.S. propongono in questa pubblicazione, presenta delle caratteristiche completamente diverse da quelle osservate nelle corrispondenze coeve finora pubblicate nella nostra provincia e offre motivi di riflessione che possono considerarsi complementari e certamente non meno interessanti.
Qui la guerra è interiorizzata, il disagio del conflitto si riflette sul sentimento dei due attori, i coetanei Enio e Irene da Langhirano. La guerra è il leviatano innominabile e invisibile che aleggia minaccioso su di loro e ne condiziona l’esistenza, e soprattutto ne impedisce o ritarda in modo insopportabile la loro unione, senza peraltro interrompere il loro legame. Come nota acutamente nella sua testimonianza (v. oltre) la scopritrice del carteggio, Elisabetta Cobianchi, le lettere rivelano, da entrambe le parti, «una ricchezza di sentimenti, di riguardo reciproco, di desiderio di rassicurare l’altro, di attenzioni, di racconti e condivisione di vita quotidiana, di nostalgia e desiderio infinito di essere, finalmente, insieme. Ogni ora trascorsa lontani porta uno strascico di struggente rammarico per la distanza ed ogni ora trascorsa insieme durante le poche e brevi licenze lascia un ricordo che fa da carburante per continuare a vivere. I sentimenti sono espressi con delicatezza estrema ma se ne percepisce la forza a distanza di un secolo!».
Ci sono, comunque, alcuni scenari sui quali i due si muovono e che occorre mettere in luce: la guerra, il servizio militare di Enio, le occupazioni di lavoro e di solidarietà di Irene, il dopoguerra, la ricerca del lavoro, il matrimonio e l’emigrazione.
La guerra, come si è detto, rimane sullo sfondo e non lascia tracce dirette nella corrispondenza, nemmeno all’indomani di Caporetto o dell’armistizio e del sospirato, si può immaginare, sopraggiungere della pace. Nemmeno si può notare qualche espressione patriottica, interventista o nazionalista da parte di Enio, mentre ce n’è una di Irene, nella lettera del 27 luglio 1916, ma sembra poco sentita e di maniera. Come risulta dal suo ruolino militare, Enio è parte attiva nella guerra, ed è destinato talvolta in zona operazioni, sebbene mai in prima linea. Non sembra nemmeno che sia raccomandato o imboscato. Il reparto al quale è stato assegnato, cioè il servizio automezzi, ben documentato dallo storico Antonio Tagliavini, nell’esercito moderno è di fondamentale importanza, come si è constatato, per fare un esempio che tutti i libri di storia della Grande Guerra riportano, nell’estate 1916 quando si è trattato di contrastare il violento attacco austro-ungarico chiamato Strafexpedition: soltanto una perfetta sintonia tra trasporto ferroviario e automobilistico ha potuto consentire il trasferimento di migliaia di soldati dal fronte giuliano a quello trentino in tempi rapidissimi. Non sembra che le mansioni di Enio fossero quelle dell’autista o del meccanico. Probabilmente svolgeva i suoi compiti in ufficio, ma non gliene possiamo fare una colpa. Anzi, si comporta correttamente, forse non col massimo dell’entusiasmo, ma non raccoglie punizioni e piano piano arrivano i riconoscimenti e le promozioni da soldato semplice a sottufficiale prima del congedo.
A casa Irene lavora come sarta e, si può pensare, con soddisfazione anche economica. Un suo primo pensiero di andare a fare l’infermiera rimane nel limbo dei buoni propositi, tuttavia nel tempo libero si occupa di solidarietà nell’ambito del Comitato di Langhirano per la protezione civile. Irene, peraltro, non fa parte di quel cospicuo numero di donne che, specie nelle campagne o nelle città industriali, sostituiscono gli uomini sul posto di lavoro e che hanno fatto nascere il mito dell’emancipazione femminile in conseguenza di questo fenomeno provocato dalla guerra. Un mito che la storiografia più moderna e avveduta ha non poco sfatato constatando come in realtà la donna, dall’impegno profuso direttamente in guerra (come crocerossina, ad esempio) oppure a casa nei campi o in fabbrica, abbia ricevuto ben poco. Non il diritto al voto, non la possibilità di divorzio, non l’abolizione del delitto d’onore (che vergognosamente resterà fino agli anni successivi alla seconda guerra mondiale) per non parlare della par condicio in generale, non conseguita completamente ancora oggi. Nel 1919 verrà soltanto abolita la potestà maritale, per cui la donna quantomeno ha potuto in seguito disporre liberamente dei suoi beni.
Il congedo, per Enio, arriva quasi un anno dopo la fine della guerra. Si può allora celebrare il matrimonio ed evitare quelle noiose e imbarazzanti situazioni, ben descritte nelle lettere, della presenza del padre di Irene seduto accanto a Enio in licenza, quasi un Cerbero che non lascia spazio alla coppia, peraltro di persone adulte e maggiorenni, per le più innocenti effusioni. Ma per le nozze si dovrà aspettare ancora.
Non arriva, invece, il lavoro e anche le conoscenze importanti di cui dispone Enio riescono a far scaturire per lui un posto nel suo comune o comunque in Italia. Non gli resta che la strada dura e umiliante dell’emigrazione, su cui peraltro non abbiamo informazioni sufficienti per poter delineare un quadro preciso della sua situazione oltralpe. Certo non ha fatto fortuna. Sarebbe interessante, sotto un più ampio profilo storico, sapere se in Francia ha avuto contatti con l’emigrazione politica anche parmigiana, che in quegli anni era piuttosto attiva, ma questa circostanza non appare.
A corredo, offre un curioso spaccato della situazione sociale e ambientale del paese di Langhirano, in quel preciso momento storico, l’apposito capitolo dello storico Giuliano Masola.
Alla fine della lettura del carteggio, resta l’impressione di una coppia che certamente ha avuto momenti di serena condivisione, ma la cui esistenza è stata in larga misura condizionata da un conflitto che se non ha tolto la vita o arrecato invalidanti ferite ad uno di loro, come è accaduto a tanti altri soldati, ha comunque lasciato una profonda traccia nel loro percorso verso una unione per quanto possibile serena.
Ubaldo Delsante