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Dizionario biografico: Beseghi-Blondi

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BESEGHI-BLONDI

BESEGHI CESARE
Parma 9 ottobre 1813-Parma 1882
Figlio di Luigi e Annunziata Magnani. Non si conosce sotto quale guida l’artista cominciò ad attendere alla pittura. Si sa invece che nel 1838 vinse il premio annuale presso l’Accademia di Parma con l’Apollo che sostiene Giacinto morente (Parma, Galleria Nazionale) che gli valse il pensionato romano. Il saggio venne inoltre esposto l’anno seguente nel Palazzo del Giardino di Parma. Ancora nel 1838 il Beseghi fu presente alla mostra di Parma, con molti ritratti e due quadri di composizione, ambedue di argomento sacro, come pure nel 1839, dove assieme all’Apollo e Narciso espose una Giuditta con la testa di Oloferne, e nel 1840 con una copia dalla Venere e Amore di Tiziano (Parma, Galleria Nazionale) inviata da Roma poco prima del saggio obbligatorio di Figura intera di composizione, il Meleagro con la testa del cinghiale (Parma, Galleria Nazionale), che fu mostrato al pubblico nel 1841. Dopo il suo ritorno in sede, la duchessa Maria Luigia d’Austria gli commissionò nel 1841 il San Giacomo Apostolo per la chiesa di Vallerano e nel 1844 il Sant’Antonino a cavallo per la chiesa di Borgo Taro, esposto al pubblico nel 1845. Sempre nel 1844 il Beseghi vinse il premio triennale accademico col Saul adirato contro Davide. Poi dal 1845 al 1847 la Duchessa gli ordinò, rispettivamente, i Santi Margherita, Diego, Francesco d’Assisi e Solano per la chiesa dei Padri Riformati di Parma, esposto nel 1846, un Ostensorio dipinto su uno stendardo per quella di Porporano, e infine il San Michele Arcangelo per la chiesa di Albareto, nel Comune di Fontanellato. Diventato professore consigliere con voto nell’Accademia di Parma, il Beseghi riprese a esporre nel 1855 per la Società d’Incoraggiamento, prima a Piacenza e poi a Parma, il Raffaello che mostra alla Fornarina l’abbozzo del suo ritratto, che fu sorteggiato a Tullio Barattieri. Nel 1856 presentò Un militare in congedo illimitato, sorteggiato al duca Roberto di Borbone, e nel 1857 un Episodio della Storia dell’inquisizione in Spagna nel 1530, sorteggiato ad Andrea Perini. L’anno seguente partecipò pure con I pigiatori d’uva, andato al Comune di Varsi, Giovanna figlia di Luigi XI di Francia ripudiata dal marito il duca d’Orleans, sorteggiato agli eredi di Lena, una Sacra Famiglia, che probabilmente è quella sorteggiata nel 1859 al Monte di Pietà di Fiorenzuola, e un Ritratto. Infine nel 1860 espose a Parma Pia de’ Tolomei e nel 1863 Gli ultimi momenti di Carlo I d’Inghilterra. Secondo lo Scarabelli Zunti, il Beseghi, colpito da una grave forma depressiva, si suicidò nel 1882 con un colpo di rivoltella presso il cimitero comunale di Parma, essendo caduto in miseria per totale mancanza di lavoro.
FONTI E BIBL.: Ms. Quadri premiati; Ms. Quadri mandati; Gazzetta di Parma, supplemento 5 maggio 1838, 164; 1 maggio 1839, 153; 27 maggio 1840, 181; 1 maggio 1841, 156; C. Malaspina, 1841, 188; Gazzetta di Parma, 7 giugno 1845, 187; Il Giardiniere 23 maggio 1846, 78; G. Negri, 1851, 23; e 1852, 59, 62, 63, 65, 66; Gazzetta di Parma 31 maggio, 18 e 27 luglio 1855, 493, 652 e 683; 14 luglio e 2 agosto 1856, 634 e 701; 18 agosto, 6 e 19 ottobre 1857, 737, 901, 902 e 905; X., in l’Annotatore 1857, 129-130; F.G., in Gazzetta di Parma 1858, 853; Gazzetta di Parma 18 settembre 1858, 841; G. Panini, 1858, 885; Esposizione delle opere, 1858, 6-7; P. Martini, 1858, 44; C.I., in l’Annotatore 1859, 170; A. Billia, 1860, 1239; P. Martini, 1862, 35; Gazzetta di Parma 11 luglio 1863, 615; Atti delle R. Emil. Acc., 1867, 6; E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, v. IX, 52; G. Copertini, 1954, 131; Mecenatismo e collezionismo pubblico, 1974, 45; M. Sacchelli, in Gazzetta di Parma 11 novembre 1996, 5.

BESEGHI UMBERTO 
Parma 20 ottobre 1883-Bologna 11 febbraio 1958
Dovette limitare il corso degli studi alla sola frequenza della triennale Scuola Tecnica. Ma egli, autodidatta nel senso più austero del termine, seppe elevarsi, per la fermezza del carattere, l’intensità e serietà dell’applicazione, a sicura dignità di letterato e di storico. Il suo primo successo ufficiale lo ebbe quando, poco più che ventenne, vinse il concorso al posto di cancelliere giudiziario per la Pretura di Parma. Passò poi a quella di Orbetello, quindi al Tribunale di Ravenna e infine alla Procura Generale di Bologna. Fino allo scoppio della prima guerra mondiale, esercitò attivamente anche il giornalismo quale corrispondente di giornali politici e come direttore del quotidiano locale Il Presente. Dopo fu tra i fondatori del Sindacato Corrispondenti Giornalisti e della Sezione Parmense dell’Associazione Nazionale Combattenti, della quale assunse per primo la presidenza. Per divergenze d’ordine politico, l’Associazione Nazionale Combattenti venne presto disciolta e ricostituita con altre direttive statutarie e Umberto Beseghi allontanato da Parma per Orbetello. Da questo momento la sua attività extra professionale fu tutta rivolta al soddisfacimento della sua passione letteraria. Alla città di Bologna, il Beseghi dedicò molta parte della sua feconda attività di studioso. Dalla Cronaca di fra Salimbene, egli trasse interessanti notizie sulle vicende della città. La esaltò poi, tramite l’Ente Provinciale per il Turismo, quale Città d’arte e di sapere. Sulla Rivista del Comune, parlando delle Mura cittadine, illustrò gli affreschi di Casa Redenti. Ma la testimonianza più tangibile del suo attaccamento a Bologna è nell’armonia raggiunta in quelle tre opere che formano, completandosi a vicenda, il trittico dedicato, con adeguata ampiezza di riferimenti culturali, storici e artistici, alle insigni bellezze architettoniche della città. Le tre opere, edite da Tamari di Bologna, sono: Introduzione alle chiese di Bologna del 1953, Palazzi di Bologna del 1956, Castelli e ville bolognesi del 1957. Oltre ai molti articoli sparsi su varie riviste, sono da ricordare i due poderosi volumi su Ugo Bassi. L’Apostolo. Il Martire (Parma, Donati, 1939) e l’altro, ultima sua fatica di studioso, 1849: Garibaldi rimase solo (Bologna, Tamari, 1957). Di Parma, illustrò in Aurea Parma I dipinti della Rocca di Sala, con il corredo di chiare riproduzioni dei bellissimi affreschi, e rievocò I fatti del 16 giugno 1847, di cui trasse gli spunti a commento dalle epigrafi di protesta rintracciate nell’Archiginnasio bolognese. Il Beseghi fu attivissimo socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi, socio corrispondente per la Deputazione della Romagna, presidente del Circolo Artistico di Bologna, consigliere dell’Associazione Amici dell’Archiginnasio, membro del Circolo per gli Studi Carducciani e Accademico Clementino.
FONTI E BIBL.: Umberto Beseghi combattente e scrittore, in Gazzetta di Parma 22 febbraio 1958, 3; M. Mora, Ricordo di Umberto Beseghi, in Parma per l’Arte 8 1958, 116-120; M. Corradi Cervi, in Aurea Parma 1 1958, 59; F. Da Mareto, Bibliografia, II, 1974, 107.

BESEGHI VINCENZO
Parma 1819/1852
Nella stagione di Fiera del 1819 fu prima tromba nell’orchestra del Teatro Comunale di Reggio Emilia (vi è indicato della Duchessa di Parma). Nel 1852 faceva ancora parte dell’orchestra del Teatro Regio di Parma. In quell’anno richiese di assentarsi e di ottenere il passaporto.
FONTI E BIBL.: P. Fabbri e R. Verti; Inventario, 1992, 214, 318.

BESEGHI VINCENZO 
Parma 1801/1844
Fu suonatore di violino in soprannumero del Regio Concerto di Parma, nominato il 24 luglio 1801. Nella riforma della Ducale Orchestra di Parma del 1816 fu classificato al quarto posto, e chiese di essere nominato II violino soprannumerario. Nel 1844, alla morte di Angelo Mazzoni, chiese di essere nominato al suo posto, in considerazione del fatto che suonava da sedici anni nell’Orchestra Ducale (Biblioteca del Conservatorio di Parma, Archivio dell’Orchestra Ducale di Parma).
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Storia della musica in Parma, 1936; G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.

BESOZZI ALESSANDRO 
Parma 22 luglio 1702-Torino 1776 o 1777
Oboista e compositore, allievo del padre Cristoforo, fu membro della Guardia irlandese dal 15 gennaio 1714, per passare poi, dal 16 gennaio 1728, insieme con i fratelli, al servizio diretto del duca Antonio Farnese come virtuoso d’oboe fino al 31 marzo 1731. Il 20 aprile dello stesso anno fu chiamato da Carlo Emanuele III di Savoia come virtuoso alla cappella di Corte a Torino. Nel 1735, in compagnia del fratello Paolo Girolamo, si recò a Parigi per suonare dal 30 marzo al 29 maggio al Concert Spirituel. Ritornato a Torino, riprese il suo incarico alla Corte, che non abbandonò più fino alla morte, eccettuato un breve viaggio a Parma. La stima e il prestigio di cui godeva erano così grandi che il 19 maggio 1776 fu nominato Primo virtuoso di camera, direttore generale della musica istrumentale e suonatore di Hautbois. Durante la sua lunga permanenza a Torino contribuì, insieme con G. Pugnani, al predominio della musica italiana su quella d’Oltralpe. Si esibì, inoltre, col fratello Paolo Girolamo, in numerosi concerti pubblici, facendo così conoscere le sue composizioni. Il Burney, che conobbe i due fratelli a Torino nell’estate del 1770, ne ha lasciato un entusiastico giudizio. Le numerose composizioni del Besozzi, pubblicate a Parigi e a Londra tra il 1740 e il 1764, sono conservate nelle principali biblioteche europee insieme con molte altre rimaste manoscritte. Si tratta per lo più di Sonate da camera per due o più strumenti con o senza accompagnamento di basso continuo per clavicembalo, in due o più parti, ma si ricordano anche Canzonetti à soprano con basso, conservati manoscritti alla Sächsische Landes Bibliothek di Dresda.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 669.

BESOZZI ANTONIO 

Parma 1714-Torino 1781
Figlio di Giuseppe, fu arruolato come oboista nella Guardia irlandese l’8 ottobre 1727 e rimase alla Corte parmense fino al 1731. Si ignora ove abbia svolto la sua attività dopo questo periodo. Si sa soltanto che nel 1734 fu alla Corte di Napoli e nel 1738 si recò a Dresda, entrando a far parte della cappella reale come primo oboista il 2 ottobre 1739. Nel dicembre 1757 apparve probabilmente con il figlio Carlo al Concert spirituel di Parigi (mentre Le Mercure de France del gennaio 1758 fornisce questa notizia, altri ritengono che i due musicisti fossero invece Gaetano e suo figlio Girolamo, ma è più attendibile che si tratti del Besozzi, anche perché nelle Affiches dei concerti viene indicato un Besozzi musicien du roi de Pologne, come appunto il Besozzi era denominato). La sua esibizione destò un notevole entusiasmo anche nei meno favorevoli alla musica italiana. Nei due anni successivi (1758-1759) suonò alla Corte di Stoccarda sotto la guida di N. Jommelli. Tornò poi a Dresda, rimanendovi fino al 1774 al servizio dell’elettore di Sassonia. L’anno dopo si trasferì a Torino. Restano stampate e inedite alcune sue composizioni per oboe.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 669.

BESOZZI GAETANO 
Piacenza 25 febbraio 1725-Londra 1798
Figlio di Giuseppe. Ottimo oboista, entrò giovanissimo al servizio del re di Napoli, presso il quale rimase fino al 1765, quando, per interessamento dell’ambasciatore di Francia E.-J. de Durfort, fu invitato a recarsi a Parigi. Ammesso tra i musicisti della cappella reale, apparve più volte al Concert Spirituel e il Burney, che lo ascoltò il 14 giugno 1770, ne decantò la squisita se pur discontinua abilità di esecutore. Nel 1793 si recò a Londra, dove diede vari concerti fino al 1794, destando ammirazione per la sua tecnica.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 669.

BESOZZI GIUSEPPE
Milano 1686-Napoli 22 dicembre 1760
Trasferitosi a Parma nel 1701 con il padre Cristoforo, entrò a far parte della Guardia irlandese dal 1o giugno 1711 fino al 16 gennaio 1728, quando passò virtuoso d’oboe alla Corte ducale, prestandovi servizio fino al 5 aprile 1733. Nel 1734 si recò a Napoli chiamatovi da Carlo di Borbone, ma fu licenziato nel 1738 per sopravvenuta cecità. Si dedicò allora all’insegnamento, formando ottimi allievi.
FONTI E BIBL.: (Riferibile anche agli altri musicisti della famiglia Besozzi) F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, V, Bologna, 1744, 517, 531; M. Fürstenau, Beiträge zur Geschichte der königlich-sächsischen musikalischen Kapelle, Dresden, 1849, 136, 140, 156, 170; M. Fürstenau, Zur Geschichte der Musik und des Theaters am Hofe zu Dresden, I, Dresden, 1861, 234 s.; C.F. Pöhl, Mozart und Haydn in London, II, Wien, 1867, 241, 372; G. Roberti, La cappella regia di Torino 1515-1870, Torino, 1880, 31, 34, 38 s., 43; V.A. Bertolotti, Gaetano Pugnani e altri musicisti alla Corte di Torino nel secolo XVIII, in Gazzetta musicale di Milano XLVI 1891, 28, 457 e 33, 537; H. Abert, Niccolò Jommelli als Opernkomponist, Halle, 1908, 70; N. Pelicelli, Musicisti in Parma nel secolo XVIII, in Note d’Archivio per la Storia Musicale XI 1934, 3-4, 250-255; G. Gaspari, Catalogo della Biblioteca del Liceo musicale di Bologna, V, a cura di U. Sesini, Bologna, 1943, 52; Ch. Burney, A general history of music, from the earliest ages to the present period (1789), a cura di F. Mercer, II, New York, 1957, 971; Ch. Burney, An eighteenth century musical tour in France and Italy, a cura di Percy A. Scholes, London, 1959, I, 16 s., 55-58, 310 e II (in central Europe and Netherlands), 61, 139, 147; A. Baines, Musical instruments through the ages, London, 1961, 240; W.H. Bauer-O.E. Deutsch, Mozart. Briefe und Aufzeichnungen (Gesamtausgabe), II (1777-1779), Kassel, 1962, 362; The British Union-Catalogue of early music printed before the year 1801, a cura di E.B. Schnapper, I, London, 1957, 105; W. Duckless-M. Elmer, Thematic catalogue of manuscript collection of eighteenth-century italian istrumental music, Berkeley and Los Angeles, 1963, 55, 61; F.J. Fétis, Biogr. univ. des Musiciens, I, Paris, 1860, 396; G. Grove’s Dict. of Music and Music., I, London, 1954, 693 s.; R. Eitner, Quellen-Lex. der Musiker, II, Graz, 1959, 18 s.; Enciclopedia della Musica Ricordi, I, Milano, 1963, 255; R. Meloncelli, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 669.

BESOZZI PAOLO GIROLAMO 
Parma 17 aprile 1704-Torino gennaio/maggio 1778
Figlio di Cristoforo. Dedicatosi allo studio del fagotto e marginalmente anche dell’oboe, dall’11 giugno 1717 fece parte della Guardia irlandese del duca di Parma, rimanendo in servizio fino al 30 dicembre 1727. Dichiarato virtuoso d’oboe del duca insieme con i fratelli il 16 gennaio 1728, nel 1731 si trasferì a Torino come suonatore della cappella di Corte. Durante il soggiorno fatto a Parigi nel 1735 con il fratello Alessandro, collaborò alla composizione di Six Sonates en trio pour deux violons et violoncello, pubblicate verso il 1750 dall’editore Canavasse. Secondo una lettera di Leopoldo Mozart del 28 maggio 1778, il Besozzi sarebbe morto a Torino, per Eitner, invece, sarebbe morto a Parigi. Tuttavia, poiché è noto che dopo la morte del fratello Alessandro visse a Torino con il nipote Antonio, è da ritenersi assai improbabile un suo trasferimento a Parigi in una età piuttosto avanzata.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 669.

BESUZZI, vedi BESOZZI

BETOLLI, vedi BETTOLI

BETTA ROSA, vedi MERELLI ROSA

BETTA DEL TOLDO FRANCESCO
Rovereto 1526-post 1589
Fu giureconsulto di grande valore. Nel 1561 ottenne da papa Pio IV il titolo di protonotario apostolico e conte palatino. Ricoprì cariche importanti, quali uditore e presidente del Consiglio di Giustizia (1589), al servizio dei duchi Ottavio, Alessandro e Ranuccio Farnese.
FONTI E BIBL.: A. Aliani, Notariato a Parma, 1995, 391.

BETTALI PANCRAZIO 
Parma-post 1779
Appartenne a una famiglia di fonditori sulla quale non si hanno notizie precise: dalla data di fusione di alcune realizzazioni e da una numerazione rilevata sulle campane, si può presumere che la famiglia avesse iniziato l’attività fin dai primi del Seicento. Era probabilmente imparentata con gli omonimi fonditori di campane che stabilirono la loro attività a Castelnovo ne’ Monti, nel Reggiano. Il Bettali fornì una campana per la chiesa di Felegara e nel 1779 fuse la campana in bronzo per la chiesa di San Martino a Stadirano: era decorata con ornamenti floreali, una Maestà, San Martino e medaglioni di santi. Altre due campane del Bettali furono requisite nel 1942 per gli eventi bellici.
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario, 1998.

BETTATI  Parma 1752/1759 Fu cantore alla Cattedrale di Parma dal 29 maggio 1752 al 14 giugno 1759.

FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Storia della musica in Parma, 1936.

BETTATI CIRO 
Borgo San Donnino 1837-
Falegname, seguace di Garibaldi nel 1859. Fece parte della Società operaia. Nel 1864 fu inquisito perché repubblicano.
FONTI E BIBL.: P. D’Angiolini, Ministero dell’Interno, 1964, 39.

BETTEI, vedi BATTEI

BETTI DOMENICO
Parma 1824
Venditore ambulante, rifugiato politico, arrivò a Bruxelles tra il 15 aprile e il 15 maggio 1824, proveniente da Parma e diretto a Cherbourg.
FONTI E BIBL.: S. Carbone, Rifugiati italiani in Francia, 1962.

BETTI GIOVANNI 
Parma 1749/1771
Fu ufficiale dell’esercito parmense, colonnello ispettore di fanteria.
FONTI E BIBL.: Alla Regal Colorno, 1987, 102.

BETTI GIOVANNI
Parma ante 1757-post 1779
Dai libretti risulta inventore degli abiti negli spettacoli teatrali tenuti a Parma dal 1757 al 1770 nei Teatri Ducale e Sanvitale. Nel 1762 organizzò una mostra di costumi teatrali. Nel libretto del Marito indolente, rappresentato al Teatro Ducale nel Carnevale del 1779, si legge che era suo il vestiario di nuova e vaga invenzione.
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario, 1998.

BETTI UGO 

Camerino 4 febbraio 1892-Roma 9 giugno 1953
Nacque da Tullio, medico, e da Emilia Mannucci. Trascorse l’infanzia e la giovinezza a Parma. Qui si laureò in legge nel 1914 con una tesi di filosofia del diritto, La rivoluzione e il diritto, rivelando, col sostenere la liceità della rivoluzione, di non essere rimasto insensibile alla temperie politica della città emiliana. Allo scoppio della guerra il Betti, che era stato assertore della necessità dell’intervento, si arruolò volontario come ufficiale di artiglieria di campagna. Venne fatto prigioniero durante la rotta di Caporetto e in prigionia conobbe scrittori come Gadda e Tecchi e compose quelle liriche che uscirono poi con il titolo Il re pensieroso. Sono componimenti dove si avvertono gli echi dei crepuscolari, di Corazzini e di Govoni, di Maeterlinck ma anche di D’Annunzio. Componimenti in cui, accanto a immagini estenuate e tutte tese alla ricerca di una visione fanciullesca del mondo, ne compaiono altre baluginanti e fantastiche, ammantate di forme barbariche e decadenti. Tornato in patria, il Betti scrisse, per il concorso di avvocato delle Ferrovie dello Stato, un’opera di carattere giuridico, Considerazioni sulla forza maggiore come limite di responsabilità del vettore ferroviario (Camerino, 1920). Contemporaneamente si preparò per il concorso nella magistratura, lo vinse e, nel 1921, fu nominato pretore a Bedonia. Intanto si fece conoscere appieno nel mondo delle lettere con la pubblicazione, nel 1922, della raccolta di liriche Il re pensieroso, mentre nel 1925 il suo nome si legò per la prima volta al teatro, quando un suo dramma in tre atti, La padrona (rappresentato a Roma il 21 gennaio 1927, Compagnia stabile romana con Melato, Masi, Donadio), vinse il concorso drammatico bandito dalla rivista teatrale Le Scimmie e lo Specchio. Silvio D’Amico (che faceva parte della giuria) ricorda lo stupore dei giudici di fronte al dramma del Betti: parve difficile, a prima vista, trovare un rapporto tra l’aerea levità di quelle liriche e la fosca terrestrità del dramma (prefazione a Ugo Betti, Teatro completo, p. XI). Nel Betti i critici avvertirono subito qualità di autentico scrittore, anche se non poterono fare a meno di rimproverargli, come fece Marco Praga (pp. 235-239), un linguaggio da monsieur qui s’écoute o un equivoco oscillare, nell’azione e nell’impianto dei personaggi, tra realismo e simbolismo (R. Simoni, III, pp. 171 s.). Ne La padrona, infatti, a una trama d’impianto realistico si sovrappone un linguaggio tutto letterario che, malgrado i suoi accenti crudi, tenta di trasportare i personaggi verso significati simbolici e universali. Nel 1926 il Betti compose in collaborazione con O. Gibertini La donna sullo scudo (rappresentato a Roma il 1o febbraio 1927, Compagnia Pavlova, con scene futuriste della pittrice russa A. Ekster), in cui vengono abbandonate le forme del teatro verista per quelle oscure e affascinanti della leggenda simbolista e i personaggi si esprimono in un linguaggio fumoso e artificiale, quasi sempre incomprensibile. Il desiderio del Betti di dare vita a un teatro di idee, una specie di comizio secondo quanto dichiarò in un’intervista del 1928 (Praga), si traduce nell’esigenza del superamento del realismo attraverso la duplice possibilità o del rifiuto o della sua trasformazione dall’interno. Duplice possibilità di cui si trovano esempi nelle novelle, composte parallelamente alle prime opere teatrali e pubblicate nel 1928 a Milano con il titolo di Caino, in cui, accanto a echi di Flaubert, Dostoevskij e Tozzi, compare una serie di favole wildiane. Una di queste, Il principe Desiderio, fornì il nucleo per il dramma-balletto L’isola meravigliosa (rappresentato a Milano il 30 ottobre 1930, Compagnia Salvini-Donadio-Rissone-Melnati; nel 1941 fu ridotta a libretto per la musica di Renzo Rossellini), un’opera sapientemente costruita come una partitura musicale, in cui non tutto, però, riesce a risolversi in pura armonia, rischiando certi tratti dei personaggi e certi risvolti dell’azione di apparire arbitrari. Accanto a questi tentativi di approdo verso le forme del teatro simbolista si hanno, però, quelli ben altrimenti fecondi intesi a dilatare le possibilità espressive del dramma realista. Ne La casa sull’acqua (rappresentato a Salsomaggiore il 18 luglio 1929, Compagnia benelliana) il Betti rappresenta, in un’aura vagamente ibseniana, la sua concezione dell’uomo come creatura decaduta, naturalmente attratta verso il male, per la quale unica àncora di salvezza è la pietà. Tutto ciò per mezzo di notazioni psicologiche frammentarie (brani di confessioni, ricordi improvvisi e apparentemente non giustificati) e la ricerca di particolari tonalità che rischiano di rendere del tutto insignificante l’azione rappresentata, quasi questa non fosse altro che necessaria ma ingombrante impalcatura. Che alla fine del dramma Elli muoia per il crollo del ponticello sulla darsena (come accade nella versione pubblicata in Comœdia, agosto-settembre 1929) o che venga salvata e accolta amorosamente da Luca (come nella seconda redazione composta intorno al 1932) non cambia quasi nulla nell’economia del dramma. Anche in Un albergo sul porto (rappresentato a Parma il 23 dicembre 1933, Compagnia Pavlova-Picasso) la storia narrata ha soltanto valore di pretesto: ciò che importa è che un certo numero di personaggi dica la tremenda abiezione cui l’uomo può ridursi, fino a quando, dal fondo dell’abisso, nasca la scintilla della pietà. Nel 1930 il Betti, giudice a Parma, sposò Andreina Frosini. Nello stesso anno il suo dramma-balletto L’isola meravigliosa vinse il premio Governatore di Roma. Nel 1931 venne trasferito a Roma e iniziò a collaborare alle riviste di Ojetti Pan e Pegaso. L’anno dopo pubblicò per Mondadori la raccolta di poesie Canzonette-La morte e iniziò la collaborazione a La Gazzetta del Popolo (che si protrasse a lungo, fino al 1952) con la rubrica Taccuino. Questo allargarsi dell’attività del Betti ad ambiti ed esperienze più vasti dovette influire non poco a maturare l’evoluzione del suo teatro. Come ne La padrona, così ne La casa sull’acqua e in Un albergo sul porto il Betti cercò di adattare la sua originale materia a strutture tradizionali di dramma. Ciò lo condusse a quegli squilibri tra linguaggio e materia, tra crudo realismo e lirismo, tra sensi apparenti e reconditi, che la critica gli rimproverò. Se alcuni di questi squilibri sono riscontrabili quasi lungo tutto l’arco dell’opera bettiana, è certo che in questa sua prima parte essi appaiono particolarmente gravi e non di rado precludono l’intelligibilità dei singoli drammi. Con Frana allo scalo Nord (composto intorno al 1932; rappresentato a Roma il 28 novembre 1936, Compagnia Palmer-Almirante-Scelzo) il Betti sembrò approdare a moduli drammatici più aperti. Il tema tipicamente bettiano della Legge che non riesce a farsi Giustizia e che di questa è costantemente in cerca postulando, in questo suo inappagamento, l’esistenza di una trascendenza, è qui calato in un’atmosfera liricamente sospesa ottenuta per mezzo della forma (anche questa tipicamente bettiana) del dramma-processo dove i personaggi, che non debbono più agire ma soltanto confessarsi, trapassano quasi senza sforzo dalla realtà al simbolo, fino a fondersi (sia i vivi sia i morti) in un unico coro invocante pietà. Proprio ciò che fa di Frana allo scalo Nord una delle più felici opere del Betti (e cioè il sapiente e raffinato accordo di elementi diversi tendenti tutti verso un unico piano di astrazione) impedisce al testo di porsi come punto di partenza per nuove soluzioni drammatiche. Esso ha invece le caratteristiche di un punto di arrivo, si presenta come la conclusione di un ciclo. Nel 1934, infatti, il Betti tentò, con Il Cacciatore d’anitre (rappresentato a Roma il 24 gennaio 1940, Compagnia dell’Accademia d’Arte Drammatica, regia di O. Costa), di comporre una tragedia drammatica, cioè un’opera che abbandonasse l’atmosfera impressionistica di Frana allo scalo Nord per organizzarsi in uno schema sintattico, tradizionalmente atteggiato, patinato, quasi di un colore di arcaica rigidità (Barbetti, pp. 120 e ss.). Il valore allegorico della vicenda rischia però di vanificare la consistenza dei personaggi i quali si presentano come vaghe ombre di tipi astratti, freddi echi del primo Ibsen. Intanto il Betti pubblicò nel 1933 una raccolta di novelle, Le case e andava componendo una serie di liriche (pubblicate nel 1937 con il titolo di Uomo e Donna) in cui, in un linguaggio meditato e pieno di mitiche risonanze, viene tracciata la storia dell’uomo. In campo teatrale, invece, tentò la strada della commedia piacevole e commerciale. Tra il 1935 e il 1937 scrisse Una bella domenica di settembre (rappresentata a Roma il 7 dicembre 1937, Compagnia Palmer-Almirante), I nostri sogni (rappresentata a Parma il 7 novembre 1937, Compagnia Tofano-Rissone-De Sica), Il paese delle vacanze (rappresentata a Milano il 20 febbraio 1942, Compagnia Tofano-Rissone-De Sica). A questo filone si riallacciò, nel 1940, Favola di Natale (rappresentata a Milano il 16 novembre 1948, Compagnia Tofano-Solari). Si tratta di commedie che, se pur mostrano qua e là, al di sotto della superficie facile e brillante, il segno del pessimismo bettiano, certo non aggiungono nulla alla gloria del Betti. Egli si rifà ai modi della commedia borghese, vezzeggiando quel genere di personaggi che nel 1931 aveva amaramente satireggiato nella felice farsa tragica in tre atti Il diluvio, nutrita dei succhi della comicità pirandelliana e non per nulla presentata per la prima volta al pubblico dalla Compagnia De Filippo (rappresentata a Roma il 28 gennaio 1936). Nacquero queste forse dal desiderio del Betti di offrire una rappresentazione del mondo borghese che fosse l’equivalente teatrale di certe liriche giovanilmente cattive, ironiche ma in fondo affettuose, di Gozzano e Palazzeschi, o forse il Betti tentò di accattivarsi quel pubblico al quale sentiva di appartenere e dal quale non riusciva a ottenere il consenso. Nel 1939 vinse intanto, con I tre del Pra’ di sopra (da cui trasse il romanzo La Piera alta, Milano, 1948), un concorso per un soggetto cinematografico bandito dalla rivista Cinema e iniziò la sua collaborazione al mondo del cinematografo che lo portò a partecipare alla composizione dei soggetti di film come Bengasi (1941, regia di A. Genina) o Quarta pagina (1942, regia di N. Manzari). Nel 1938, con Notte in casa del ricco, tragedia moderna in un prologo e tre atti (rappresentata a Roma il 15 novembre 1942, Compagnia Ricci) il Betti tornò, dopo la pausa della commedia commerciale, al tema preferito dell’inestricabile miscuglio di bene e di male che è nel cuore dell’uomo e a quello della pietà come unica forma di giustizia, di solidarietà e di comprensione. Tutto ciò si fa immagine nel personaggio di Elisa, protagonista de Il vento notturno (rappresentato a Milano il 17 ottobre 1945, Compagnia Cornabucci-Randone-Borboni, regia di O. Costa), disperatamente schiava della miseria dei sensi, ma capace, a volte, in solitudine, di cantare con voce di bambina, segno di una innocenza in qualche modo ancora presente. La rappresentazione di situazioni limite, di personaggi moralmente tarati, non nacque nel Betti da un interesse per il morboso ma dall’esigenza di prendere coscienza di tutto il male, palese e segreto, che è nell’uomo per trovare poi una parola di speranza che non fosse il frutto di colpevoli illusioni, e dalla sua persuasione che ogni salita verso il cielo è in realtà una risalita, dopo che si è scesi nei regni del male, non per contemplarlo ma per conoscerlo. Così in Ispezione (composta intorno al 1942; rappresentata a Milano l’11 marzo 1947, Compagnia Ruggeri-Calindri-Adani) i membri di una famiglia di profughi confessano a due misteriosi ispettori egoismi e tradimenti, debolezze e persino tentativi di omicidio, in una struttura drammatica che non vuole rappresentare dei fatti, ma piuttosto rendere evidenti gli inconsci e inconfessati impulsi sinistri che si annidano nel fondo degli uomini normali. Il porsi della rappresentazione bettiana in una dimensione più profonda rispetto alla realtà di immediata esperienza implica la comparsa di elementi che si aggiungono a fianco dell’azione rappresentata per commentarla, per indicare agli spettatori l’angolo sotto il quale va guardata. Gli ispettori di Ispezione adempiono a questa funzione, così come vi adempie l’uso del monologo interiore in Marito e moglie (rappresentato a Roma il 21 novembre 1947, Compagnia del Dramma Italiano, regia di G. Guerrieri). Nel 1944 il Betti ottenne la nomina a bibliotecario del Ministero di Grazia e Giustizia. Lo stesso anno scrisse Corruzione al Palazzo di Giustizia (rappresentato a Roma il 7 gennaio 1949, Compagnia dell’Istituto del Dramma Italiano, regia di O. Spadaro), il suo dramma più famoso in Italia e all’estero, che gli procurò (già nel 1941 aveva ricevuto il premio dell’Accademia d’Italia per il Teatro) il premio dell’Istituto Nazionale del Dramma (1949) e il Premio Roma (1950). Corruzione al Palazzo di Giustizia piacque per la tensione, quasi da dramma poliziesco, e per i caratteri dei personaggi. L’astrazione in cui si muovono gli altri drammi del Betti si ritrova qui soltanto al livello delle singole battute. Sono pregi, questi, che non mancarono di comportare limiti non indifferenti: Cust rischia di non essere credibile al momento della sua redenzione finale e questa pare arbitrariamente aggiunta per sfuggire al nero pessimismo che il resto del dramma sembra suggerire. Lo sbocco verso la trascendenza non poteva sorgere senza equivoci dallo svilupparsi di un processo logico realisticamente rappresentato. In mancanza di elementi formali che definiscano il valore dell’uomo e delle sue azioni in zone più profonde della realtà (i morti che ritornano in Frana allo scalo Nord, gli ispettori e la dimensione dell’inconscio in Ispezione, l’atmosfera astratta e liricamente disperata in cui si svolge Il vento notturno), il personaggio bettiano cerca nella morte, vista come immolazione e iniziazione, la propria definizione al di sopra dell’inestricabile intrecciarsi di male e di bene che condiziona il suo vivere e il suo agire. È questo il destino di Irene in Irene innocente (rappresentato a Roma il 23 marzo 1950, Compagnia Maltagliati-Benassi), di Laura in Spiritismo nell’antica casa (rappresentato a Roma il 13 aprile 1950, Piccolo Teatro della Città di Roma, con R. Falk e T. Buazzelli, regia di O. Costa) e della prostituta Argia, che muore da regina ne La regina e gli insorti (rappresentato a Roma il 5 gennaio 1951, Compagnia Pagnani-Cervi, regia di A. Blasetti). In Lotta fino all’alba (rappresentato a Roma il 22 giugno 1949, Piccolo Teatro della Città di Roma, regia di O. Costa) Elsa giunge a uccidere il marito per liberarlo dal tormento di invincibili passioni, mentre in Delitto all’isola delle capre (rappresentato a Roma il 20 ottobre 1950, Compagnia Randone-Zareschi, regia di C. Pavolini), in un’atmosfera di cupa disperazione, tre donne lasciano morire nel fondo di un pozzo l’avventuriero che le aveva sedotte. La dimensione psicologica che caratterizza questo gruppo di opere coincide con un’incertezza sul piano spirituale: il Betti sembra porre soltanto delle domande, indicare timidamente delle possibilità. Nel 1950 il Betti fu nominato consigliere di Corte d’Appello e passò a far parte dell’ufficio stampa della Presidenza del Consiglio. Si riaccostò intanto alla pratica cattolica: specchio di questa evoluzione è il suo teatro, che dal 1950, con Il giocatore (rappresentato a Roma il 21 aprile 1951, Compagnia Gassmann, regia di V. Gassmann), si rifà alle concezioni del cristianesimo. Che l’azione scenica si inquadri in una visione ben precisa della trascendenza, non più semplicemente postulata o misteriosamente evocata, implica una profonda trasformazione della struttura del dramma bettiano, pur nella continuità di una certa tematica. La vicenda rappresentata si trasforma in exemplum e, di conseguenza, i personaggi e i luoghi in cui agiscono vengono sottoposti a un processo di stilizzazione che cerca di dar vita a una sorta di moderno mistero, anche se tutto ciò, lungi dal realizzarsi completamente, compare per lo più allo stato di tendenza. A conferma di questo carattere, negli ultimi drammi del Betti compaiono, col compito di commentarla, personaggi in parte o totalmente estranei alla vicenda rappresentata, siano essi il Funzionario o i Tizi de Il giocatore e di Acque Turbate (1951; non rappresentato) o il coro che conclude l’azione de La fuggitiva (1952-1953; rappresentato a Venezia il 30 settembre 1953, Festival del Teatro, Compagnia Gassmann, regia di Squarzina), nel quale ultimo dramma compare anche, in funzione di antagonista, una sorta di moderno Mefistofele. Quasi simbolicamente, il penultimo dramma del Betti, L’aiuola bruciata, fu rappresentato per la prima volta il 26 settembre 1953 nella chiesa di San Miniato a Firenze (Compagnia del Piccolo Teatro della Città di Roma, regia di O. Costa). Silvio D’Amico scrive (1955, p. 160): Ugo Betti rappresentato in chiesa: cosa ne avrebbero detto quei critici i quali, per un buon quarto di secolo hanno accusato il nostro poeta di crudezze repellenti, di torbidi fermenti, di compiacenze immonde, considerandolo come un acre rimestatore di fondi impuri, un insistente descrittore delle meno confessabili bassezze umane? Poco più di tre mesi prima di questa rappresentazione il Betti si spense a Roma, stroncato da un tumore alla gola. A considerare l’intera parabola della sua opera drammatica non si può non scoprire in essa un’intima coerenza che supera l’apparente antinomia tra drammi disperati e altri aperti alla speranza, tra drammi della redenzione e drammi della dannazione. Anche quando la sua opera sembri sconsolata, l’intento di Betti è di presentarci una situazione, dalla quale scaturiscano delle confessioni, e come risultato di tutto questo lo spettatore sia portato a un esame di coscienza, a una ribellione, a una constatazione per una via da seguire e per sapere se questa via c’è (Fiocco, p. 29). Una tale coerenza, una tale costante attenzione ai problemi inerenti alla dimensione interiore dell’uomo, se dotarono l’arte del Betti di una profondità non comune, gli impedirono anche quasi del tutto, per lo meno per quanto riguarda la sua attività di scrittore, di aprirsi alla comprensione dei drammi che travagliarono la società del suo tempo. Queste considerazioni, se forse non possono condizionare il giudizio estetico sull’opera del Betti, possono però far comprendere la ragione per cui i suoi drammi stentarono, a volte, a instaurare un discorso pienamente valido con il pubblico. Ad alcuni la problematica del Betti sembrò addirittura il frutto di un tentativo di evasione dai problemi posti dalla realtà. A proposito di Frana allo scalo Nord, Quasimodo scrisse nel 1951: La responsabilità di Gauker è precisa e la causa della frana ben determinata. I ragionamenti di Betti, filosofici o meno, sulla colpa e la sofferenza di tutti gli esseri umani, per giustificare un male individuato, sono funzioni della mente, vago gioco letterario (cfr. Scritti sul teatro, pp. 143-145). E lo stesso Quasimodo termina, nello stesso anno, una recensione a La regina e gli insorti con una frase sprezzante e irridente, certamente ingiusta: Argia muore, con dignità, cioè come dovrebbe morire un regina. Amen (p. 130). Se in atteggiamenti come questi va riconosciuta una aprioristica negazione di ciò che nella problematica bettiana vi è di certamente valido, occorre però aggiungere che tale problematica rimane quasi sempre strettamente legata (specialmente nelle forme in cui si manifesta) al periodo tra le due guerre. Il teatro di Pirandello (segno assoluto di crisi) non poteva porsi come primo esempio di una tradizione nuova. Da esso il teatro specialmente italiano del Novecento trasse indubbiamente alcuni succhi, alcune esperienze particolari (per esempio con il teatro del grottesco e le commedie, legate a un ambiente dialettale ma non prive di risvolti fantastici e metafisici, di Eduardo De Filippo) ma non una soluzione globale che tenti di risolvere i problemi della scena del Novecento. Questa venne ricercata nell’ambito della regia, in Italia con i tentativi di Teatro teatrale di Anton Giulio Bragaglia. Il Betti, invece, cercò di fare riassistere alla nascita delle prime verità sostanziali, di trovare cioè una soluzione alla crisi del personaggio pirandelliano. Soluzione cercata in una cristianesimo di tipo giansenistico e individualistico e che, sorta faticosamente dall’interno dell’uomo, stenta a dispiegarsi chiaramente e a fecondare l’intera struttura del dramma. Così il teatro di Betti, che non può vivere senza regista, è la disperazione del regista, il quale sa bene che, sul palcoscenico, tutto deve prendere consistenza concreta, ma altresì dev’essere risoluto a gettarsi senz’altro su un ritmo lirico, fantastico che è sempre l’apporto inedito di Betti (cfr. E. Ferrieri, Novità di teatro, pp. 172-174). Per queste vie il Betti si pose come massimo esponente di quella corrente del teatro italiano (che trovò in Silvio D’Amico il proprio teorizzatore e che proseguì con le opere di Diego Fabbri e i tentativi registici di Orazio Costa) che non soltanto tese a un teatro della parola, a un teatro di poesia e introspezione, ma che cercò di ritrovare modernamente nel palcoscenico un luogo di meditazione. Oltre gli scritti citati, del Betti si ricordano: Le case (novelle, Milano, 1933), Una strana serata (novelle, Milano, 1948), Poesie (Bologna, 1957), Teatro completo (con prefazioni di S. D’Amico e A. Fiocco, Bologna, 1957). Scritti inediti, a cura di A. Di Pietro (Bari, 1964, comprende Il diritto e la rivoluzione, La donna sullo scudo, I tre del Pra’ di sopra, la riduzione in versi per musica de L’isola meravigliosa e la novella Quelli del padiglione). Per la poetica del Betti si vedano (oltre all’introduzione a La padrona), Lettera a Lucio Ridenti, in Il Dramma, agosto-settembre 1933, e Teatro e Religione, in La Rocca, Assisi, luglio 1953 (ripubblicato in Teatro-Scenario, ottobre 1953). Principali traduzioni delle opere del Betti sono: Teatro completo, Madrid, 1960 (prefazione di G.C. Mora), Teatro (Marido y mujer, Delito en la isla de las cabras, Lucha hasta el alba Corrupción en el palacio de justicia, Buenos Aires, 1953), Corruption au Palais de Justice (Roma, 1952), L’Ile des chèvres (Paris, 1953), Irène innocente (Paris, 1954), La Reine et les insurges (Paris,1956), Un beau dimanche de septembre (L’Avant - Scène n. 214, 15 febbraio 1960), Crime on goat island (San Francisco, 1961), Three plays on justice (Landslide, Struggle till down, The fugitive, San Francisco, 1964), Three plays (The inquiry, Goat Island, The gambler, New York, 1966), Two plays by Ugo Betti (Manchester, 1965, introduzione di G.H. McWilliam).
FONTI E BIBL.: Si vedano le principali raccolte di cronache drammatiche: M. Praga (Emmepi), Cronache teatrali, 1927, Milano, 1928, 109-118, 1928, Milano, 1929, 235-239; R. Simoni, Trent’anni di cronaca drammatica, III, Torino, 1955, 37-38, 171-172, IV, 1958, 478, 584-585, V, 1960, 49, 94-95, 125-126, 168-169, 198-199; E. Ferrieri, Novità di teatro, Torino, 1952, 168-174; S. D’Amico, Palcoscenico del dopoguerra, Torino, 1953, I, 231-234, 307-309, II, 13-17, 73-76, 134-137, 140-143, 184-186, 209-213, 236-239, 287-289, 300-302; Rinascita del Dramma Sacro, San Miniato, 1955, 160-161; M. Dursi, Cinque festival di prosa, Bologna, 1956, 90-101, 107-110, 242-246, 291-295; S. Quasimodo, Scritti sul teatro, Milano, 1961, 129-130, 143-145; E. Possenti, Dieci anni di teatro, Milano, 1964, 78-80, 142-144, 197-199; G. Lanza, Teatro dopo la guerra, Milano, 1964, 59-68; L. Repaci, Teatro di ogni tempo, Milano, 1967, 391, 674, 814, 850, 887. Tra i molti scritti sul Betti si rimanda a quelli che possono essere di maggiore utilità e a cui occorre rifarsi per trovare più ampie notizie bibliografiche: F. Vegliani, Saggio su Ugo Betti, in Quaderni di Termini n. 2, gennaio-febbraio 1937; E. De Michelis, La poesia di Ugo Betti, Firenze, s.d. [ma 1937]; A.G. Bragaglia, Replica di Anton Giulio Bragaglia al Don Sturzo del teatro italiano, bozze di stampa (pubblicato con qualche parte mancante in Film del 31 maggio 1941; il testo polemico del Bragaglia fu messo in circolazione nella sua versione integrale a opera dello stesso autore. In esso si polemizza con S. D’Amico, il Don Sturzo del teatro italiano, e si indica nel Betti uno dei suoi protetti); E. Barbetti, Il teatro di Ugo Betti, Firenze, 1943; A. Nicoll, World Drama, London, 1949, 787-789; N. D’Aloisio, Ugo Betti, Roma, 1952; E. Betti, Notazioni autobiografiche, Padova, 1953 (Emilio è il fratello maggiore del Betti e di lui vengono riportate alcune notizie di interesse biografico); A. Fiocco, Ugo Betti, Roma, 1954; L. Portier, Ugo Betti. Teatro, in Revue des Etudes Italiennes luglio-dicembre 1955; B. Molossi, Dizionario biografico, 1957, 28-29; F. Cologni, Ugo Betti, Bologna, 1960; G. Pullini, Cinquant’anni di teatro in Italia, Bologna, 1960, 56-59, 85-96; A. Fiocco, Teatro universale dal Naturalismo ai giorni nostri, Bologna, 1963, 235-244; J.G. Zamora, Historia del teatro contemporaneo, II, Barcelona, 1961, XXXV, 260-282; G. Rizzo, Regression-progression in Ugo Betti’s drama, in Tulane Drama Review, vol. 8, n. 1 1963; G. Pellecchia, Saggio sul teatro di Ugo Betti, Napoli, 1963; Ugo Betti: Testimonianze, Quaderni Teatro stabile della città di Torino, II, Torino, 1965; G.H. McWilliam, The minor plays of Ugo Betti, in Italian Studies XX 1965; A. Di Pietro, L’opera di Ugo Betti, I, Bari, 1966, (utile specialmente per le notizie biografiche e il riordinamento cronologico degli scritti); F. Taviani, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 727.

BETTIA CHRYSIS

Parma II secolo d.C.
Di condizione presumibilmente libertina, madre di L. Umbricius Secundus, morto a diciotto anni e nove mesi, cui dedicò un’epigrafe, per i caratteri paleografici (forma delle lettere, ductus, formula D.M., punteggiatura a triangoli) databile alla media età imperiale, ritrovata al limite occidentale della città di Parma. Il nomen Bettius, presente a Parma per altri due personaggi, è ampiamente documentato nella Cisalpina nella forma Vettius, in parte exemplorum i.q. Vettius. La gens Vettia, già nota al tempo delle guerre civili, conservò il proprio prestigio e la propria autorità anche in periodo imperiale. Chrysis è cognomen grecanico diffuso dappertuttto, soprattutto per i liberti. Poco documentato in Cisalpina, è presente a Parma in due casi.
FONTI E BIBL.: M.G. Arrigoni, Parmenses, 1986, 62.

BETTIA EUTYCHIA
Parma I secolo a.C./V secolo d.C.
Fu probabilmente liberta della gens Bettia, dedicataria, insieme al figlio P. Bettius Firminus, di un’epigrafe, perduta, posta dal marito Heraclida. Eutychia è nome grecanico molto diffuso, soprattutto tra i liberti. Raro in Cispadana, si rileva con una certa frequenza nelle regioni transpadane.
FONTI E BIBL.: M.G. Arrigoni, Parmenses, 1986, 63.

BETTIUS PUBLIUS FIRMINUS 
Parma I secolo a.C./V secolo d.C.
Dedicatario, insieme alla madre Bettia Eutychia, di un’epigrafe, perduta, posta dal padre Heraclida, per la presenza della formula D.M. databile a età imperiale. Il nomen Bettius, presente a Parma anche in un’altra epigrafe, è ampiamente documentato in tutta la Cisalpina nella forma Vettius, sostanzialmente corrispondente. La gens Vettia, documentata dappertutto, si presenta tuttavia con una notevole frequenza nella regio VIII, dove conservò prestigio e prosperità dal tempo delle guerre civili a quello imperiale. Non si esclude tuttavia che il nomen Bettius possa corrispondere alla forma Bittius (Plin., Ep. VI, 12). In tal caso (secondo il Chilver, p. 102) si tratterebbe di un nome sicuramente celtico testimoniante una famiglia nativa giunta a una certa importanza. Firminus è cognomen comune, molto diffuso, specialmente nell’Italia settentrionale. P. Bettius Firminus, morto a un anno e undici mesi di età, porta il nome della madre, forse liberta di un Bettius (ipotizzabile che anche il bambino fosse liberto dello stesso personaggio). Il nome del padre, invece, denuncia condizione schiavile.
FONTI E BIBL.: M.G. Arrigoni, Parmeses, 1986, 64.

BETTINI ORAZIO 
Parma 1590
Fu soprano della Cattedrale di Parma nell’anno 1590.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Storia della musica in Parma, 1936.

BETTOLI ANTONIO 
Parma 17 giugno 1762-1789
Nacque da Pietro Ilarione e da Margherita Guarnieri. A soli sedici anni ricevette la nomina a capo sovrastante aggiunto con l’incarico di sostituire in caso di assenza il padre, il quale aveva ricevuto la nomina nello stesso anno. Nell’anno 1782 il Bettoli diresse i lavori di riparazione al monastero di Santa Caterina di Parma (Archivio di Stato di Parma, Santa Caterina, filza XXX, Cancell., F. n. 39, 10 dicembre 1782). Nel 1784 presentò al concorso dell’Accademia di Belle Arti di Parma un disegno di una biblioteca pubblica che venne molto lodato. Nello stesso anno le monache benedettine gli affidarono il rifacimento della facciata della chiesa di Sant’Alessandro (Donati). Tale costruzione di carattere neoclassico incontrò il favore delle monache di San Paolo che gli commissionarono la facciata della chiesa di San Ludovico (Bertoluzzi, p. 144). Nel 1786 morì sua moglie Giulia Cervetta.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI ANTONIO MARIA 
Parma 1733/1777
Secondo il Donati, fu fratello di Carlo. Di lui si conserva una perizia del 29 ottobre 1733 (Archivio di Stato di Parma, sezione IV, serie LX, Raccolta autografi, 4393). Nel 1739 fu testimonio alle nozze di Giovanni Battista Bettoli e Lucia Lucci. Il Bettoli diede il disegno per l’ampliamento della chiesa delle monache teresiane (eseguito da Ottavio Bettoli) e, secondo lo Scarabelli Zunti, in documenti relativi a questo lavoro viene definito architetto del marchese Alessandro Pallavicini di Roma. Nel 1754 fu finita, su disegno di A. Dalla Nave, la chiesa di San Rocco in Parma: secondo il Donati (p. 103) il Bettoli vi lavorò col fratello Carlo. In una lista dei maestri muratori e garzoni che lavoravano al nuovo campanile del 9 maggio 1757 (Scarabelli Zunti, ms. 106) il Bettoli figura come capomastro. Il 17 gennaio 1769 firmò una supplica per servire la comunità di Parma come capomastro muratore e nello stesso anno ricevette lavori e appalti. Nel 1777 partecipò a una seduta dei capimastri muratori della chiesa collegiata parrocchiale di San Pietro (Archivio di Stato di Parma, sezione I, serie XIV, Congregazione degli edili).
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI ANTONIO UBERTO 
Parma 3 novembre 1766-17 ottobre 1855
Figlio dell’architetto Carlo, di Cristoforo. Fu dottore in medicina e in filosofia e latinista, del quale, nel catalogo della Biblioteca Palatina di Parma, figurano numerosi opuscoli medici, orazioni funebri, inscriptiones, carmina, ecc., che vennero pubblicati tra il 1792 e il 1844. Fu consigliere e segretario del Protomedicato di Parma.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762; F. da Mareto, Bibliografia, I, 1973, 74.

BETTOLI CARLO Parma 1719/1769
Potrebbe essere quello sostituito da Cristoforo Bettoli nel 1719 alla Steccata di Parma, che ricompare nell’archivio della stessa chiesa nel 1733 (13 aprile), quando chiede l’approvazione dei suoi conti. Nello stesso anno firmò la perizia di una casa e insieme con Paolo Bettoli fu operoso al chiostro e alla chiesa dei serviti (ricevute del 1738-1740, cfr. Scarabelli Zunti). Nel 1769 vinse un appalto per lavori di riattamento alle case Pij e Magavoli (Archivio di Stato di Parma, sezione I, serie XIV, Congregazione degli edili).
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI CARLO 
Parma ante 1778-1822/1827
Presentò nel 1778 un disegno al concorso dell’Accademia di Belle Arti di Parma ma, pur essendo definito valoroso giovane, non vinse alcun premio. Egli è probabilmente lo stesso Carlo, di Giuseppe, che nel 1784 chiese di essere assunto come capomastro della Steccata di Parma in sostituzione del fratello Francesco divenuto di mente scemo (notizia, senza indicazione del nome del fratello nell’Archivio della Steccata, ad annum), che risulta capomastro nel 1775 e 1777. Il Bettoli l’8 dicembre 1786 fu eletto cancelliere della Congregazione degli edili e conservò tale carica nel 1789 (Archivio di Stato di Parma, sezione I, serie XIV). Nel 1786 fu eseguita (Bertoluzzi; Scarabelli Zunti) la facciata della chiesa di San Tommaso su suo disegno. Nel 1787 egli è definito muratore e architetto dell’Ordine Costantiniano (Archivio della Steccata, 8 maggio 1787, lettera del marchese Caracciolo). Questo stesso Carlo è probabilmente il capomastro e perito della Steccata (nei cui archivi appare nel giugno e luglio 1816 e il 7 luglio 1821) che secondo il Testi dopo la bufera napoleonica provvide ai riattamenti e lavori di conservazione di dubbio gusto.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI CRISTOFORO
Parma 1676 c.-post 1732
Detto il Trivellino, nel 1711 fu operoso nella chiesa e nel convento dei teatini (Santa Cristina) di Parma. Dall’Archivio della Steccata si apprende che l’11 marzo 1719 egli fu richiesto come capomastro a sostituire Carlo Bettoli di Giuseppe. Avrebbe quindi lavorato alla torre di Guastalla, terminata nel 1732. Nell’Archivio del Battistero di Parma sono registrati come figli di Cristoforo di Giovanni Battista, che potrebbe essere il Trivellino, Maria, nata nel 1701, Giovanna Margherita Susanna, nata nel 1702, e Giuseppe, nato il 1o dicembre 1704, che probabilmente è il Giuseppe che fu capomastro della Steccata dal 1743 in poi.
FONTI E BIBL.: Fonte principale, dove sono riportati anche documenti originali, è il ms. del secolo XIX, conservato nella Galleria Nazionale di Parma di E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, VII, 1701-1750, 15, 17, 18, 19, 20, 21 e VIII, 1751-1800, 32, 33, 34, 36, 37 e passim; ma sono stati consultati, a Parma, anche l’Archivio del Battistero, i Registri degli Atti di Morte del Comune, l’Archivio della Steccata; P. Donati, Nuova descrizione di Parma, Parma, 1824, 22, 55, 74, 75, 103, 164; G. Bertoluzzi, Nuovissima guida, Parma, 1830, 2, 144, 170, 179; L. Testi, Santa Maria della Steccata, Firenze, 1922, ad Indicem; A. Ghidiglia Quintavalle, La chiesa di San Pietro Apostolo a Parma nella storia e nell’arte, Parma, 1948, 24, 25, 40; G. Allegri Tassoni, Mostra dell’Accademia (catalogo), Parma, 1952, ad Indicem; U. Thieme-F. Becker, Künstler-Lexikon, III, 547 s.; Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI CRISTOFORO 

Parma 1748-Parma 2 maggio 1811
Figlio di Artemio. Secondo il Testi, avrebbe rifatto la volta della crociera meridionale del Duomo di Parma. Dall’Archivio di Stato di Parma (sezione I, serie XIV, Congregazione degli edili) risulta che il 14 aprile 1769 concorse tra gli altri per i lavori di riattamento delle case Pij e Magavoli. Nell’Archivio dell’Accademia di Belle Arti si conserva un disegno rappresentante un albergo reale col quale il Bettoli vinse il primo premio di architettura nel concorso dell’Accademia del 1774 (10 luglio). Sempre dai documenti della Congregazione degli edili risulta tra i capimastri muratori della chiesa collegiata di San Pietro che parteciparono alla seduta del 20 luglio 1777. Nel 1780 fu nominato capomastro delle reali fabbriche (Scarabelli Zunti). In un’altra seduta (8 dicembre 1786) della Congregazione degli edili il Bettoli venne eletto infermiere. Nel 1787 è qualificato anziano dei muratori di Parma e nel 1789 primo compagno. Dall’Archivio di Stato di Parma (sezione IV, serie LX, Raccolta autografi, 4395) risulta che il Bettoli, architetto e capomastro, costruì la porta nuova e il 9 luglio 1810 presentò una nota spese (perizia il 28 luglio dello stesso anno). Il Donati (p. 74) attribuisce al Bettoli la porta di Sant’Uldarico (che è appunto la porta nuova, poi demolita), ma Scarabelli Zunti sostiene che il disegno sia di Domenico Artusi. Dagli atti di morte dell’Archivio del Comune di Parma risulta che il Bettoli sposò una Paola (morta nel 1839), dalla quale ebbe numerosi figli, tra i quali Ottavio, Pietro e Giovanni Battista, che negli atti di morte o censimenti risultano anch’essi architetti.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI DOMENICO 

Parma ante 1734-Parma luglio 1766
Figlio di Pier Maria. Il 14 settembre 1734 firmò una perizia definendosi capomastro e perito in arte (Archivio di Stato di Parma, sezione IV, serie LX, Raccolta autografi, 4396) e ricevette un pagamento nel 1744 (14 luglio, cfr. Scarabelli Zunti) per la porta di San Lazzaro. Un Domenico Bettoli figura nel 1757 tra i garzoni e muratori del nuovo campanile della chiesa di San Rocco in Parma. Secondo lo Scarabelli Zunti morì nel luglio 1766, essendo capomastro muratore della Comunità di Parma. Certo morì prima dell’8 dicembre 1786, dato che la Congregazione degli edili (Archivio di Stato di Parma, sezione I, serie XIV) in quella data deliberò di concedere una pensione alla vedova Lucia Poma, dalla quale aveva avuto due figli, Cristoforo (battezzato il 15 aprile 1753) e Pietro (battezzato il 4 maggio 1755).
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI FRANCESCO
Parma 1863
Fu architetto. Secondo lo Scarabelli Zunti, nel 1863 fu accademico d’onore dell’Accademia di Belle Arti di Parma e nello stesso anno ebbe la medaglia di bronzo all’esposizione industriale di Parma per il disegno di un monumento e la pianta di una caserma per tremila uomini (ma il catalogo ufficiale, a p. 94 del quale lo Scarabelli Zunti prese la notizia, è introvabile).
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI GIACOMO 

Parma 4 luglio 1784-post 1833
Figlio di Luigi. Fu capomastro della Steccata di Parma nel 1823 (Archivio della Steccata, 8 maggio 1823) e suo fratello Nicola, il personaggio più illustre della famiglia, appoggiò in una lettera del 31 gennaio 1833 (Archivio della Steccata) la sua nomina come capomastro in sostituzione del cugino Carlo Bettoli, che era defunto, sostituzione che il Bettoli aveva già chiesto il 1° dicembre 1827.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI GIACOMO 

Noceto 21 agosto 1880-Milano 22 novembre 1971
Fu allievo diligente e capace del Seminario di Parma in cui maturò la vocazione al sacerdozio, senza rinunciare alla passione spiccata per le arti belle. Ordinato sacerdote il 29 giugno 1904, svolse un dinamico ministero come coadiutore e poi come arciprete di Palanzano per diciotto anni, fino al 1925. A Palanzano il Bettoli dimostrò la sua naturale attrattiva per le arti nella progettazione e costruzione di grandi opere a servizio della comunità parrocchiale e promuovendo organismi che fossero strumenti di elevazione sociale e morale per gli agricoltori, per i poveri e per la gioventù. Il Bettoli, fedele ai principi cristiano sociali, costituì l’Unione Agricola e la Cooperativa del Lavoro, rese possibile l’estensione della luce elettrica in tutte le frazioni del Comune tramite l’installazione presso il Mulino di Caneto di due generatori di corrente, organizzò a Isola una segheria elettrica e potenziò il Piccolo Credito di Palanzano, istituto di credito locale che contava depositi per un ammontare di 3000 lire. Quella tuttavia che può essere considerata l’opera più importante della sua fertile azione fu la creazione del Convitto San Giuseppe, con annesso un laboratorio femminile per le giovani della zona, al fine di offrire loro la possibilità di lavorare in loco, evitando così il trasferimento in città. Il Bettoli inoltre aprì e avviò l’asilo parrocchiale. Durante la guerra 1915-1918 si profuse senza risparmio per mantenere i contatti tra le famiglie e i soldati al fronte. Nonostante tale frenetica attività, riuscì a rivolgere la sua attenzione anche agli studi prediletti dell’arte conseguendo la laurea in architettura. Nel Seminario di Parma prima, come studente, poi nella tranquillità di Palanzano, come parroco, approfondì i più noti testi di spiritualità, di patristica e di simbologismo artistico-religioso. Trapiantato a Milano, il Bettoli diresse lavori, stimolò energie, difese valori, portando la sua scuola e la sua famiglia religiosa a una nobile affermazione nel campo dell’arte sacra, per la quale il suo interesse fu costante e originale. Nel 1925 il cardinale Andrea Ferrari, arcivescovo di Milano, lo volle come insegnante presso la scuola del Beato Angelico. Alla morte di monsignor Giuseppe Polvara, fondatore della scuola, il Bettoli venne nominato direttore e superiore della famiglia religiosa omonima. Responsabile del periodico Rivista di Arte Cristiana (1950-1964) fu, dal 1930 al 1937, professore di storia dell’arte presso il Seminario di Milano e di liturgia presso l’Accademia di Brera. Con il titolo di architetto realizzò, assieme ad altri professionisti, decine di centri pastorali sia in Italia che all’estero. A Palanzano la sua opera è testimoniata principalmente da palazzo del Municipio e dall’immobile sede dell’asilo infantile. Inoltre il Bettoli collaborò, con grande finezza al bollettino dell’associazione degli Amici dell’arte cristiana, rivista bimestrale per la cultura e la formazione estetica dell’anima. Pubblicò diversi studi sull’arte liturgica, collaborando con molte riviste per la formazione artistica del clero. Tenne lezioni e settimane di studio in molti seminari diocesani e interregionali. Membro di molte commissioni, ricercato e apprezzato critico d’arte in Italia e fuori, può essere ritenuto un antesignano e anticipatore di certe pagine del Concilio Vaticano II, là dove, nella costituzione liturgica, si dice che la Chiesa ricerca il nobile servizio delle arti liberali affinché le cose appartenenti al culto sacro splendano veramente per dignità, decoro e bellezza, segni e simboli delle realtà soprannaturali.
FONTI E BIBL.: P. Triani, È morto monsignor Bettoli, sacerdote architetto, in Gazzetta di Parma 24 novembre 1971, 8; Commemorazione, in Vita Nuova 27 novembre 1971, 7; F. da Mareto, Bibliografia, II, 1974, 109; A. Maggiali, in Gazzetta di Parma 21 novembre 1981, 3; Valli Cavalieri 15 1997, 31-32.

BETTOLI GIOVANNI BATTISTA Parma 1714 c.-post 1781
Figlio di Angelo Francesco, si sposò nel 1739 con Lucia Lucci (Luzzi). Con Ottavio Bettoli firmò una ricevuta per lavori alla chiesa di San Pietro del Collegio di San Girolamo il 24 dicembre 1760. Secondo la guida del Touring Club Italiano (Emilia e Romagna, Milano, 1957, p. 320) la chiesa di Sant’Antonio Abate in Parma, iniziata nel 1712 su disegno di Ferdinando Bibiena, fu compiuta nel 1766 con una cupola a doppia volta ideata dal Bettoli. Il 20 luglio 1777 il Bettoli figura tra i capimastri muratori della chiesa collegiata parrocchiale di San Pietro in Parma insieme con altri Bettoli, tra i quali un Francesco che, essendo qualificato anziano, si può pensare sia Angelo Francesco, padre del Bettoli e probabilmente anche di Ottavio. Nell’Archivio di Stato di Parma (Rescritti, 20 settembre 1781) è conservata una lettera dalla quale risulta che il Bettoli fece il disegno e la stima di una casa posta in Sissa e acquistata dalla reale ducale camera, disegno attualmente introvabile. Da Lucia Lucci ebbe vari figli, tra i quali Giuseppe, Cristoforo, Alessandro e Pietro.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI GIOVANNI BATTISTA 
Parma 30 dicembre 1794-Parma 1816
Figlio di Cristoforo e Paola Bettoli. Fu architetto come il padre.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI GIUSEPPE
Parma 1 dicembre 1704-post 1762
Figlio di Cristoforo. Fu capomastro alla Steccata di Parma negli anni 1743, 1757, 1759, 1761 e 1762 (Archivio della Steccata e Testi, 1922). Il Bettoli compare nella lista degli operai attivi al campanile di San Rocco in Parma nel 1757.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI GIUSEPPE Parma 12 luglio 1740-post 1774
Figlio di Giovanni Battista. Allievo della scuola di disegno di G. Baldrighi, fu premiato dall’Accademia di Belle Arti di Parma nel 1764 per un Sdisegno di nudo. Nel 1767 fu escluso dal premio Fiori dell’Accademia Clementina di Bologna per l’architettura e quadratura (cfr. Atti dell’Accademia Clementina, 1767, c. 63). Nel 1772, insieme con Pietro Martini, si recò a Parigi essendo reale miniatore. Nel 1774 fu nominato miniaturista e disegnatore del Regio servizio (Archivio di Stato di Parma, Rescritti, 2 marzo 1774) e l’anno seguente fu acclamato accademico d’onore dell’Accademia di Parma.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI LINO 
Parma 30 agosto 1845-Parma 1915
Figlio di Luigi e Clementina Porta. Sottotenente d’artiglieria nel 1865, fu insegnante presso la Scuola di Tiro di Fanteria e incaricato dell’insegnamento delle matematiche al corso preparatorio per la Scuola di Guerra. Ebbe da tenente colonnello la carica di direttore d’artiglieria di Verona e il comando del 14o Reggimento Artiglieria e, promosso colonnello (1899), comandò l’8o Reggimento Artiglieria da campagna. Collocato in posizione ausiliaria nel 1903, raggiunse nel 1911 il grado di maggiore generale nella riserva.
FONTI E BIBL.: Enciclopedia Militare, II, 1925, 235.

BETTOLI LUIGI
Parma 1777/1789
Compare nel 1777 in una seduta della Congregazione degli edili di Parma. In quella dell’8 dicembre 1786 egli fu eletto anziano e lo fu ancora nel 1789 (Archivio di Stato di Parma, sezione I, serie XIV, Congregazione degli edili). Non si sa nulla della sua attività.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI LUIGI 
Parma 29 marzo 1820-Parma 10 marzo 1874
 
Figlio di Nicolò, ne continuò l’attività. Fu accademico d’onore dell’Accademia di Belle Arti di Parma e architetto del patrimonio dello Stato. Fece parecchi progetti tra cui l’ampliamento dell’accesso dalla via Emilia alla piazza della Ghiaia e il restauro della ex chiesa gotica di San Francesco in Parma che venne condotto a termine dopo la sua morte (E. Casa, Chiesa di San Francesco, in Gazzetta di Parma, 26 marzo 1883). All’esposizione industriale del 1869 fu premiato con medaglia di bronzo per un progetto di facciata e per la pianta di uno stabilimento per bagni. Rifece la facciata del palazzo adibito a sede della Corte d’Appello di Parma.

FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 765.

BETTOLI LUIGI Parma 1911-Parma 26 marzo 1998
Il padre, Ettore, fu comandante dell’Assistenza Pubblica di Parma e uno dei primi sostenitori della benemerita istituzione. Negli anni Trenta il Bettoli conseguì al Conservatorio di Parma il diploma di contrabbasso. Poi, però, con l’avventura coloniale del fascismo, intraprese la carrriera di ufficiale di complemento dopo aver frequentato il corso ufficiali a Palermo. Da lì iniziò la sua attività militare in Africa Orientale con il grado di sottotenente a Massaua, dove sbarcò il 2 maggio 1935, integrato nel XVII Battaglione Coloniale. Sempre in quell’area dell’Africa Orientale italiana tornò con il precipitare degli eventi bellici, alla IX Brigata Coloniale prima e alla XXI Divisione Coloniale poi. Al comando del gruppo divisionale, nel 1941, con il ruolo di ufficiale in servizio permanente effettivo, combatté a Gimma, Galla e Sidamo. Finché, il 21 giugno 1941, fu fatto prigioniero. Ebbe una medaglia di bronzo e due croci di guerra per diversi episodi di valore: tra gli altri, si impegnò con il XII Battaglione Eritrei per salvare dall’accerchiamento di 4000 abissini l’80a Legione. Dal 1941 al 4 ottobre 1946 fu prigioniero in Kenia e con gli alti ufficiali più volte incontrò il duca Amedeo d’Aosta, anch’egli prigioniero e che morì durante la detenzione in campo di concentramento. Nel secondo dopoguerra ebbe incarichi al Distretto di Parma e di Piacenza, al VI Reggimento di Fanteria a Modena e alla Scuola di Fanteria di Cesano, andando in pensione come colonnello a disposizione. Per anzianità di servizio divenne poi generale di divisione.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 30 marzo 1998, 8

BETTOLI NICOLA, vedi BETTOLI NICOLÒ

BETTOLI NICOLO'
Parma 3 settembre 1780-Parma 16 luglio 1854
Figlio di Luigi e di Luigia Salati, fu il più illustre esponente di una famiglia di artisti. Sebbene non avesse potuto frequentare corsi regolari all’Accademia di Belle Arti di Parma, che era stata chiusa per gli eventi bellici nel 1795, partecipò nel 1805 a un concorso di architettura bandito dalla stessa Accademia e vinse il secondo premio per un vasto e comodo albergo dei poveri. Più che a Domenico Artusi, il modesto maestro che, secondo la tradizione (G.B. Janelli), lo avrebbe educato all’arte, certo egli guardò come modello ispiratore a E. Petitot, venuto a lavorare alla Corte di Ferdinando di Borbone, e, secondo la moda dei tempi, ricercò, con entusiasmo archeologico, non riferimenti generali ai modelli antichi ma una conoscenza esatta di quei modelli (L. Benevolo, Considerazioni sull’architettura neoclassica, in Quaderni di storia dell’architettura, XXX-XLVIII, Roma, 1961, p. 293). Le prime opere rimaste del Bettoli sono un progetto per un Edifizio trionfale consacrato all’imprese dell’imperatore Napoleone (1811, inciso da A. Gaiani, Parma, raccolta G. Lombardi, ripreso in Allegri Tassoni, 1954) e il progetto di rifacimento dell’Arco di San Lazzaro (Parma, raccolta Lombardi). L’anno dopo disegnò il progetto per il teatro di Borgo San Donnino, compiuto quarant’anni dopo la sua morte, poi demolito (nell’Archivio Comunale di Borgo San Donnino esiste un disegno probabilmente del Bettoli). Il 7 ottobre 1814 fu nominato consigliere con voto dell’Accademia di Belle Arti di Parma in seguito a una richiesta corroborata da disegni e progetti, tra i quali quello di un teatro (disperso). Subito (11 ottobre), secondo le prescrizioni dell’Accademia stessa, promise un progetto completo pienamente opposto e diverso in tutte le sue parti dalla già data idea d’un teatro moderno (Allegri Tassoni, 1954, p. 156) e nel 1816 pubblicò le Osservazioni su l’arte dell’Architetto in occasione di due opere architettoniche depositate nell’Accademia di Parma. Nonostante il tentativo di qualche suo rivale che, con lettera anonima (E. Scarabelli Zunti, IX, riportata anche in Copertini, 1955), cercò di denigrare la sua opera, nell’Accademia Parmense ricostruita da Maria Luigia d’Austria venne assegnata al Bettoli (maggio 1816) la cattedra di statica e quindi egli fu nominato primo architetto di Corte. Si può dire che tutta l’architettura parmense della prima metà del secolo è improntata alla sua opera. Tra le prime e più intense mansioni fu il restauro e il ripristino dei monumenti: il Teatro Farnese, la Camera di San Paolo, Santa Maria del Quartiere. Ampliò inoltre le scuole dell’Accademia (1821-1823). Per l’inaugurazione della nuova sede, il Bettoli presentò il suo libro, Introduzione al corso d’architettura civile (Parma, 1823), in cui spiega il nuovo filone neoclassico di aderenza culturale, oltre che di sensibilità, ai modelli antichi. Nel 1821, riunendo all’antica galleria il piccolo teatro di corte, progettò, insieme con P. Toschi, una nuova grande galleria per ospitare, con la Pinacoteca Borbonica tornata da Parigi, i nuovi acquisti di Maria Luigia e, nella rotonda, i due colossi di basalto che, dagli Orti farnesiani sul Palatino, erano passati al giardino di Colorno. Il progetto venne eseguito tra il 1821 e il 1825 e un nuovo ampliamento fu progettato dal Bettoli e da Toschi nel 1835. Nel 1825 fu pubblicata a Parma un’opera dedicata all’Imperatore d’Austria, le cui 18 tavole furono disegnate dal Bettoli: I principali monumenti innalzati da Sua Maestà Maria Luigia arciduchessa d’Austria, Duchessa di Parma, Piacenza e Guastalla. Nei primi anni del terzo decennio egli ammodernò il Casino dei Boschi di Sala Baganza e progettò la villa La pellegrina per l’impresario Rosazza. Ma l’opera più importante di questi anni fu la costruzione del nuovo teatro: né il secentesco Farnese, né il vecchio Ducale potevano ormai rispondere alle esigenze dei tempi. Iniziato nel 1821, fu compiuto, nell’architettura, nel 1827 e inaugurato, completo di decorazioni, il 16 maggio 1829 con la Zaira del Bellini, alla presenza della Duchessa di Parma e dei duchi di Modena. La costruzione, ove all’esterno si notano derivazioni da strutture classiche e rinascimentali, è all’interno modernissima e armoniosa in ogni sua parte. Interessante la soluzione dei due cavalcavia colleganti il teatro rispettivamente al palazzo ducale e a costruzioni a uso del teatro stesso. Ancora per la duchessa Maria Luigia il Bettoli ricostruì ex novo (1833) l’antica residenza ducale (distrutta nella seconda guerra mondiale), sia all’interno (atrio, cortile, scalone, scale secondarie, magnifiche sale da pranzo e da ballo curate in ogni particolare) sia nella bellissima facciata. Progettò inoltre il grandioso salone della Biblioteca Palatina (1834) e la biblioteca privata (1838-1839), un piccolo gioiello, distrutto anch’esso nella seconda guerra mondiale. Con l’aiuto di Paolo Gazzola, che già era stato suo collaboratore a Parma, il Bettoli riadattò (1836-1837) il palazzo ducale di Colorno ed eresse negli stessi anni nella Ghiaia le Beccherie (distrutte nel 1928): una delle più pregevoli costruzioni neoclassiche della regione. Nel 1836-1847 completò l’antico palazzo Lalatta, ove riunì al collegio fondato da monsignor Lalatta quello dei Nobili, formandovi così un nuovo istituto, che prese il nome dalla Duchessa regnante, a cui aggiunse un vasto cortile e nuove ali, mentre ricostruì la facciata neoclassica. Progettò anche (1837) il tempietto del Petrarca elevato nel 1839 in Selvapiana (Copertini, 1955, p. 17), restaurò il Palazzo del giardino e, infine, progettò (1844) la nuova Università degli Studi, poi adibita a sede della corte d’appello (l’attuale facciata è del figlio Luigi). Tra le numerose altre opere del Bettoli, vanno ricordati il progetto per l’amministrazione della dogana (1851), poi non eseguita, e il nuovo ingresso per la Camera di San Paolo, riflettente motivi correggeschi e neoclassici. Il Bettoli morì dopo più di un anno di inattività per malattia. Fu sepolto, nel cimitero, nel recinto dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio, mentre un ricordo marmoreo col suo profilo è conservato nella chiesa di San Giovanni. La sua importanza come architetto va molto al di là delle opere che di lui rimangono, ben poche in confronto a quelle eseguite, in quanto le rovine belliche e, più ancora, la smania del nuovo, si accanirono particolarmente sugli edifici da lui costruiti. Alla sua attività di architetto egli prodigò ogni suo pensiero, ansioso di dare a Parma un volto omogeneo, caratterizzato da una classica lineare semplicità, non scevro però di alleanze di stampo francese, memore del Petitot e ravvivato dal caldo colore dell’intonaco giallo ocra delle facciate, che non discordava dal cotto caro ai Farnese. Il Bettoli sposò Geltrude Cocconcelli.
FONTI E BIBL.: Parma, Galleria Nazionale, E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, IX, 1801-1850, 54-59; P. Donati, Nuova descrizione di Parma, Parma, 1824, 158-160; G.B. Nicolosi, Il Nuovo Teatro di Parma rappresentato con tavole intagliate nello studio di P. Toschi, Parma, 1829 (in 8 tavv.); [A. Ronchini], Monumenti e munificenze di Sua Maestà la Principessa Imperiale Maria Luigia, Parigi, 1846; Ristaurazione e riabbellimento del teatro reale di Parma eseguiti nell’anno 1853, Parma, 1853; G.B. Nicolosi, Opuscoli, Parma, 1859, 23; G.B. Janelli, Dizionario biografico dei Parmigiani illustri, Genova, 1877, 56; H. Bédarida, Parme et la France, Paris, 1928, 514; C. Alcari, Il Teatro Regio di Parma nella sua storia dal 1883 al 1929, Parma, 1929; G. Copertini, Nicolò Bettoli architetto teatrale, in Parma per l’Arte IV 1954, 119-122, V, 1955, 3-20 (18-20 elenco dele opere sicure e probabili e bibliografia); G. Allegri Tassoni, Nel centenario della morte di Nicolò Bettoli, in Aurea Parma XXXVIII 1954, 141-158; G. Canali, Il “civile” Bettoli, in Dai ponti di Parma, Bologna, 1965, 216-218; U. Thieme-F. Becker, Künstler-Lexikon, III, 548; Enciclopedia Italiana, VI, 835; A. Ghidiglia Quintavalle, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 765.

BETTOLI OTTAVIO 
Parma prima metà del XVI secolo
Pittore operante nella prima metà del XVI secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, III, 58.

BETTOLI OTTAVIO 
Parma 1739/1769
Probabilmente figlio di Angelo Francesco, si firmava detto Trivelini, rivelando quindi una discendenza da Cristoforo. Nel 1739 diresse i lavori di ampliamento della chiesa delle teresiane in Parma su disegno di Antonio Maria Bettoli: sorsero questioni con le suore e il Bettoli scelse come perito della sua parte Adalberto Dalla Nave. Con Giovanni Battista Bettoli, di cui era probabilmente fratello, firmò una ricevuta per lavori alla chiesa di San Pietro del Collegio di San Girolamo il 24 dicembre 1760. Nel 1764 firmò una ricevuta per le monache di Sant’Antonio Abate e nel 1766 una perizia per il padre inquisitore (Scarabelli Zunti). Diede il disegno della chiesa parrocchiale della villa dei Tre Casali, alla cui esecuzione sovrintese Giovanni Battista Bettoli: i lavori furono iniziati nel 1740 e compiuti nel 1766-1767. L’11 aprile 1769 concorse a un appalto (Archivio di Stato di Parma, sezione I, serie XIV, Congregazione degli edili).
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI OTTAVIO 
Parma 8 ottobre 1784-Parma 1812
Figlio di Cristoforo e Paola Bettoli. Fu architetto come il padre.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI PAOLO
 
Parma 1733/1740  Assieme a Carlo Bettoli, fu operoso nel 1733 al chiostro e alla chiesa dei serviti in Parma (ricevute del 1738-1740, cfr. Scarabelli Zunti).

FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI  PAOLO 
Collecchio 1916-Mediterraneo centrale 8 febbraio 1941
Figlio di Cornelio. Fu aviere scelto, 1° armiere. Fu decorato con una medaglia d’argento e una medaglia di bronzo al valore militare con, rispettivamente, le seguenti motivazioni: Volontario in missione di guerra per l’affermazione degli ideali fascisti, armiere-mitragliere di apparecchio da bombardamento, partecipava a numerosissime azioni belliche, dimostrando in ogni circostanza sprezzo del pericolo e valore (Cielo di Spagna, maggio-novembre 1938); Specialista armiere di velivolo da bombardamento partecipava a numerose azioni belliche su lontane e munite basi nemiche, dando ripetute prove di sprezzo del pericolo e di coraggio. In scontri aerei contro formazioni avversarie contribuiva all’abbattimento di quattro velivoli nemici. Da una azione che coronava la sua brillante attività di combattente, non faceva ritorno alla base (Cielo del Mediterraneo centrale, 8 febbraio 1941).
FONTI E BIBL.: Bollettino Ufficiale, A.M. 1951, Disposizione 2a, 97; Decorati al valore, 1964, 33.

BETTOLI PARMENIO 

Parma 13 gennaio 1835-Bergamo 16 marzo 1907
Nacque da Carlo, impiegato, e da Clementina Dall’Argine. Fece studi disordinati ma venne ben presto attratto dal teatro e dal giornalismo. Esordì il 4 dicembre 1852 con Il falsario e il traditore, ovvero Le cambiali e il carteggio, dramma in tre atti (Parma, Teatro Regio: rappresentato da C. Caracciolo). Il 10 marzo 1865 gli riuscì di far rappresentare da E. Rossi, al Teatro Gerbino di Torino, Il Boccaccio a Napoli, cinque atti in versi, presto abbandonato, nonostante costituisca un discreto studio d’ambiente. Il 15 marzo 1869 C. Vitaliani recitò al vecchio Teatro Re di Milano L’emancipazione della donna, ambientata nell’Alabama, interessante satira del femminismo e della moda progressista. Da questa commedia s’intravede quella che fu una costante del teatro bettoliano: un moralismo sano ma un po’ ristretto, che trae sapore da un appassionato attaccamento ai valori della tradizione e volge in burla, spesso gustosa, tutto ciò che a esso contrasta. Al Teatro delle Logge di Firenze il 22 marzo successivo andò in scena la commedia in tre atti Un gerente responsabile, satira della retorica giornalistica, felicemente interpretata dalla Compagnia di L. Bellotti-Bon e che ebbe fortuna per le discussioni suscitate intorno all’opportunità di una revisione dell’editto albertino sulla stampa. Il 2 novembre dello stesso anno, sempre al Teatro delle Logge e con la medesima compagnia, andarono in scena i quattro atti delle Idee della signora Aubray, con cui il Bettoli volle dare un seguito alla commedia omonima di A. Dumas figlio. Nel 1870 la commedia Un pregiudizio, in quattro atti, fu giudicata una delle due migliori concorrenti al premio bandito dalla Società filodrammatica bresciana di beneficenza e d’incoraggiamento agli scrittori italiani. Furono quelli per il Bettoli anni d’intensa attività letteraria e giornalistica. Fu redattore e più tardi direttore della Gazzetta di Parma. Nel 1870 fondò, nella sua città natale, Il Nuovo Patriota, che durò poco più di un anno, e nel 1874 L’Elettore Politico. Stimolato dai successi del Nerone di P. Cossa, scrisse rapidamente il dramma Catilina, cinque atti in versi, riboccante di note illustrative, rappresentato al Gerbino dalla Compagnia del Bellotti-Bon il 9 ottobre 1872. Nel 1874 giocò un’ardita burla ai danni di un capocomico e di un bibliotecario. L’episodio è raccontato parzialmente in un opuscolo del Bettoli stesso, Storia della commedia L’egoista per progetto e di P.T. Barti (Milano, 1875). Irritato con il Bellotti-Bon che non gli rappresentava più le commedie, il Bettoli, preso il manoscritto di una sua commedia in tre atti, Il signor Prosdocimo, lo tradusse in linguaggio goldoniano. Sotto il falso nome di Pier Taddeo Barti, lo fece esaminare da un bibliotecario della Marciana di Venezia il quale non escluse che il manoscritto fosse di epoca goldoniana. Il Bettoli quindi lo vendette al Bellotti-Bon e la sera del 18 gennaio 1874 L’egoista per progetto fu rappresentato dalle sue tre compagnie al Teatro Valle di Roma, al Gerbino di Torino e al Nicolini di Firenze: nei primi due piacque e fu replicato, nel terzo gli spettatori fiorentini, subodorando l’inganno, ne accusarono il capocomico come autore. Critici e letterati si divisero: per la mistificazione si schierò, insieme con Yorick (L. Sterne), F. Martini, per l’autenticità si pronunciò, con V. Bersezio e G. Giacosa, P. Ferrari, il quale ammise, peraltro, che poteva anche trattarsi di un’opera dei comici goldoniani. L’egoista per progetto, nonostante gli editori Treves ne avessero acquistato i diritti, non fu mai pubblicato. Tra il 1874 e il 1875 il Bettoli pubblicò a Milano i suoi più importanti saggi come narratore: Il processo Duranti (finta relazione di L.T. Monti, notaio in Torino), dopo essere apparso in appendice al Corriere di Milano, ben congegnato e assai vivo nei particolari (anche stavolta ci fu chi credette a un processo vero), il racconto Giacomo Locampo, i romanzi storici La favorita del duca di Parma e La gobba della pesa del fieno, ispirati da cronache parmensi, e quella Carmelita, ambientata nel Tavoliere di Puglia, che è il suo racconto più fresco e che a Croce piacque ricordare come documento di vita regionale della seconda metà del secolo XIX. Nel 1875 il Bettoli pubblicò a Parma un dizionario biografico, I nostri fasti musicali. Appena fondato (marzo 1876) il Corriere della Sera, E. Torelli-Viollier chiamò da Parma il Bettoli con l’incarico di sbizzarrirsi in tutte le rubriche. Ma, per un incidente avuto con il Torelli-Viollier, la sua collaborazione fu ridotta alla rubrica musicale e dopo qualche mese egli lasciò Milano per riprendere la direzione della Gazzetta di Parma, dove scrisse, a getto continuo e con grande fecondità, sui più svariati argomenti, ma soprattutto su aneddoti teatrali. Il 16 marzo 1881 al Teatro Goldoni di Tripoli la Compagnia di G. Angeloni gli rappresentò La regina Ester ossia Il trionfo di Mardocheo, in cinque atti in versi. Fu l’ultimo successo teatrale del Bettoli, allora corrispondente dalla Libia, che si lasciò prendere dal gusto per un facile esotismo con le esili farse in un atto Un gorgonzolese a Tripoli e Un pizzicagnolo in Africa (tra le cose più serie di questa esperienza è la monografia Tripoli artistica e commerciale, Milano, 1912, interessante documento del pionierismo italiano in Libia). Il 7 ottobre 1883 fondò a Roma, con Telesforo Sarti, la Gazzetta Teatrale, cessata però il 23 marzo 1884, e, pure a Roma, nel 1885 pubblicò un Dizionario comico, contenente duecentosettantasette voci del gergo teatrale italiano. Nel 1886 scrisse, in collaborazione con E. Novelli, Sogno di un deputato, una bizzarria in tre parti, arieggiante la Niobe di Harry Paulton. Nel 1890 fu chiamato a dirigere la Gazzetta Provinciale di Bergamo, dalla quale uscì per contrasti con i proprietari, e fondò la Nuova Gazzetta, che visse stentatamente e terminò prima della sua morte. Nonostante fossero gli anni del declino, il Bettoli continuò instancabilmente a lavorare. Scrisse il libretto per l’opera-ballo in quattro atti Fausta, musicata da P. Bandini (Milano, 1886), che ebbe un discreto successo, e due opere diversissime per contenuto e finalità, pubblicate a Bergamo nel 1901: L’educazione dei frenastenici in Italia e l’opera dei coniugi Gonnelli-Cioni e una Storia del teatro drammatico italiano. Dal principio del secolo XVI alla fine del secolo XIX, miniera di date, titoli, personaggi e ruoli, opera schematica e senza divagazioni, interrotta al terzo libro. Tra il 1906 e il 1907 furono stampati a Roma, a Bergamo e a Torino numerosi drammi educativi, d’argomento edificante, come Satana (quattro atti), Berta dal piede grosso (cinque atti in versi), La madre dei poveri (tre atti in versi), Il patriarca di Pitcairn (un prologo e due atti), Fra Gian Fedele (tre atti), Gonzalo (tre atti in versi) e altri, che rivelano come il bisogno di guadagnare lo avesse condotto molto lontano dalla spregiudicatezza della sua produzione migliore. Nel 1951 A. Scotti pubblicò alcuni estratti di due filastrocche del Bettoli, scritte in toscano dialettizzato, e un sonetto, Al matrimoni, dal piglio sciolto e garbato, pur nelle combinazioni degli aspri fonemi del dialetto parmense.
FONTI E BIBL.: P. Bettoli, Teatro contemporaneo: E. Novelli, in Emporium IX, 1899, 353; R. Barbiera, Parmenio Bettoli, in L’illustrazione Italiana, 24 marzo 1907, 286-287; E. Bocchia, L’ultimo dei commediografi parmensi. Parmenio Bettoli, in Aurea Parma XX 1936, I, 25-29; A. Scotti, Parmenio Bettoli dialettale, in Aurea Parma XXXV 1951, 3, 143-148; P. Bettoli, Teatro, I, Milano, 1884, 6, II, 1869, 6, III, 1875, 8, IV, 1870, 5-16 e 18, VI, 1872, 6, XI, 1881, 6; B. Croce, La letteratura della nuova Italia, VI, Bari, 1945, 171-172; T. Rovito, Letterati e giornalisti italiani contemporanei, Napoli, 1922, 46-47; Enciclopedia Italiana, VI, 836 (voce di M. Ferrigni); Enciclopedia dello Spettacolo, II, Roma, 1954, coll. 446-447; S. Sallusti, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 766; E. Bocchia, L’ultimo dei commediografi parmensi, Parmenio Bettoli, in Gazzetta di Parma 22 agosto 1923, 3; J. Bocchialini, Figure e ricordi parmensi in mezzo secolo di giornalismo, Parma, Luigi Battei Editore, 1960, 84, 268-269; L. Castagnaro, Un clamoroso falso della fine dell’Ottocento, in Gazzetta di Parma 27 gennaio 1968; E. Faelli, Un precursore tripolino: Parmensio Bettoli, in Gazzetta di Parma 18 marzo 1928; M. Ferrarini, Ricordo di Parmenio Bettoli, in La luna sul Parma, Parma, 1946, 67-69; C. Laurenzi, Le battaglie di Parmenio, in Corriere della Sera 19 luglio 1972; B. Molossi, Dizionario dei parmigiani grandi e piccini (dal 1900 a oggi), Parma, Tip. Gazzetta di Parma, 1957, 29-30; M. Mora, Osservazioni e proposte di Parmenio Bettoli sul “Corpo di volontari parmensi” nel 1859, in Archivio Storico per le Province Parmensi 6 1956, 69-74; M. Mora, Un grande dimenticato: Parmenio Bettoli, in Gazzetta di Parma 13 maggio 1957; L. Passerini, Una celebre beffa letteraria, in Noi e il mondo, Roma, 1923; L. Passerini, Una celebre burla letteraria: Parmenio e “L’egoista per progetto”, in Corriere Emiliano 24 giugno 1928; F. Mezzadri, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1995, 405-414.

BETTOLI PIER ILARIONE, vedi BETTOLI PIETRO ILARIONE

BETTOLI PIER MARIA
Parma prima metà del XVIII secolo
Della sua attività di architetto si ha notizia solo dallo Scarabelli Zunti, che lo definisce accurato disegnatore d’architetture e dice di aver visto una pianta del palazzo dell’Università di Parma da lui firmata.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI PIETRO Parma 9 luglio 1791-Parma 1852
Figlio di Cristoforo e Paola Bettoli. Capomastro, eseguì diverse opere pubbliche, tra le quali il Collegio Maria Luigia di Parma su progetto del più famoso architetto Nicola Bettoli, del quale era sicuramente parente.
FONTI E BIBL.: Per la Val Baganza 7 1985, 81.

BETTOLI PIETRO ILARIONE
Parma 1766/1789
Contemporaneo di Cristoforo Bettoli, lo Scarabelli Zunti dice che successe nel 1766 a Domenico Bettoli come capomastro della Comunità di Parma. Nel 1767 fu perito della Congregazione degli edili (Archivio di Stato di Parma, sezione I, XIV, 22 settembre 1767) e nel 1768, secondo Scarabelli Zunti, venne chiamato a ugual ufficio presso la real corte. Ma dall’Archivio di Stato di Parma (Rescritti, 19 novembre 1778) egli appare nominato capo soprastante in luogo di S. Sellier solo nel 1778, contemporaneamente con il figlio Antonio, il quale ne doveva fare le veci in caso di assenza. È introvabile una relazione di visita fatta alla cupola della nuova chiesa di San Liborio a Colorno, che, sempre secondo lo Scarabelli Zunti, egli avrebbe redatto nel 1779 insieme con Raffaele e Fortunato Cugini. All’Archivio di Stato di Parma (Rescritti, 15 maggio 1784) si trova la sua perizia a una casa Bonardi. In una riunione della Congregazione degli edili (Archivio di Stato di Parma, sezione I, serie XIV) del 1789 il Bettoli è detto infermiere.
FONTI E BIBL.: Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 762.

BETTOLI UBERTO o UMBERTO ANTONIO, vedi BETTOLI ANTONIO UBERTO

BETTOLLI, vedi BETTOLI

BEVILACQUA ALESSANDRO -Parma 20 settembre 1896
Appena diciottenne combatté da prode per le strade di Parma contro gli Austriaci nella gloriosa giornata del 20 marzo 1848. Indi, volontario, si aggregò alla prima Colonna Parmense.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 25 settembre 1896, n. 266; G. Sitti, Il Risorgimento Italiano, 1915, 399.

BEVILACQUA ENRICO 
Isola della Scala 1869-Parma 1932
Letterato, fu socio corrispondente della Deputazione di Storia Patria di Parma (1929). Scrisse dotte osservazioni sopra un’iscrizione del Petrarca per il castello di Guardasone.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 122.

BEVILACQUA GIULIO 
Parma prima metà del XVII secolo
Pittore operante nella prima metà del XVII secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, V, 61.

BEVILACQUA LUIGI

Parma 1 maggio 1883-Parma 17 dicembre 1962
Mentre studiava composizione con Guido Alberto Fano al Conservatorio di Parma, insegnò canto al Riformatorio Lambruschini, dove diresse anche la banda. Ancora allievo, nel 1906 partecipò a un concorso di composizione a Firenze, ottenendo il II premio con Canzone medievale, un quartetto a quattro voci virili, che fu applaudito in diversi concerti. Si diplomò nel 1908. Compagno di studi di Bruno Barilli, Mario Silvani, Spartaco Copertini, Riccardo Guazzi, Arnaldo Furlotti, Silvio Cervi, Eduardo Fornarini e Luciano Zuccoli, formò con loro la Camerata Parmense, quel gruppo di giovani artisti che trovarono la loro voce in Medusa, la rivista che conduceva vivaci battaglie d’avanguardia. In un concerto del 18 maggio 1912 al Teatro Reinach di Parma furono eseguiti sotto la sua direzione largo romantico, Volo di rondini, Canzone medievale e una sua suite per orchestra. Nello stesso anno vinse un concorso bandito a Torino con un Preludio per orchestra e fu segnalato a quello del Comune di Roma con l’opera in un atto La notte di Mara (1910), su libretto di Riccardo Guazzi. Sempre su libretto del Guazzi, compose l’opera in 3 atti La canzone della leggenda (1912-1913, non eseguita), e su versi di Giovanni Casalini, il poemetto per canto e pianoforte Anima. Chiamato alle armi durante la prima guerra mondiale, fece anche parte della banda musicale che Toscanini aveva raccolto tra i musicisti. Morto sul finire del conflitto il poeta Riccardo Guazzi, scrisse la composizione orchestrale All’amico che non ritorna, che fu eseguita nel 1920 al Ridotto del Teatro Regio. Dal 1913 insegnò alla Scuola comunale di musica di Gualtieri e diresse la banda di Guastalla. Nel 1922 una sua lirica per canto e pianoforte, Ore meste, vinse il primo premio al concorso indetto dalla casa editrice Profeta di Palermo, nel 1924, in quello indetto dalla Lega Musicale Italiana di New York, si segnalò con la suite in 5 tempi per orchestra Cirillino (1920) e vinse quello bandito dal Secolo per una canzone regionale per l’Emilia. Soppressa nel 1925 la scuola di Gualtieri, dove aveva ripreso a lavorare dopo il congedo, insegnò musica nel Comune di Valmontone, vicino Roma, e dopo un anno vinse il concorso per il posto di maestro nella Scuola comunale di musica di Pirano nell’Istria, dove diresse anche l’orchestra. Nel 1935 vinse con la lirica Cascatella il concorso di Torino per una composizione corale. Rimase a Pirano ventisei anni: ceduta l’Istria alla Jugoslavia, nel 1954 ritornò nella città natale. Oltre alle composizioni sopra indicate, scrisse: Il sogno nella foresta, fiaba coreografica in un atto e cinque tempi; per orchestra Canzone medievale (1906), Tramonto d’aprile, poema sinfonico (1908), Nella notte, suite in tre tempi (1909), Largo romantico (1909), Volo di rondini (1909), Luna d’argento, barcarola (1924), La notte, suite per grande orchestra (1924-1925), Tramonto marino, per pianoforte e orchestra, Un meriggio di luglio, per archi, Tempo di minuetto, per archi; per banda: Marcia (1909), Che pettegole, mazurca di concerto (1913), I fanti del 22° Reggimento, marcia, Brillante, marcia, Monte Grappa, Notturna, marcia (composta al fronte, agosto 1918), Vittorio Veneto, marcia militare, Ai morti per la patria, marcia funebre, Parma, marcia, Ragazzi d’Italia, marcia brillante, Italia eroica, marcia brillante, Marcia degli Ascari, marcia militare, La rossiniana, marcia, Leggenda spagnola, valzer, Bolero, Capriccio per sax soprano, Largo mesto, Tempo di gavotta, Marcia funebre (1922), Elegia (1923); le marce Capodistria, Parenzo, Pirano, Portorose, Salvatore (edite da Belati, 1935); musica da camera: Scherzo e fuga, per quartetto d’archi, Nozze d’oro, suite in tre tempi per violino, violoncello e pianoforte, Nonni innamorati, suite in tre tempi per violoncello e pianoforte, Capriccio, per due violini e pianoforte, Duetto comico appassionato, per violino, violoncello e pianoforte, Tempo di mazurca, per pianoforte e archi, Suite orientale, per pianoforte e archi, Gavotta, per flauto, due violini e pianoforte; per strumenti: Largo appassionato (1904), Scherzo, Dolce canzone, Rondò, Melodia, Il me souvient Iris, valzer dedicato al mio maestro Ildebrando Pizzetti, Sonata in fa ? min (1935), Meriggio di luglio (1910), Canto d’amore (1917), Preludio e fuga (1911), Piccola mazurka (1911), Fuga in re minore, Canto d’Imeneo, Alba nuziale, largo appassionato, Storia sublime, impressioni, Soavi astuzie di Cupido, Impressioni di un meriggio di luglio, Dio ti salverà, benedetta donna, romanza senza parole, Preludietto e mazurchetta, Canto di maggio, Auguri, sonatina, Amor costante, mazurca; per canto e pianoforte: Un sior da burla, canzone in dialetto reggiano, ore meste, lirica, Notturno, lirica, Core trovato, lirica, O prendere o lasciare, melodia, Canzone toscana, nove Stornellate primaverili, il re di Tule, canzone, Voglio, romanza, Occhi azzurri, lirica, madrigale, su parole del XVI secolo, Io morirò, romanza, Il trovatore, romanza, Lontano, lontano, romanza, Tramonto, lirica, Non credo al paradiso?, lirica, Povero fiore!, canzone, Alla sua donna, romanza, Tu m’ami!, lirica, Canto, né so che sia, canzone, La mia bandera, canzone in dialetto parmigiano, La nostra Emilia, canzone in dialetto parmigiano, Vorria, barcarola veneziana, Fior tra i fiori, lirica, Nella notte, lirica, Gli eroi dell’Alcazar, canzone, Ninna nanna, Serenata a Lola, Lettera, lirica, Fantasticando, lirica, Serenata e Serenella, canzone; più di cinquanta composizioni per organo solo e per violino e organo, trentuno composizioni a due, tre o quattro voci, con o senza accompagnamento del pianoforte. Nel 1996 il Trio Brahms di Parma incise un intero cd (LB 01011) di sue musiche strumentali.
FONTI E BIBL.: C. Alcari, Parma nella musica, 1931, 29-30; Gazzetta di Parma 18 dicembre 1962, 4; G.N. Vetro, Dizionario, 1998.

BEVILACQUA MADDALENA, vedi TROTTI MADDALENA

BEVILACQUA MAURO Parma prima metà del XVIII secolo Vasaio operante nella prima metà del XVIII secolo.

FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, VII, 22.

BEVILACQUA ORAZIO Parma 1665/1694
Scrisse un Diario del Ducato di Ranuccio Farnese (1665-1694) in sette volumi, l’ultimo dei quali in Parma e gli altri nella Biblioteca Nazionale di Napoli.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 122.

BEVILACQUA PIETRO
Parma-1852
Fu avvocato stimato e di notevole reputazione.
FONTI E BIBL.: E. Adorni, Alla memoria dell’avvocato Pietro Bevilacqua, 1852; F. da Mareto, Bibliografia, II, 1974, 110.

BEZZA PIETRO Busseto 29 giugno 1905-Parma 26 giugno 1957

Studiò medicina all’Università di Parma, divenendo allievo interno dell’istituto di fisiologia e, successivamente, della clinica chirurgica per tre anni. Conseguita nel 1930 la laurea e poco dopo l’abilitazione all’esercizio professionale, si trasferì a Perugia quale assistente del professor Pietro Verga, direttore in quella città dell’istituto di anatomia patologica. Due anni dopo rientrò a Parma, chiamato a svolgere la sua attività nella clinica chirurgica del professor Giovanni Razzabona, che fu il suo maggiore maestro. Abilitato nel 1935 alla libera docenza in patologia speciale chirurgica, nel 1939 ottenne la cattedra di patologia speciale chirurgica e propedeutica all’Università di Sassari. Nominato nel 1941 primario dell’ospedale di Cesena, passò l’anno seguente a Parma quale primario della divisione chirurgica. Nel frattempo aveva anche seguito corsi di perfezionamento in Francia, approfondendo sempre più le sue già vaste nozioni professionali. Autore di interventi chirurgici di grande ardimento, lasciò numerose pubblicazioni di carattere medico-scientifico che attestano il suo valore in tale campo.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia Diocesana Fidentina, 1961, 74; Imminente scoprimento all’Ospedale di un ritratto in bronzo del prof. P. Bezza, in Gazzetta di Parma 2 febbraio 1962, 4.

-BEZZI CARLO Parma 25 luglio 1887
Patriota di principi liberali e democratici. Fece la campagna risorgimentale del 1848.
FONTI E BIBL.: Il Presente 26 luglio 1887, n. 197; G. Sitti, Il Risorgimento Italiano, 1915, 399.

BEZZI GIUSEPPE
-Parma 24 novembre 1885
Patriota risorgimentale. Combatté e sofferse per redimere la patria dalla schiavitù.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 25 novembre 1885, n. 317; G. Sitti, Il Risorgimento Italiano, 1915, 399.

-BEZZI LODOVICO Parma 21 marzo 1873
Fu volontario in diverse campagne del Risorgimento e per ultimo ad Aspromonte.
FONTI E BIBL.: Il Presente 22 marzo 1873, n. 79; G. Sitti, Il Risorgimento Italiano, 1915, 399.

BEZZOZZI, vedi BESOZZI

BIA AMILCARE Parma 26 febbraio 1899-Parma 21 ottobre 1972
In giovane età (1907) seguì il padre, decoratore, in Russia dove iniziò i suoi studi all’Istituto d’Arte Stiglitz di Pietroburgo (1915-1917): fu allievo del noto paesista lituano Julius Klever. Rientrato in patria, si iscrisse all’Accademia di Belle Arti di Parma avendo come maestro il pittore Paolo Baratta. Dopo essersi diplomato nel 1920, si trasferì poi a Firenze ove frequentò la scuola di nudo e il biennio di perfezionamento a quell’Accademia. Collaborò con Galileo Chini in alcuni lavori di restauro (1923). Rimase a Firenze fino al 1926, recandosi poi più volte a Parigi. Si stabilì quindi (1932) a La Spezia, ove poi visse quasi ininterrottamente. Il Bia tenne mostre personali a Levanto (1944 e 1947), a La Spezia (1953, 1958, 1961, 1966), a Lucca (1953), a Diano Marina (1955), a Parma (1960) e a Genova (1960, 1964). Partecipò a rassegne nazionali e internazionali ottenendo diversi riconoscimenti: premio del Ministero Pubblica Istruzione a Genova (1948), alla Mostra del Lavoro a La Spezia (1956), del Ministero del Lavoro a Roma (1960), alla Biennale del Golfo di La Spezia (1961), alla Mostra Provincia di Genova (1961), alla Mostra Colori della Lunigiana (1962), al Premio Zeri (1965). Vinse il Premio Triglia d’oro (Marina di Carrara, 1963), e il Premio Ministero degli Interni (La Spezia, 1965). Artista essenzialmente lirico, il Bia, nonostante il trascorrere degli anni, riuscì a mantenere intatte la freschezza e la poesia del colore dei tempi migliori: i suoi sono paesaggi limpidi, gioiosi, come il carattere e la personalità dell’autore, sempre entusiasta, dinamico, ricco interiormente come ricca fu sempre la sua tavolozza. Il binomio affettivo Parma-Liguria, artisticamente servì al Bia per abbinare due elementi, materia e luce, nella duplice rappresentazione di figura e paesaggio di una pittura sempre pervasa da un anelito vitale. Sono le marine distese in azzurri mai eccessivamente caricati, i primi paesi dell’entroterra ligure che, su verso la Cisa, ricordavano al Bia l’Appennino Parmense. Ma, soprattutto, le figure caratteristiche della terra spezzina, le vecchiette, raggrinzite dalla salsedine, sedute sulla porta di casa, e i saldi pescatori, vibranti in una pittura di evidente origine padana. Qui spesso il Bia riuscì a raggiungere un’efficacia realista, temperata dal disegno sempre costruito e dal colore contenuto.
FONTI E BIBL.: G. Copertini, Parma per l’Arte gennaio 1961; De Micheli-Rescio-Sidoti, Prima rassegna della Pittura Ligure, Savona, 1964; Carozza-Raimondi, II Rassegna Spezzina, La Spezia, 1965; A. Ronco, XIII Mostra Nazionale Golfo della Spezia, 1965; Arte Italiana Contemporanea, Firenze, 1969; R. Righetti, Liguria, Genova, 1967; A.M. Comanducci, Dizionario dei Pittori, 1970, 298; T. Marcheselli, in Gazzetta di Parma 23 ottobre 1972, 4; Aurea Parma 1 1972, 206; Pittori Italiani dell’Ottocento, 1986, 91; A. Giunta, in Gazzetta di Parma 25 maggio 1999, 21.

BIACCA FRANCESCO MARIA Parma 12 marzo 1673-Parma 15 settembre 1735
Nacque da Giovanni. Avviato al sacerdozio, mostrò una precoce inclinazione per l’erudizione e gli studi classici. Nel 1702, ordinato sacerdote, venne chiamato dal conte Luigi Sanvitale, oltre che come precettore dei suoi figli, anche con funzioni di cappellano e bibliotecario. Il primo frutto del suo lavoro fu una Ortografia manuale o sia arte facile di correttamente scrivere e parlare (Parma, 1714), che volle avere un carattere soprattutto divulgativo e pratico. Scrisse frattanto componimenti d’occasione, come Il merito coronato o sia relazione di tutte le solennità seguite in Parma per la promozione alla sacra porpora del cardinale A.F. Sanvitale (Parma, 1710). Un sonetto venne inserito tra le Rime per le nozze di G.A. Sanvitale colla signora M.I. Cenci (Parma, 1720). Accolto nella colonia parmense dell’Arcadia, il Biacca assunse il nome di Parmindo Ibichense, con il quale firmò molte delle sue opere. Su incarico dell’Accademia compilò, per le Notizie degli Arcadi morti (Roma, 1720), la vita di Pompeo Sacco (I, pp. 48-54), di Ranuccio Pallavicini (I, pp. 62-65), di Cornelio Magni (I, pp. 225-227) e di Nicolò Cicognari (II, pp. 108-109). Nel 1728 la quiete del suo lavoro fu turbata dalla polemica con il gesuita Cesare Calino, autore del Trattenimento istorico e cronologico sulla serie dell’Antico Testamento. Il Biacca volle replicare polemicamente, malgrado le sollecitazioni del Sanvitale, legato da personale amicizia con il gesuita, a lasciar cadere la disputa. Il manoscritto, venuto nelle mani di Filippo Argelati, fu dato alle stampe a Milano nel 1728 (benché sul frontespizio fosse indicato come luogo di edizione Napoli), col titolo Trattenimento istorico e cronologico in tre libri diviso opposto al Trattenimento istorico e cronologico del padre Cesare Calino. La reazione del Sanvitale fu immediata: il Biacca venne allontanato dalla sua casa, mentre la polemica proseguiva con una Risposta del padre Cesare Calino a una lettera di Cavaliere amico (Bologna, 1728) e, da parte del Biacca, con le definitive Annotazioni di un pastor arcade in risposta alle annotazioni fatte dal padre Cesare Calino (Verona, 1734). Dopo un breve soggiorno presso Gherardo Terzi, il Biacca, passato a Milano in casa del conte Antonio Simonetta, collaborò con Filippo Argelati alla Raccolta di tutti gli antichi poeti latini tradotti in versi italiani, sia con traduzioni da Stazio (III, Milano, 1732) e da Catullo (XXI, Milano, 1740), sia con rifacimenti di precedenti versioni come I due Libri de’ sermoni, o siano satire di Orazio, tradotte da M. Lodovico Dolce (IX, Milano, 1735), ovvero ritoccando l’opera di altri volgarizzatori (Giulio Bussi e Remigio Fiorentino). Una delle ultime sue fatiche fu la compilazione delle note in calce all’opera di Francesco Mezzabarba Birago Imperatorum Romanorum numismata (Milano, 1730), nell’edizione curata da Filippo Argelati. Trascorsi quattro anni a Milano, il Biacca tornò a Parma accolto in casa del conte Ottavio Bondani.
FONTI E BIBL.: Giornale de’ letterati d’Italia, Venezia, XX, 1715, 450-451; F. Argelati, in F. Mezzabarba Birago, Imperatorum Romanorum numismata, Mediolani, 1730; G.M. Crescimbeni, Dell’istoria della volgar poesia, VI, Venezia, 1730, 406; Novelle della repubblica letteraria, II, 1730, 23-24; F. Argelati, Raccolta di tutti gli antichi poeti latini, III, Milano, 1732, VII, 1735, XXI, 1740 (prefazioni); Novelle della repubblica letteraria IX 1737, 90-91; F.S. Quadrio, Della storia e della ragione d’ogni poesia, II, Milano, 1741, 549, 661, e IV, 1749, 63, 117, 347; A. Calogerà, Raccolta d’opuscoli scientifici e filologici, XXXII, Venezia, 1745, 422; Novelle letterarie, XVI, 1755, 413; G.M. Mazzuchelli, Gli Scrittori d’Italia, II, 2, Brescia, 1760, 1116-1118; F. Argelati, Biblioteca dei volgarizzatori, Milano, 1767, I, 200, III, 104, 153, 237, 416, e IV, 111; G. Adorni, Traduzione in terza rima della chioma di Berenice di Callimaco, Parma, 1826, 101-102; A. Lombardi, Storia della letteratura italiana nel secolo XVIII, IV, Modena, 1830, 73-74; I. Affò-A. Pezzana, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, VII, Parma, 1833, 9, 13, 16, 19, 60-65, 90; T. Puccini-C. Lanza, Poesie di Catullo, Tibullo e Properzio, Napoli, 1867, 26-27, 30-31, 64-65, 74, 76, 77; G.B. Janelli, Dizionario biografico dei Parmigiani illustri, Genova, 1877, 56-57; C. Trabalza, Storia della grammatica italiana, Milano, 1908, 347; L. Marziano, in Dizionario biografico degli Italiani, IX, 1967, 820-821.

BIAGI ZACCARIA
Parma 1831/1853
Patriota, prese parte ai moti del 1831.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 122.

BIAGIO DA PARMA, vedi MARCHI FEDERICO e PELACANI BIAGIO

BIANCARDI UGOLOTTO, vedi BIANCARDO UGOLOTTO

BIANCARDO UGOLOTTO 
Parma 1345 c.-Madregolo 1408/1420
Nobile parmense, nacque da Antonio e da Caterina Lupi della casa dei marchesi di Soragna. Viene ricordato per la prima volta in un documento del 3 marzo 1363, in cui il giovane Biancardo, chierico, ottenne dallo zio Giovanni Lupi, canonico a Padova, un beneficio. Una quindicina d’anni più tardi lo si trova già decisamente avviato, come altri cadetti del suo tempo, nel mestiere delle armi. Il 5 dicembre 1378, insieme con Alberico da Barbiano, alla cui scuola si era formato, ratificò, in territorio mantovano, il patto di assoldamento a Venezia della compagnia di San Giorgio. Poco dopo fu in Toscana, sempre con la stessa compagnia, dove s’impegnò a non molestare Firenze. Nel 1380 fu mandato da Francesco il Vecchio da Carrara, Signore di Padova, contro Udine, nella lotta accesasi tra questa città e il patriarca di Aquileia. Di lì fu richiamato nel 1386, appena scoppiata la guerra tra Padova e Verona, e combatté nello stesso anno contro gli Scaligeri a Castelbaldo e, l’anno dopo, a Castegnaro, dove si distinse per decisione e coraggio. Nello stesso 1387 passò al servizio del Signore di Milano Gian Galeazzo Visconti, il quale lo aveva richiesto al suo alleato padovano. Così il Biancardo, pagato a metà dai due signori, partecipò alla guerra che il Carrarese e il Visconti mossero contro Verona, nel corso della quale fu ferito. Dopo la sconfitta degli Scaligeri e l’occupazione di Verona (ottobre 1387) i Vicentini, per non cadere nelle mani dei Padovani, si diedero, il 22 ottobre 1387, in custodia al Biancardo perché ricevesse la città in nome del Visconti, e nonostante le proteste del Carrarese, che si richiamava ai patti di spartizione dei territori scaligeri, questi si tenne Vicenza. Nel conflitto seguitone tra Gian Galeazzo Visconti e Francesco da Carrara, il Biancardo combatté contro il suo antico Signore, partecipando all’occupazione di Padova nel novembre del 1388. Subito dopo Iacopo dal Verme, capitano generale visconteo, lo inviò a prendere possesso di Treviso e qui egli ottenne da Francesco il Vecchio il perdono per averlo abbandonato. L’anno seguente, quando si resero sempre più tesi i rapporti tra Milano e Firenze, il Biancardo fu mandato dal Visconti in Romagna, ma, allorché Padova riuscì a cacciare i Viscontei (nel giugno del 1390), venne prontamente richiamato nel Veneto in soccorso delle genti del suo Signore. Prima però di muovere contro Padova, si diresse contro Verona ribellatasi anch’essa sull’esempio padovano. Il 26 giugno 1390 entrò vittorioso nella città, dove le sue soldatesche compirono una strage feroce, che ebbe termine dopo qualche giorno per l’intervento di Caterina, moglie di Gian Galeazzo. Da Verona il Biancardo passò a Padova senza riuscire a impadronirsene, subendo anzi nel territorio padovano qualche rovescio militare. Verso la fine dell’anno operò nel Bolognese donde, agli inizi del 1391, ritornò ancora una volta nel Veronese continuamente impegnato nella lotta contro i Padovani. Divenuto, nel frattempo, capitano generale del Visconti insieme con Iacopo dal Verme, come attesta il Vergerio, compì azioni militari in altre regioni e in particolare nell’Alessandrino, dove ebbe parte nella clamorosa sconfitta del conte d’Armagnac (luglio 1391). Partecipò nel 1397, sempre al servizio del Visconti, alla guerra contro il Gonzaga, facendo uso, a detta del Platina, di frecce avvelenate, ma non poté evitare una grave sconfitta a Governolo (agosto 1397). Destinato nel testamento del Visconti, redatto nel 1397, a far parte del consiglio di reggenza per il figlio Giovanni Maria, tra il 1397 e il 1403 fu nominato prima capitano e poi generale maresciallo di Verona per difenderla contro le mire dei Carraresi. Scoppiata la guerra in seguito al fallimento delle trattative di San Martino Buon Albergo, cui il Biancardo aveva partecipato sul finire del 1403 in rappresentanza dei Viscontei, dopo alcuni episodi bellici che ebbero per il Biancardo esito infelice, Francesco Novello da Carrara il 10 aprile 1404 occupò Verona. Il Biancardo, trinceratosi nella cittadella, fu costretto ad arrendersi il 27 aprile. Si ritirò a Parma, dove possedeva numerosi beni e dove, nell’estate dell’anno 1404, lo si trova implicato in lotte per il possesso del castello di Madregolo. Passò, sempre nel 1404, al servizio dei Veneziani, ma probabilmente per poco tempo perché già nel dicembre si trovava di nuovo nei suoi posssessi di Madregolo. Negli anni successivi è attestata la sua presenza nel Parmense, dove, infermo e ormai avanzato in età, fece testamento nel 1408. È questa l’ultima notizia che si conosce di lui, ed è lecito supporre che sia morto poco dopo. Nel 1421 il suo castello era già raso al suolo, nel timore forse che servisse da rifugio a qualche ribelle. Il Biancardo non fu sprovvisto di cultura: contò tra i suoi amici l’umanista vicentino Antonio Loschi e a Verona, discutendo col Marzagaia di lettere, si professò ammiratore di Apuleio. Ebbe quattro figlie, Giovanna, Caterina, Agnese e Palma, tutte naturali.
FONTI E BIBL.: G.B. Verci, Storia della Marca trivigiana e veronese, Venezia, 1790, XVII, App., docc. 1907, 1916, 1925, 1927, 1936, XVIII, App., docc. 1966, 2000, 2025; L. Osio, Documenti diplomatici tratti dagli archivi milanesi, I, Milano, 1864, 329; I libri commemoriali della Repubblica di Venezia. Regesti, a cura di R. Predelli, III, Venezia, 1883, 138, 194; Chronicon Estense, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, XV, Mediolani, 1729, col. 520; Sozomeni Pistoriensis, Specimen historiae, in Rerum Italicarum Scriptores, XVI, Mediolani, 1730, col. 1175; P.P. Vergerii Iustinopolitani, Orationes et epistolae variae historicae, in Rerum Italicarum Scriptores, col. 228; Andrea de Redusiis de Quero, Chronicon Tarvisinum, in Rerum Italicarum Scriptores, XIX, 1731, coll. 784, 790, 791; Platinae, Historiae Mantuanae, in Rerum Italicarum Scriptores, XX, 1731, coll. 763-776, 784-787; L. Bonincontrii Miniatensis, Annales, in Rerum Italicarum Scriptores, XXI, 1732, coll. 56-57; Antiche cronache veronesi, a cura di C. Cipolla, in Monumenti storici pubblicati dalla Regia Deputazione veneta di storia patria, Venezia, 1890, ad Indicem; Platinae Historici, Liber de vita Christi ac omnium pontificum, in Rerum Italicarum Scriptores, 2a ediz., III, I, a cura di G. Gaida, 289; Conforto da Costoza, Frammenti di storia vicentina, in Rerum Italicarum Scriptores, XIII, I, a cura di C. Steiner, 40, 41, 44; G. e B. Gatari, Cronaca carrarese confrontata con la redazione di Andrea Gatari, in Rerum Italicarum Scriptores, XVII, I, a cura di A. Medin e G. Tolomei, ad Indicem; Corpus chronic. Bononiensium, in Rerum Italicarum Scriptores, XVIII, I, vol. III, a cura di A. Sorbelli, 401, 406, 407, 433; Annales Forolivienses, in Rerum Italicarum Scriptores, XXII, 2, a cura di G. Mazzatinti, 75, 76; Marchionne di Coppo Stefani, Cronaca fiorentina, in Rerum Italicarum Scriptores, XXX, I, a cura di N. Rodolico, 367; A. Cornazano, Dell’arte militare, Venezia, 1493, c. 10 v; B. Pagliarino, Croniche di Vicenza, Vicenza, 1663, 117, 123-124, 131-132, 245; P. Zagata, Cronica della città di Verona descritta da Pier Zagata, ampliata e supplita da G.B. Biancolini, I, Verona, 1745, 123, 127-128, II, Verona, 1747, 21, 31-38; G. Bonifaccio, Istoria di Trevigi, Venezia, 1744, 433, 437, 441; A. Pezzana, Storia della città di Parma, I-II, Parma, 1837-1842, ad Indices; L.A. Muratori, Annali d’Italia, IV, Milano, 1838, 51, 53, 59-60, 62, 71-72, 85, 89; E. Ricotti, Storia delle compagnie di ventura in Italia, II, Torino, 1844, 182 s., 186, 189, 218; G. Canestrini, Documenti per servire alla storia della milizia italiana, in Archivio Storico Italiano XV 1851, LXXII-LXXIII; V. Fainelli, Podestà e ufficiali di Verona, Verona, 1909, 52, 55; G. Galli, La dominazione viscontea a Verona, in Archivio Storico Lombardo LIV 1927, 513, 515, 517, 520, 529, 531, 533, 541; P. Pieri, Milizie e capitani di ventura in Italia nel Medio Evo, in Atti dell’Accademia Peloritana XL 1937-1938, 3-20; D.M. Bueno de Mesquita, Giangaleazzo Visconti Duke of Milan, Cambridge, 1941, ad Indicem; F. Cognasso, L’unificazione della Lombardia sotto Milano, in Storia di Milano, V, Milano, 1955, 534; F. Cognasso, Il ducato visconteo da Gian Galeazzo a Filippo Maria, in Storia di Milano, VI, 1955, 34, 62, 73, 110; T. Sartore, in Dizionario biografico degli Italiani, X, 1968, 39-41.

BIANCAZZI GIUSEPPE
Colorno 1703-
Fu suonatore di cembalo. Nel 1726 si trovava a Piacenza.
FONTI E BIBL.: Fiori; G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.

BIANCHEDI ANTONIO-Parma 24 febbraio 1881
Cittadino intemerato per fermezza di carattere, fu caldo patriota del Risorgimento Italiano.
FONTI E BIBL.: Il Presente 25 febbraio 1881, n. 55; Sitti, Il Risorgimento Italiano, 1915, 400.

BIANCHEDI CAMILLO Parma 1880
Fu agronomo di valore.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 123.

BIANCHEDI CIRO 
14 gennaio 1848-Parma 27 settembre 1887
Valoroso soldato, fece la campagna risorgimentale del 1866.
FONTI E BIBL.: Cenno Necrologico, in Il Presente 27 settembre 1887, n. 257; L’Avanguardia 27 settembre 1887, n. 230; G. Sitti, Il Risorgimento Italiano, 1915, 194.

BIANCHEDI ELEONORA Parma 26 ottobre 1890-
Vestì l’abito monacale delle Orsoline, cambiando il proprio nome di Eleonora in quello di Imelda. Scrisse interessanti opere di agiografia, tra le quali merita che siano ricordate: Maria Barbara dei Conti Radini Tedeschi (1919), La madre Brigida di Gesù (1920), Una candida rosa (1924), Un’anima sposa all’amor Crocifisso (1925), Fiore angelico (1926), Una gemma della compagnia di Gesù (1927), Dalla morte alla vita (1932).
FONTI E BIBL.: M. Gastaldi, Panorama della letteratura femminile contemporanea, Milano, 1936, 612; Bandini, Poetesse, 1941, 92-93; E. Cremona, Una suora piacentina nella religiosità del nostro secolo, in Bollettino Storico Piacentino 61 1966, 33-35.

BIANCHEDI IMELDA o IMELDE, vedi BIANCHEDI ELEONORA

BIANCHEDI ITALO Parma 1895
Dottore in legge, esercitò per molti anni la professione di avvocato. Coprì diverse cariche pubbliche, tra cui quelle di consigliere e assessore comunale. Fu uno dei primi fondatori della Democrazia Parmense. Per le sue doti fu nominato archivista del Comune di Parma il 2 aprile 1895.
FONTI E BIBL.: Giornale di Parma 10 giugno 1904; Sitti, Archivio Comunale di Parma, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1914.

BIANCHETTI EGIDIOParma-Milano aprile 1957
Uscito nel 1910 dal Conservatorio di Parma, diplomato in violino e viola a pieni voti e giovanissimo, fece parte per lungo tempo delle migliori orchestre in Italia e pure all’estero. Ma il Bianchetti, fin da ragazzo, ebbe anche una innata predilezione per gli studi letterari. Alla quotidiana applicazione nelle materie musicali, fece dunque da contrappeso la sua passione per la letteratura. Polemista per istinto, molto stimato e rispettato, per diversi anni fu il capo orchestra della Scala di Milano e sostenne e vinse molte battaglie in favore dei colleghi, dimostrandosi particolarmente agguerrito in materia sindacale: difese con molta autorità e competenza la classe degli orchestrali e le sue argomentazioni furono sempre sostenute con una esemplare onestà. In seguito abbandonò la professione di sindacalista e, dopo un periodo di semplice collaborazione, fu assunto dalla casa editrice Mondadori. Divenne così il revisore, forse il più accreditato, dei classici e curò con una dedizione e uno scrupolo quasi fanatico la pubblicazione delle opere di D’Annunzio, dal quale parecchie volte si recò a colloquio per sottoporgli alcune riserve su parole che sembravano travisate da incomprensione del manoscritto. D’Annunzio fu assai grato e riconoscente all’opera del Bianchetti e alle sue scrupolose attenzioni, come attestano alcune lettere e una fotografia del poeta con una lusinghiera dedica. Il Bianchetti ebbe un continuo scambio di lettere con i maggiori nomi della letteratura. Ebbe la stima di Francesco Flora che si valse sempre del suo aiuto nella revisione di opere che richiedevano la massima sorveglianza e una forte erudizione. Il Bianchetti ebbe grande ammirazione per Giuseppe Del Campo sotto la cui direzione aveva suonato per vari anni al Teatro alla Scala.
FONTI E BIBL.: G.T., in Gazzetta di Parma 24 agosto 1959, 3.

BIANCHI AGOSTINO 
Monticelli d’Ongina 20 marzo 1866-Fidenza 5 giugno 1930
Entrò tredicenne nel Seminario vescovile diocesano di Borgo San Donnino e vi compì gli studi, distinguendosi per l’intelligenza aperta e versatile. Ordinato sacerdote il 21 settembre 1889, fu preposto in Seminario all’insegnamento di lettere e in pari tempo designato a ricoprire nel Capitolo della Cattedrale di Borgo San Donnino, l’incarico di segretario. Il 4 settembre 1902 il vescovo Giovambattista Tescari lo annoverò tra i canonici della stessa Cattedrale. Inclinato all’amministrazione, vi si applicò sin da giovane e fu anzi uno degli animatori di quell’attività bancaria cattolica che si andava diffondendo anche in altre diocesi, concorrendo alla fondazione dell’Agenzia della Cassa Cattolica di Parma. Di non comune larghezza di vedute in materia di finanza, divenne in tale settore una delle personalità cittadine più eminenti, prestando la sua opera a favore anche di enti di culto e di beneficenza che si affidarono alla sua direzione e al suo consiglio. Con Aldo Gramizzi fondò a Borgo San Donnino la Società Anonima Italiana Folembray per la lavorazione del vetro, che in seguito diventò (con altro nome) uno dei maggiori complessi industriali della città. All’insegnamento dedicò gran parte delle sue energie e fu professore apprezzato per dottrina e metodo d’insegnamento: fu in particolare un distinto cultore di studi umanistici. Membro del Comitato Diocesano dell’Opera dei Congressi, nel 1899 concorse alla fondazione del settimanale cattolico Il Risveglio, del quale fu largo sostenitore. Favorì pure la nascente Azione Cattolica e ne propugnò il progresso, accettando la nomina ad assistente ecclesiastico del Centro Diocesano. Con don Nino Mantovani, don Sincero Badini e don Guglielmo Laurini fu poi una delle figure di quel clero battagliero che non fu estraneo alla politica facente capo al movimento del Partito Popolare di don Sturzo, quantunque il Bianchi non figurò mai nella lotta aperta perché troppo assorbito dalle sue principali attività. Buon conoscitore e amatore di musica, in possesso di una voce sonora di basso profondo, si dilettò a darne saggi in accademie e contribuì a lungo, nella Cattedrale di Borgo San Donnino, al decoro delle sacre funzioni in canto. Allorché il fascismo intervenne a stroncare l’attività bancaria cattolica, egli ne ricevette un colpo durissimo. Da allora la sua salute rapidamente decadde e la malattia finì con l’avere il sopravvento sulla sua forte fibra. Poco prima della morte nominò suo esecutore testamentario il prevosto di Busseto, monsignor Luigi Onesti, disponendo che ogni sua sostanza fosse devoluta a favore del Seminario diocesano di Fidenza.
FONTI E BIBL.: La sua opera è documentata principalmente dal settimanale diocesano Il Risveglio. Un suo profilo biografico si trova nell’Enciclopedia Diocesana Fidentina, a cura di D. Soresina, Fidenza, 1961, I, 75-76; G. Pattonieri, in Dizionario Storico del Movimento Cattolico, III/1, 1984, 91.

BIANCHI ANGELO, vedi BIANCHI FOGLIANI ANGELO

BIANCHI ANTONIO Parma-Parma aprile 1788

Coreografo. Fece parte della compagna di L’Evesque, dove danzava anche il Rinaldi Fossano, e con questa nel 1739 fu al Teatro di Reggio Emilia nella stagione di fiera. Nel Carnevale a Brescia compose i balli per Arianna e Teseo, dramma per musica da rappresentarsi nel Teatro dell’Illustrissima Accademia degli Erranti, e in quella dell’anno successivo per il dramma per musica L’Issipile. Nel settembre 1740 fu a San Giovanni in Persiceto nel Teatro degli Accademici Candidi Uniti e allestì i balli per La costanza vincitrice. Nel Carnevale del 1741 fu a Ferrara al Teatro Bonacossi da Santo Stefano con i balli del Sirbace e in Adriano in Siria e nella successiva fiera della festa di San Pietro al Teatro dell’Accademia de’ Signori Remoti di Faenza con quelli della Finta cameriera. Nel Carnevale del 1742 lavorò al Teatro Molza di Modena nel Tito Vespasiano ovvero La clemenza di Tito. In questo ballo le scene erano di Marco Bianchi da Correggio. Nel Carnevale del 1743 fu al Teatro Ducale di Parma con i balli dell’Ezio ed è sua la dedica stampata sul libretto. Nella stagione del Carnevale del 1745 allestì ancora i balli al Teatro Ducale di Parma della Didone abbandonata e in quella di primavera del Siface, mentre nel 1747 fu inventore e direttore de’ Balli nel Catone in Utica al Teatro Ducale di Piacenza e nel Carnevale 1748 fu autore dei balli al Teatro Nazari di Cremona. Marco Aurelio Veneroni, in una lettera scritta da Piacenza il 5 maggio 1749 al duca di Parma, lo definì sommo genio. Nel Carnevale del 1751 fu ancora al Teatro Ducale di Parma con i balli de La Ciana. Con una lettera da Colorno del 24 giugno 1754 di Du Tillot ricevette dal 1° luglio di quell’anno un aumento del soldo di 600 lire (Archivio di Stato di Parma, Computisteria Farnesiana e Borbonica, b. 1331). Nominato maestro di ballo del duca di Parma e dei paggi ducali con una paga di 4000 lire annue, diresse i balli di Serse re di Persia, tragedia recitata dai convittori del Collegio dei Nobili nel Carnevale del 1756 (Biblioteca Palatina di Parma, ms Parm. 763). Nell’estate 1769 compose gli applauditissimi balli per le grandiose feste di Colorno in occasione delle nozze reali. Il 29 gennaio 1784 con apposito decreto venne nominato maestro di ballo al Collegio dei Nobili in aiuto al primo maestro. Il 23 aprile 1788 venne concessa la pensione alla vedova Maria Maddalena Bini (Archivio di Stato di Parma, Decreti e Rescritti). Come maestro di ballo alla Reale Paggeria gli successe il figlio Gaspare.
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario, 1998.

BIANCHI APOLLONIO Parma 1606/1608
Tornitore. Nel 1606-1608 lavorò con Bartolomeo Bianchi, forse suo fratello, a una macchina ducale sotto la direzione del Malosso.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Raccolta ms., busta 120; Il mobile a Parma, 1983, 253.

BIANCHI BARTOLOMEO 
Parma 1606/1608
Tornitore. Nel 1606-1608 lavorò con Apollonio Bianchi, forse suo fratello, a una macchina ducale sotto la direzione del Malosso.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Raccolta ms., busta 120; Il mobile a Parma, 1983, 253.

BIANCHI BATTISTA, vedi BIANCHI GIAMBATTISTA

BIANCHI BERNARDINO  Parma XV secolo
Scultore in legno. Lavorò col padre Luchino nel Duomo di Parma e nel Monastero di San Paolo.
FONTI E BIBL.: A.M. Bessone, Scultori e architetti, 1947, 72.

BIANCHI CARLO Parma 1629
Disegnatore e incisore in rame. Attivo in Milano nell’anno 1629.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, V, 62; G. Capacchi-P. Martini, L’arte dell’incisione in Parma, 1969; P. Zani, Enciclopedia metodica di Belle Arti, IV, 40.

BIANCHI CARLO Bozzolo 1910-Parma 27 febbraio 1978
Trascorse la giovinezza a Redondesco. Si laureò a pieni voti nel 1935. Il corso delle sue vicende accademiche lo portò in varie sedi universitarie per seguire gli indirizzi più qualificati degli studi medici: da Padova, a Genova, a Sassari, sino a Parma, che diventò la sua seconda patria e gli diede i successi più ambiti della carriera. Si formò nella scuola del professor Bufano, del quale fu un eminente rappresentante e il primo allievo a salire sulla cattedra universitaria, proprio a Parma nel 1952, nella materia di Semeiotica medica. Passò successivamente alla Patologia e infine, nel 1958, alla I Clinica Medica, quale successore del suo maestro, trasferito all’Università di Roma. Del professor Bufano, il Bianchi proseguì l’opera di insegnante e di scienziato nell’Istituto di Clinica Medica, trasmettendo a intere generazioni di studenti i frutti della sua esperienza e dei suoi studi e creando una feconda schiera di allievi indirizzati a cattedre universitarie, a primariati ospedalieri e a vari compiti di responsabilità nelle professioni sanitarie. La sua opera di scienziato approfondì gli studi sulle malattie del sangue e sulla malaria, fin dai tempi della sua permanenza in Sardegna, estendendoli successivamente a ricerche fondamentali sulle leucemie e le anemie, sulle malattie del cuore e sugli aspetti delle indagini sui farmaci. Promosse lo sviluppo, fin dai suoi primi inizi, di una nuova branca medica, la farmacologia clinica, che poi assunse un’importanza cruciale per le prospettive dell’assistenza sanitaria sul piano scientifico e pratico. Il Bianchi spinse la sua lungimiranza per i problemi sanitari più emergenti promuovendo l’istituzione a Parma di un centro interdisciplinare per la nutrizione e dimostrando una spiccata sensibilità per i rapporti tra le attività cliniche, igieniche e industriali del territorio. Negli ultimi anni della sua carriera si dedicò particolarmente alla evoluzione della didattica, organizzando i moderni mezzi audiovisivi per ristrutturare l’insegnamento universitario. Per le sue benemerenze fu insignito del diploma di benemerito della scuola, della cultura e dell’arte e delle medaglie d’oro dai ministeri della Pubblica Istruzione e della Sanità. Ricoprì la carica di preside della facoltà di Medicina e alla fine di ottobre del 1968 fu chiamato dal corpo accademico alla carica di rettore magnifico dell’Università di Parma per il triennio 1968-1971, proprio nel periodo più difficile della contestazione studentesca. La sua forte personalità e una acuta sensibilità per i problemi politici e sociali, gli consentì comunque di guidare l’amministrazione universitaria con immutato prestigio.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 28 febbraio 1978, 4.

BIANCHI CARLO ANTONIO Parma-post 1779
Danzatore. Nella primavera 1763 fu al Teatro Ducale di Parma, come pure nell’anno seguente e poi nel 1770. Lo si incontra figurante al Teatro Regio di Torino nel Carnevale 1768-1769 e ancora nel 1774-1775, quando le prime parti furono di Antonio e Giustina Campioni. Nel 1770-1771 lavorò nei balli della temporada d’opera al Teatre de la Santa Creu a Barcellona e a Bologna nel 1778 al Nuovo Pubblico Teatro e nel 1779 al Teatro Zagnoni, assieme a Teresa Bianchi.
FONTI E BIBL.: Alier y Aixalà; Bedarida; Sartori; G. Ferrari, La compagnia Delisle alla Corte di Parma (1755-1758), in Allegri e Di Benedetto, 200.

BIANCHI DIONISIOParma 1750-post 1791
Figlio di Lodovico e Vittoria Orlandi. Il Bianchi fu conservatore dell’Archivio Pubblico di Parma (1791). Sposò Veronica Araldi.
FONTI E BIBL.: M. de Meo, in Gazzetta di Parma 9 novembre 1998, 27.

BIANCHI DOMENICO 
Parma 1759/1797
Violinista, appare la prima volta negli spettacoli teatrali dati a Parma nell’agosto del 1773 in occasione della nascita del primogenito principe Lodovico di Borbone e nel 1775 tra i suonatori nominati per un triennio a suonare nell’Accademia Teatrale. La presenza del Bianchi nelle funzioni più solenni della Steccata di Parma è ricordata dal 1759 al 1797.
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Teatri 1770-1779, Affari diversi, Cart. n. 2; Archivio della Steccata, Mandati, 1759-1797; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 203.

BIANCHI FAUSTINA, vedi CAMPIONI FAUSTINA

BIANCHI FERDINANDO 
Parma 6 agosto 1854-Valera 20 agosto 1896
Nacque da Francesco Saverio, giurista. Iscrittosi all’Università di Siena, presso cui il padre era passato da quella di Parma nel 1873, il Bianchi si laureò nel 1876 con un lavoro sulle Obligazioni solidali in diritto romano, che, pubblicato a Parma nel 1878, gli fece conseguire la libera docenza in diritto civile. L’opera del Bianchi, tuttavia, nel suo complesso è caratteristica d’una fase ulteriore di transizione della scienza giuridica italiana, alla ricerca di nuovo moduli interpretativi, da adeguare al mutato contesto legislativo. In questo ambito il suo contributo non approdò certamente a risultati di rilievo, ma già i suoi primi lavori civilistici rivelano, nell’eclettismo con cui egli venne saldando la tradizione giuridica italiana del secolo XIX con le coeve esperienze straniere e in particolare con quella tedesca, uno sforzo di puntualizzazione interpretativa niente affatto trascurabile. Entrato il padre nel 1880 a far parte della suprema Corte di cassazione di Roma, il Bianchi fu chiamato dall’Università di Siena a ricoprirvi per incarico la cattedra di diritto civile che questi aveva lasciato, passando poi a Macerata come straordinario della stessa materia. Ricevuto l’ordinariato nel 1884, l’anno seguente fu chiamato nuovamente a Siena e vi rimase fino al 1890, per passare definitivamente alla cattedra di diritto civile dell’Università di Genova. Il periodo senese fu il più intenso e fecondo dell’attività pubblica e scientifica del Bianchi. Nel 1886 venne nominato preside della facoltà e l’anno seguente assunse la condirezione degli Studi Senesi insieme con M. Pampaloni. Nel frattempo, eletto consigliere e assessore, si interessò anche dell’amministrazione comunale. In stretto rapporto con la vita cittadina e con quella dell’Ateneo si svolsero i suoi interessi scientifici e didattici che, mentre lo portarono a prendere posizione contro un eventuale provvedimento di soppressione delle università minori (con un’interessante memoria pubblicata negli Studi Senesi, dal titolo La riforma universitaria in rapporto alla soppressione delle università minori, VII, 1890, pp. 69-84), d’altro canto contribuirono a far maturare in lui un forte interesse per l’insegnamento istituzionale del diritto civile che, se non mise mai capo a una sua opera specifica, si tradusse tuttavia, sul piano dell’attività didattica, in un’iniziativa precorritrice, di rilievo anche scientifico: la creazione di un corso universitario di istituzioni di diritto privato, di cui egli ebbe per primo l’incarico. Va messa pure in rilievo, in questo periodo, l’attività scientifica del Bianchi: dai saggi pubblicati sugli Studi Senesi (Sulla inalienabilità delle servitù prediali, III, 1886, pp. 58-89; Le prme linee del sistema ipotecario italiano, III, 1886, pp. 186-212; Garanzie di evizione nell’espropriazioni forzate, IV, 1887, pp. 3-19) alla memoria su I limiti della proprietà privata nel diritto civile (Macerata, 1884) e al suo lavoro più maturo, il Trattato delle servitù legali nel diritto civile italiano (Lanciano, 1888). Il distacco da una esegesi puramente formalistica, tipica della metodologia francese, si fa in questi ultimi lavori esplicito e vi prende il posto un tentativo più maturo di ricostruzione organica degli istituti, sul modello della scienza giuridica tedesca. Questo naturale e consapevole accostamento a esperienze esegetiche nuove è testimonianza quanto mai significativa di quella tendenza che, nella scienza giuridica italiana, diventò predominante un decennio più tardi. La libertà esegetica si riaffaccia nel commento del Bianchi al diritto di famiglia. L’opera, che fu anche l’ultimo suo lavoro di impegno e che costituisce il quinto volume del suo Corso di diritto civile italiano, grande commentario al codice civile del 1865 curato dal padre Francesco Saverio, uscì col titolo Della parentela, dell’affinità e del matrimonio, spiegazione dei titoli IV e V del libro I (2 voll., Torino, 1883-1896). Nel 1896, pochi mesi prima della morte, fu chiamato dall’Università di Bologna a ricoprire la cattedra di diritto civile. Tra i suoi scritti minori vanno ricordati: Il diritto successorio in relazione agli ordinamenti sociali, Siena, 1882; Del pegno commerciale, Macerata, 1883; I contratti conclusi per telefono, Siena, 1888; I contratti per corrispondenza e l’articolo 36 del codice di comm. in materia civile, in Studi in onore di F. Serafini, Torino, 1892, pp. 87-112.
FONTI E BIBL.: P. Rossi, Ferdinando Bianchi, in Studi Senesi XIII 1896, 257-271; F. Ruffini, Ferdinando Bianchi, in Annuario dell’Università di Genova 1896-1897, 149-154; P. Cogliolo, Commemorazione del professor di legge Ferdinando Bianchi, in Annuario dell’Università di Genova 1897-1898, 137-150 (con bibliografia completa degli scritti del Bianchi); Novissimo Digesto Italiano, II, 388 ss.; Dizionario biografico degli Italiani, X, 1968, 83-84.

BIANCHI FLORIO San Lazzaro Parmense-Monte Lepre 9 aprile 1941

Sottotenente, fu decorato con la Medaglia di Bronzo al Valore Militare, con la seguente motivazione: Aiutante maggiore di battaglione, si prodigava generosamente per meglio assolvere il suo compito quale comandante di plotone, a un contrassalto e, mentre in piedi, stava lanciando bombe a mano, cadeva colpito mortalmente. Esempio di coraggio e di elevato sentimento del dovere (Monte Lepre, Zona di Planina, Postumia, Fronte Jugoslavo).
FONTI E BIBL.: Bollettino Ufficiale 1948, 570; Decorati al valore, 1964, 69.

BIANCHI FRANCESCO SAVERIO
Piacenza 24 novembre 1827-Civitavecchia 20 luglio 1908
Compì gli studi giuridici all’Università di Parma, dove si laureò l’8 luglio 1848 e dove, nel 1856, fu nominato professore di diritto civile (ordinario nel 1863) e preside della facoltà di giurisprudenza dal 1868 al 1873. A Parma il Bianchi ricoprì anche numerose cariche pubbliche. Fu eletto consigliere comunale e quindi sindaco nel 1869 e fu per molti anni presidente del Consiglio provinciale e presidente degli ospizi civici, nella qual carica si distinse in modo particolare per l’opera di radicale riordinamento che riuscì ad avviare e in parte a condurre a termine. Nel 1873 il Bianchi fu chiamato alla cattedra di diritto civile dell’Università di Siena, dove nel 1878 fu eletto preside della facoltà di giurisprudenza e nel 1879 nominato rettore. Anche a Siena fu eletto consigliere comunale e quindi assessore all’istruzione. Fu fondatore e animatore del circolo giuridico presso l’Università e socio di una società di esecutori di pie disposizioni. L’opera del Bianchi si mostrò agli inizi essenzialmente legata a intenti didattici, come attestano i suoi corsi di lezioni, raccolti in una serie di dispense litografate e usciti a Parma tra il 1861 e il 1862 sotto il titolo generale di Teoria del codice civile. Fin dal 1869, tuttavia, con la pubblicazione del primo volume del Corso elementare di codice civile, essa acquistò un orizzonte più largo, in cui la ricostruzione istituzionale e la ricerca esegetica si fondono nel commento analitico del codice civile del 1865. Il Corso elementare, infatti, prelude già al trattato sui Principi generali delle leggi che, uscito a Torino nel 1888, introdusse la seconda edizione del Corso di diritto civile. La prima edizione, infatti, si compose di cinque volumi, pubblicati a Torino, a partire dal 1869 fino al 1877, e coprì soltanto i primi otto titoli del primo libro del codice. La seconda edizione ebbe come titolo Corso di diritto civile italiano e prese a uscire sempre a Torino nel 1888 col citato volume intorno ai Principi generali sulle leggi, cui seguì l’anno dopo un altro volume sulla Retroattività delle leggi, riedito poi nel 1922 (ancora a Torino) da Donato Faggella: lavori ambedue originali rispetto all’edizione precedente. La seconda edizione del Corso rappresentò una più matura fase del Bianchi. Più ricchi di riferimenti giurisprudenziali, questi volumi mostrano già un attento spoglio della dottrina tedesca, di cui sono riferiti i punti di vista, e qui e là è utilizzato qualche strumento interpretativo. L’influenza, però, del Cours de droit civil français dell’Aubry e del Rau continua a essere determinante nella concezione sistematica dell’opera. Ne risulta modificato, e parzialmente, solo il prevalente tecnicismo, se non nell’impostazione, nella recezione di motivi esegetici diversi, dottrinali e giurisprudenziali. Ma, come i suoi di poco anteriori modelli francesi, l’opera del Bianchi palesa d’altra parte una sostanziale impermeabilità alle più generali correnti culturali e sociali dell’epoca. Ai primi due volumi ne seguirono altri sette (divisi in tredici tomi complessivi), di cui il settimo e l’ottavo uscirono dopo la morte del Bianchi, rispettivamente nel 1909 e 1911. Non ne uscì tuttavia un’analisi completa del codice civile. Al commento dei primi otto titoli del primo libro, già svolto nella prima edizione, il Bianchi poté aggiungere il commento al titolo IX dello stesso libro, nonché quello ai titoli I, II e IV del secondo libro. In compenso, la ristampa del primo commento risultò largamente ampliata e in molti punti largamente rinnovata. In quest’ambito non vanno dimenticati i due tomi del quinto volume del Corso, Della parentela, dell’affinità e del matrimonio, spiegazione ai titoli IV e V del I libro, usciti rispettivamente nel 1893 e nel 1901, a cura del figlio del Bianchi, il giurista Ferdinando. Nel 1880 il Bianchi lasciò l’insegnamento per trasferirsi in magistratura, quale consigliere della Corte di cassazione di Torino fino al 1882 e quindi di quella di Roma. Ma qui rimase per breve tempo, giacché l’8 luglio 1883 fu nominato consigliere di stato. Creato senatore del Regno nel 1892, divenne presidente di sezione del Consiglio di stato nel 1896 e fu poi nominato presidente dello stesso consiglio il 29 gennaio 1903. Fu collocato a riposo il 31 marzo 1907. Tra le varie cariche pubbliche ricoperte dal Bianchi è da ricordare la sua partecipazione al Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione, al Consiglio delle Miniere e al Consiglio del Fondo per il Culto. Appartenne al Tribunale Supremo di Guerra e Marina e fu membro della Commissione di studio per la legge sullo stato giuridico degli impiegati, ai cui lavori (seguiti nel 1908 dall’emanazione della legge) fornì un notevole apporto di dottrina e di specifica esperienza giurisprudenziale. La sua opera di studioso fu largamente apprezzata, procurandogli in Italia il conferimento del gran cordone della Corona d’Italia e una notevole fama all’estero, come dimostra, tra l’altro, il fatto che il governo inglese si rivolse ripetutamente a lui per avere il suo parere in merito a importanti e delicati problemi giuridici.
FONTI E BIBL.: D. Zanichelli, Francesco Saverio Bianchi, in Giornale d’Italia 23 luglio 1908; Atti parlamentari. Senato, Discussioni, legislatura XXII, tornata del 28 novembre 1908, 9963-9970; P. Rossi, Francesco Saverio Bianchi, in Studi Senesi XXV 1908, 306; L. Tartufari, Francesco Saverio Bianchi, in Annuario della Regia Università di Parma 1908-1909, Parma, 1909, 159-162; C. Manenti, Francesco Saverio Bianchi, in Annuario della Regia Università di Siena 1908-1909, Siena, 1909, 139-154; Il Consiglio di Stato. Studi in occasione del centenario, Roma, 1932, III, 79 dell’App.; G. Mosca, in Dizionario biografico degli Italiani, X, 1968, 94-95; Saverio Bianchi, un insigne giurista, in E.F. Fiorentini, Personaggi piacentini dell’ultimo secolo, Piacenza, 1972, 67.

BIANCHI GASPARE Parma 1743-Parma 26 agosto 1816
Figlio del coreografo Antonio, era detto anche Cadet. Fece parte della compagnia Delisle come figurante e debuttò a Colorno nel 1757, danzanto in tutti i balli dati a Parma. All’inizio del 1761 fu inviato dal ministro Du Tillot a Parigi, assieme al collega Antonio Campioni, a perfezionarsi con il Laval. Rientrò nel 1763 riprendendo a danzare a Parma. Nel 1770 Du Tillot lo raccomandò assieme a Giustina Campioni per i Reali Teatri di Spagna, in quanto insieme lavoravano con molta armonia. Nel 1770 sposò la danzatrice Maria Vendermuten, dalla quale ebbe un figlio, Enrico, anch’egli danzatore. Il Bianchi ritornò a danzare al Teatro Ducale di Parma dal Carnevale 1772 e lo si trova ininterrottamente fino al 1776, anche nelle estati a Colorno. Il 27 aprile 1775 gli venne accordata la sopravvivenza di Maestro di Ballo della Regia Paggeria e dichiarato Virtuoso d’onore al serviggio di SAR (Archivio di Stato di Parma, Decreti e Rescritti). Nel Carnevale 1773 fu coreografo al Real Ducale Teatro Vecchio di Mantova per L’Olimpiade di Ferdinando Bertoni, nella primavera 1774 fu compositore, direttore de’ Balli e ballerino fuori de’ concerti al Teatro Nuovo di Pavia e nel Carnevale del 1777 al Teatro dell’Accademia Filarmonica di Verona. Nel 1784 fu nominato maestro di ballo dei figli del duca di Parma Ferdinando di Borbone e il 23 aprile 1788 maestro dei paggi di Corte, al posto del padre defunto.
FONTI E BIBL.: Enciclopedia di Parma, 1998, 137.

BIANCHI GERARDO Gainago 1220/1225-Roma 1 marzo 1302
Il nome dei suoi genitori, Alberto e Agnese, è ricordato nell’iscrizione di un affresco, contemporaneo, del Battistero di Parma. Si può affermare senza alcun dubbio che studiò diritto canonico e diritto romano: la sua successiva attività nella cancelleria pontificia prova infatti come egli fosse buon conoscitore delle due discipline. Forse, assieme con Simone di Brion, il futuro papa Martino IV, fu allievo del famoso giurista Uberto da Bobbio, durante il secondo periodo di insegnamento di quest’ultimo a Parma (1237-1245). Si spiegherebbero in tal modo gli stretti legami tra Simone di Brion e il Bianchi, attestati da Salimbene da Parma. Il Bianchi iniziò la sua carriera nella curia pontificia come cappellano e scrittore di papa Innocenzo IV (come cappellano è attestato per la prima volta nel 1245). Certamente dovette questo posto alla raccomandazione di un suo zio, il notaio pontificio Alberto di Parma, la cui famiglia aveva stretto buoni rapporti con Obizzo Fieschi, parente del Papa e vescovo di Parma dal 1194 al 1224. In aggiunta ai proventi derivantigli dai suoi incarichi nella cancelleria, ottenne dal Pontefice numerose prebende in Ungheria, in Francia e a Parma, dove fu per un certo periodo scolastico del Duomo. Questi benefici dovevano procurargli entrate considerevoli dal momento che poté prestare 200 libbre di tornesi a Innocenzo IV, bisognoso di denaro al momento della ricerca di un suo candidato quale successore di Federico II per il Regno di Sicilia. La somma gli venne restituita più tardi da papa Alessandro IV. Se il 12 aprile 1264 papa Urbano IV concesse ad altri i benefici ungheresi del Bianchi, credendolo morto, questi evidentemente non si trovava allora presso la Curia. Due anni prima, per incarico dello stesso Papa, era stato cursor in Germania, dove portò una comunicazione del pontefice al vescovo Tommaso di Squillace. Sotto i successori del suo protettore Innocenzo IV la carriera del Bianchi subì un arresto (lo stesso avvenne per Alberto di Parma). Sotto i papi Clemente IV e Gregorio X non si trova, infatti, alcun riferimento al Bianchi nei registri pontifici, ed è soltanto da un registro angioino, perduto, che si sa che egli era ancora scrittore pontificio e rettore della chiesa di San Martino ad Aquino. Soltanto sotto papa Innocenzo V ottenne l’importante ufficio di auditor litterarum contradictarum e, probabilmente durante la vacanza seguita alla morte di papa Giovanni XXI (dal 20 maggio al 25 novembre 1277), compose o fece comporre a Viterbo un formulario comprendente sessantun documenti, preziosa testimonianza dell’attività e dei compiti dell’ufficio dell’audientia publica o dell’audientia litterarum contradictarum. Di questo stesso periodo sono i primi stretti rapporti del Bianchi con Carlo I d’Angiò: il 15 febbraio 1277 ricevette dal re una lettera in cui si ordina ai funzionari del Regno di trattarlo come consigliere reale. Questi legami con i Francesi e i buoni rapporti con Simone di Brion devono aver costituito in quegli anni un impedimento per la sua carriera presso la Curia. Infatti il nuovo papa Niccolò III, eletto il 25 novembre 1277, era romano (Giovanni Gaetano Orsini) e sgradito a Carlo d’Angiò. La sua elezione fu possibile soltanto per il passaggio al partito italiano nel collegio cardinalizio del francese Guglielmo di Bray, cardinale prete di San Marco, passaggio violentemente rimproveratogli in una lettera da Carlo d’Angiò. Nei confronti di questo, Niccolò III condusse effettivamente una politica molto più indipendente dei suoi predecessori, sebbene i rapporti restassero ufficialmente immutati. Ma il Bianchi, che né sotto Urbano IV né sotto Clemente IV aveva ottenuto alcuna promozione, si mostrò poi, specialmente durante le legazioni siciliane, tutt’altro che radicale partigiano dei Francesi, sebbene come Parmense egli fosse guelfo. Il suo carattere tendente ai compromessi e all’accomodamento lo portò sempre a tenere una posizione in certa misura autonoma, a evitare prese di posizione estreme e a tenersi fuori dalle contese che agitavano il collegio cardinalizio, nelle quali tuttavia spesso dovette piegare al patteggiamento e al disimpegno. Niccolò III dovette cogliere in lui questa tendenza all’accordo, se lo creò cardinale prete dei Santi Apostoli il 12 marzo 1278. Ma, oltre a ciò, si ha qualche elemento per pensare che il Bianchi, durante il conclave di Viterbo, avesse esercitato la sua influenza di auditor a favore dell’Orsini. Pochi mesi prima, infatti, sotto Giovanni XXI, aveva preso parte alle riforme per la restaurazione della libertà dell’elezione papale, riforme introdotte per iniziativa dell’Orsini, ed era stato inoltre membro della commissione incaricata di punire i notai e i procuratori ribelli che avevano disturbato l’elezione durante il precedente conclave. Tra i cappellani del nuovo cardinale si trova il celebre canonista Guido da Baisio, che per riconoscenza gli dedicò il suo famoso Rosarium. All’inizio il Bianchi ebbe incarichi di ordinaria amministrazione, come la risoluzione di vertenze circa alcune elezioni episcopali. La missione più importante di questi primi anni riguardò le trattative di pace tra Filippo III di Francia e Alfonso X di Castiglia. Nel maggio del 1278 il Bianchi partecipò al concistoro riunito da Niccolò III per l’incoronazione imperiale di Rodolfo d’Asburgo. Nell’estate, nello stesso periodo in cui Simone di Brion era cardinale legato in Francia, il Pontefice lo mandò a Tolosa e a Bordeaux insieme col cardinale Gerolamo da Ascoli e con Giovanni di Vercelli, patriarca eletto di Gerusalemme, ma la legazione del Bianchi non ebbe alcun risultato. Al ritorno dalla Francia, nell’estate del 1279, visitò la sua città natale, Parma, che, alcuni anni dopo (1282), riuscì a far liberare dalla scomunica e dall’interdetto che il cardinale Latino Malabranca aveva decretato per una rivolta della popolazione contro l’inquisitore e contro i domenicani. Si è pensato, e con ragione, che nel conclave del 1280-1281 il Bianchi abbia abbandonato il partito degli Orsini e sia passato al gruppo degli Angioini votando a favore di papa Martino IV, ma questo cambiamento di parte deve essere considerato più come una manifestazione di amicizia nei confronti di Simone di Brion che come una decisa presa di posizione a favore del partito francese. Comunque, per riconoscenza, il nuovo Pontefice innalzò il Bianchi a cardinale vescovo di Sabina (probabilmente il 12 aprile 1281). Lo scoppio dei Vespri Siciliani, il 30 marzo 1282, segnò una nuova svolta nella vita del Bianchi: il 5 giugno Martino IV lo nominò legato per il Regno di Sicilia, in un momento cioè in cui Carlo d’Angiò stava tentando di fronteggiare la rivolta con una serie di riforme (10 giugno 1282) e, quando queste finirono per rivelarsi inefficaci, con la forza. Il Re raccolse il suo esercito a Catona, sulla penisola di fronte a Messina, dove egli andò di persona il 6 luglio e dove, contemporaneamente o poco dopo, deve essersi recato anche il Bianchi. Il 25 luglio gli Angioini, attraversato lo stretto, approdarono a sud di Messina presso il monastero di Santa Maria Roccamadore e attaccarono la città, nella quale Alaimo da Lentini aveva organizzato la difesa. Prima dell’attacco vero e proprio il Bianchi, d’accordo con il Re e con gli assediati, si recò nella città per un tentativo di mediazione. Fu accolto amichevolmente e Alaimo gli consegnò persino le claves terre e con questo gesto simbolico lo investì, in quanto rappresentante del Papa, della città e dell’isola. Ma il Bianchi non poté accettare la proposta dei Messinesi di sottomettersi alla Chiesa ed essere governati da un rappresentante del Papa, né poté accettare altre proposte di compromesso, secondo le quali il Re avrebbe dovuto insediare un italiano come governatore e ritirare le truppe di occupazione francesi, giacché sia il Papa sia Carlo d’Angiò esigevano una resa senza condizioni. Così il Bianchi dovette lasciare la città senza aver concluso nulla ma, sebbene egli avesse rappresentato gli interessi del Papa e del Re angioino, non venne tuttavia identificato con gli odiati Francesi. Al contrario, dovette lasciare un buon ricordo nell’isola, come testimonia il cronista Niccolò Speciale parlando della sua seconda legazione in Sicilia nell’anno 1299. Inaspritasi la lotta dopo lo sbarco nell’isola di Pietro d’Aragona (che il Bianchi del resto aveva conosciuto nel luglio del 1279 e perciò il Re aveva tentato di servirsi di lui come intermediario, pregandolo in una lettera del 6 dicembre 1281 di adoperarsi in suo favore presso il Papa), i due pretendenti stabilirono, provocando la costernazione del Papa, di decidere la cosa in duello, di ricorrere cioè a un giudizio di Dio, proibito dal diritto canonico e del resto nel secolo XIII quasi completamente in disuso. In realtà nessuna delle due parti aveva intenzione di farlo svolgere effettivamente, come prova la commedia recitata più tardi a Bordeaux: si volle soltanto guadagnare tempo. Il Bianchi, che evidentemente non aveva potuto impedire la cosa, si mise in viaggio con Carlo d’Angiò verso il nord, probabilmente a metà gennaio se il 28 febbraio 1283 si trovava a Capua. Il Re, passando da Roma e Firenze, proseguì per la Francia. Il 12 gennaio aveva nominato vicario generale del Regno suo figlio Carlo di Salerno, da lui poco stimato, e che lasciò quindi sotto la sorveglianza di suo fratello Roberto di Artois e di altri parenti. Col Bianchi erano state discusse probabilmente quelle riforme che il Principe promulgò il 30 marzo al Parlamento di San Martino (a est di Palmi) e che risultarono vantaggiose soprattutto alla Chiesa e alla nobiltà. Sembra che il Bianchi si sia trattenuto nella parte settentrionale del Regno fino al ritorno di Carlo di Salerno e dell’esercito a Napoli. In questo periodo egli si dedicò a molti piccoli incarichi affidatigli dal Papa. A metà gennaio del 1284 fu molto probabilmente al seguito del principe di Salerno, in cammino per la Puglia. Per il mese di marzo il Bianchi indisse a Melfi un sinodo del clero residente al di là del Faro. Il 28 dello stesso mese promulgò le costituzioni sinodali. Esse presentano particolare interesse perché, oltre a contenere decisioni comuni a quelle di altri sinodi intorno a questioni morali riguardanti clero e laici e circa la difesa dei beni della Chiesa e della libertà delle elezioni ecclesiastiche, si interessano della Chiesa greca in Italia meridionale, che il Bianchi aveva avuto modo di conoscere durante il suo soggiorno nel territorio di Messina e a Reggio. In diretto riferimento alle costituzioni del secondo concilio di Lione (1274), al canone 9 del quarto Concilio lateranense (1215) e a una decretale di Innocenzo III (X 3. 3. 6), si stabilisce che tutti i chierici del Regno inseriscano nei loro libri liturgici il filioque nel Credo e che le competenti autorità ecclasiastiche insedino nelle diocesi a popolazione mista greco-latina un clero adatto per ambedue le comunità. Il sinodo inoltre vietò che chierici di famiglia latina, sposatisi dopo avere ricevuto gli ordini minori e poi passati al rito greco, potessero ricevere gli ordini maggiori e nello stesso tempo continuare la vita matrimoniale, come invece veniva permesso al clero greco della Chiesa romana. Ma il sinodo di Melfi era stato indetto anche con un altro scopo, di cui non si trova traccia nelle costituzioni: il finanziamento della guerra contro gli Aragonesi con le decime di tutte le entrate ecclesiastiche del Regno per i due anni successivi. Questa decima fu votata dal clero presente, approvata dal Papa e riscossa da Carlo di Salerno. Finito il sinodo, il Bianchi tornò immediatamente a Napoli dal Principe il quale, contro il suo parere, il 5 giugno 1284 uscì dal porto per distruggere le basi della flotta aragonese che, sotto il comando di Ruggero di Lauria, bloccava il porto di Napoli. Nell’azione venne catturato dagli Aragonesi. Il Bianchi riuscì a controllare una rivolta scoppiata a Napoli e nei dintorni e definitivamente domata da Carlo I d’Angiò, tornato per mare l’8 giugno. Fallito un tentativo di sbarco in Sicilia e di assedio a Reggio, all’inizio di agosto il Sovrano andò in Puglia, dove alla fine del 1284 si trovava anche il Bianchi, che nel frattempo aveva eseguito altri incarichi di amministrazione ecclesiastica ordinaria ricevuti da Martino IV. Dopo la morte di Carlo I (7 gennaio 1285) il Bianchi insieme col fratello del defunto, Roberto di Artois, fu incaricato dell’amministrazione del Regno, dal momento che il successore al trono era ancora prigioniero, e negli anni successivi ebbe parte notevole nella difesa e nella riforma del Regno. Alla morte di Martino IV (28 marzo 1285) non prese parte all’elezione del successore, papa Onorio IV, il romano Giacomo Savelli, che, proseguendo fondamentalmente la politica del suo predecessore, pur non essendo come lui legato al regime francese nell’Italia meridionale, prese immediatamente contatto con il Bianchi. Il 17 settembre 1285 il Papa promulgò le celebri costituzioni per la riforma del Regno (Constitutiones super ordinatione Regni Sicilie), nell’elaborazione delle quali il Bianchi aveva avuto una parte decisiva, come affermò esplicitamente Onorio IV, e per l’applicazione delle quali egli si impegnò a fondo. Ma in seguito il Pontefice cassò alcune misure di minore importanza prese dal Bianchi, cosa che prova che nei loro rapporti non regnava più un accordo totale. Il Bianchi non prese parte neanche all’elezione di papa Niccolò IV (15 febbraio 1288). Con la liberazione di Carlo di Salerno e la sua incoronazione a re di Sicilia da parte del papa, avvenuta a Rieti il 29 maggio 1289, terminò la sua legazione e la sua reggenza nel Regno. Ma nuovi incarichi lo attendevano: Carlo di Valois, fratello di Filippo il Bello di Francia, che Martino IV aveva investito del Regno di Aragona, ne tentò la conquista e anche in Sicilia si riaccese la guerra. Preoccupato per le notizie provenienti dalla Terra Santa, il Papa tentò una mediazione e il 23 marzo 1290 inviò Benedetto Caetani, il futuro papa Bonifacio VIII, e il Bianchi come legati in Francia. Accanto alla definizione di questioni interne alla Chiesa, in particolare del contrasto tra gli ordini mendicanti e il clero secolare intorno alla confessione, si svolsero, nel febbraio del 1291 a Tarascona, tra Carlo II di Sicilia e ambasciatori aragonesi e inglesi, trattative di pace, che però non portarono ad alcuna soluzione. Non è completamente chiaro il ruolo del Bianchi nel lungo conclave che portò all’elezione di papa Celestino V il 5 luglio 1294. Non essendo romano ed essendo stato inoltre raramente presso la curia negli anni precedenti, egli non entrò per nulla nel conflitto tra gli Orsini e i Colonna, votò per Pietro del Morrone, ma subito dopo, come Benedetto Caetani, gli consigliò l’abdicazione. Oscura è anche la posizione da lui tenuta nel conclave del 23-24 dicembre 1294, dal quale uscì eletto papa Bonifacio VIII. Durante il suo pontificato il Bianchi, ormai alle soglie della vecchiaia, non fu una figura di primo piano. Con la sua abilità diplomatica seppe rimanere estraneo al conflitto con i Colonna e insieme mantenere buoni rapporti con l’ambizioso Caetani. Nella guerra tra Inghilterra e Francia fu favorevole, con Matteo di Acquasparta, al partito fiammingo e fu per questo ricompensato con 200 fiorini l’anno. Dalle relazioni degli ambasciatori di Giacomo II d’Aragona si sa che egli assunse, come legato, una posizione indipendente nei confronti di Bonifacio VIII. Ancora una volta il Bianchi fu chiamato a una missione importante allorché, dopo che il Papa aveva ratificato il 20 giugno 1295 il trattato di pace tra Carlo II e Giacomo II con il quale quest’ultimo rinunziava ai suoi diritti sulla Sicilia, i Siciliani elessero loro re il fratello minore di Giacomo, Federico. Unitisi Carlo e Giacomo nel tentativo di scacciare Federico, il duca Roberto di Calabria, futuro re di Sicilia, e Filippo di Taranto sbarcarono in Sicilia. Presso di loro il Papa inviò il Bianchi come legato pontificio per sostenere ancora una volta la politica angioina con misure ecclesiastiche. Il 19 ottobre 1299 il Bianchi giunse a Milazzo per mare, recandosi poi presso Roberto a Catania. Di lì a due anni, dopo la conclusione di una tregua, il 20 dicembre 1301 si imbarcò per Napoli da dove raggiunse Roma. Secondo le relazioni degli ambasciatori aragonesi, prese posizione sia contro Carlo II sia contro Roberto di Calabria, schierandosi a favore di Federico III di Sicilia. Doveva prendere parte anche alle ultime discussioni sul problema siciliano, ma non poté vedere la conclusione della pace di Caltabellotta (19 aprile 1302), nella quale, e non senza suo merito, Federico fu riconosciuto re dell’isola di Sicilia (Trinacria). Le fatiche dell’ultima legazione minarono le forze del Bianchi, ormai quasi ottantenne: poco dopo il suo ritorno a Roma si ammalò gravemente e morì. Il giorno seguente fu sepolto nella Basilica Lateranense, dove aveva ricoperto la carica di arciprete. Il Papa non prese parte alla cerimonia, ma tra i portatori del feretro furono Carlo II e altri personaggi importanti. La sua tomba, eretta in un primo tempo nel mezzo della navata centrale davanti all’altare di Santa Maria Maddalena, da lui stesso consacrato nel 1297, fu poi spostata tra le due prime cappelle della navata di sinistra, ove ancora si può vedere il disadorno monumento funebre, recante un’iscrizione in lettere gotiche maiuscole.
FONTI E BIBL.: Il formulario del Bianchi del 1277 è stato pubblicato da P. Herde, in Archiv für Diplomatik XIII 1967, 264-312. La prima edizione integrale delle costituzioni sinodali di Melfi è quella curata da P. Herde, in Rivista di Storia della Chiesa in Italia XXI 1967, 45-53: excerpta in E. Martène-U. Durand, Veterum scriptorum amplissima collectio, VII, Parisiis, 1733, 283-287; I.D. Mansi, Sacr. concil. nova et amplissima collectio, XXIV, Venetiis, 1780, 570-575; Pontificia commissio ad redigendum codicem iuris canonici orientalis, Fontes, 3, V, 2, a cura di A.L. Tautu, Città del Vaticano, 1964, 114 s., n. 60. Numerosi documenti inediti del Bianchi sono nell’Archivio Segreto Vaticano, arm. XXXV, vol. 137, ff. 51 r ss. (cfr. K. Rieder, Das sizilian. Formel- und Ämterbuch des Bartholomäus von Capua, in Römische Quartalschrift XX 1906, 3 ss., e G.M. Monti, Dal Duecento al Settecento, Napoli, 1925, 51 ss.); Syllabus membranarum ad Regiae Siciliae Archivum pertinentium, I, 2, Napoli, 1842, ad Indicem; C. Höfler, Albert von Beham und Regesten Pabst Innocenz IV, Stuttgart, 1847, 111 n. 28, 114 n. 30; Les registres d’Innocent IV, a cura di E. Berger, Paris, 1884-1921, ad Indicem; Les registres de Boniface VIII, a cura di A. Thomas, M. Faucon, G. Digard e R. Fawtier, Paris, 1884-1935, ad Indicem; I. Carini, Gli archivi e le biblioteche di Spagna in rapporto alla storia d’Italia in generale e di Sicilia in particolare, II, Palermo, 1884, 44; Les registres de Nicolas IV, a cura di E. Langlois, Paris, 1886-1893, ad Indicem; Les registres d’Honorius IV, a cura di M. Prou, Paris, 1888, ad Indicem; J. Teige, Beiträge zur Gesch. der Audientia litterarum contradictarum, Prag, 1897, passim; Codice diplomatico barese, I-XVII, Bari-Trani, 1897-1943, ad Indicem; Les registres de Nicolas III, a cura di J. Gay e S. Vitte, Paris, 1898-1938, ad Indicem; Les registres d’Urbain IV, a cura di J. Guiraud, Paris, 1889-1958, ad Indicem; Les registres de Martin IV, a cura di F. Olivier Martin, Paris, 1901-1935, ad Indicem; Les registres d’Alexandre IV, a cura di C. Bourel de la Roncière, Paris, 1895-1959, ad Indicem; Acta Aragonensia, a cura di H. Finke, I, Berlin und Leipzig, 1908, 73, 113; L. Auray-R. Poupardin, Catal. des manuscrits de la coll. Baluze, Paris, 1921, 462; Codice diplomatico barlettano, a cura di S. Santeramo, Barletta, 1924-1962, passim; F. Schillmann, Die Formularsammlung des Marinus von Eboli, I, Rom, 1829, nn. 3366-3425; Codice diplomatico salernitano del secolo XIII, II, La guerra del Vespro siciliano nella frontiera del Principato, a cura di C. Carucci, Subiaco, 1934, ad Indicem; Documenti vaticani relativi alla Puglia, I, Documenti tratti dai registri vaticani (da Innocenzo III a Nicola IV), a cura di D. Vendola, Trani, 1940, ad Indicem; B. Mazzoleni, Gli atti perduti della cancelleria angioina, II, Roma, 1942, 68 n. 464; I registri della cancelleria angioina, a cura di R. Filangieri, XVI, Napoli, 1962, 169 n. 571; F. Russo, La guerra del Vespro in Calabria nei documenti vaticani, in Archivio Storico per le Province Napoletane LXXX 1962, 193 ss.; Nicolaus Specialis, Historia Sicula, in L.A. Muratori, Rerum Italicarum Scriptores, X, Mediolani, 1727, 1014 s.; Saba Malaspina, Rerum Sicularum historia, 1. VIII, cc. 9 ss. e passim, in G. Del Re, Cronisti e scrittori sincroni napoletani, II, Napoli, 1868, 339 ss.; Chronicon Parmense, in Rerum Italicarum Scriptores, 2a edizione, IX, 9, a cura di G. Bonazzi, 35, 82; Bartholomaeus de Neocastro, Historia Sicula, in Rerum Italicarum Scriptores, XIII, 3, a cura di G. Paladino, passim; Due cronache del Vespro in volgare siciliano del secolo XIII, in Rerum Italicarum Scriptores, XXXIV, I, a cura di E. Sicardi, passim; Salimbene de Adam, Chronicon, a cura di G. Scalia, Bari, 1966, 744, 746, 760, 864, 867, 923; Matthaeus de Afflictis, In utriusque Siciliae Neapolisque sanctiones et constitutiones novissima praelectio, II, Venetiis, 1580, 149 b; F. Ughelli-N. Coleti, Italia Sacra, I, Venetiis, 1717, coll. 172 s.; G. Grimaldi, Istoria delle leggi e magistrati del Regno di Napoli, II, Lucca, 1733, 386; I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, I, Parma, 1789, 245 ss.; V. Forcella, Iscrizioni delle chiese e d’altri edifici di Roma, VIII, Roma, 1876, 15 n. 17, 17 n. 20; M. Amari, La guerra del Vespro Siciliano, Milano, 1886, I, 240 ss., II, 37 ss.; L. Cadier, Essai sur l’admin. du royaume de Sicile sous Charles Ier et Charles II d’Anjou, Paris, 1891, 53 ss.; B. Pawlicki, Papst Honorius IV., Münster i. Westf., 1891, 10 ss.; O. Schiff, Studien zur Gesch. Nikolaus IV, Berlin, 1897, 17 ss.; H. Finke, Aus den Tagen Bonifaz’ VIII, Münster i. Westf., 1902, 9 ss., XX ss., XLV, LIII ss.; A. Demski, Papst Nikolaus III, Münster i. Westf., 1903, 38 ss.; O. Cartellieri, Peter von Aragon und die sizilian. Vesper, Heidelberg, 1904, ad Indicem; R. Sternfeld, Der Kardinal Johann Gaetan Orsini (Papst Nikolaus III) 1244-1277, Berlin, 1905, 300 ss.; R. Sternfeld, Das Konklave von 1280 und die Wahl Martinus IV (1281), in Mitt. des Inst. fur Österreich. Geschichtsforsch XXXI 1910, 13, 42; F.X. Seppelt, Studien zum Pontifikat Coelestins V, Berlin-Leipzig, 1911, I ss.; E.H. Rohde, Der Kampf um Sizilien in den Jahren 1291-1302, Berlin und Leipzig, 1913, passim; Ch. J. Hefele-H. Leclercq, Histoire des Conciles, IV, I, Paris, 1914, 293 s.; L. Testi, Le baptistère de Parme, Firenze, 1916, 262 s.; R. Morghen, Il cardinale Matteo Rosso Orsini, in Archivio della Regia Società romana di Storia Patria XLVI 1922, 271 ss.; F. Rutlini, Dante e il protervo decretalista innominato (Monarchia III. III. 10), in Memorie della R. Accademia delle Scienze di Torino, s. 2, LXVI 1922, passim; R. Fantini, Il cardinale Gerardo Bianchi, in Archivio Storico per le Province Parmensi, n.s., XXVII 1927, 231 ss.; T.S.R. Boase, Boniface VIII, London, 1933, ad Indicem; G. Digard, Philippe le Bel et le Saint-Siège, Paris, 1936, 45 ss.; E. Sthamer, Das Amtsbuch des sizilischen Rechnungshofes, Burg bei Magdeburg, 1942, 78; A. Mercati, Saggi di storia e letteratura, I, Roma, 1951, 116 ss.; E.G. Léonard, Les Angevins de Naples, Paris, 1954, ad Indicem; S. Runciman, The Sicilian Vespers, Cambridge, 1958, ad Indicem; F. Baethgen, Ein Pamphlet Karls I. von Anjou zur Wahl Papst Nikolaus III, München, 1966, 1 ss.; F. Liotta, Appunti per una biografia del canonista Guido da Baisio, arcidiacono di Bologna, in Studi Senesi, s. 3, XIII 1964, 18 s.; P. Herde, Die Legation des Kardinalbischofs Gerhard von Sabina während des Krieges der Sizilischen Vesper und die Synode von Melfi (28 März 1284), in Rivista di Storia della Chiesa in Italia XXI 1967, 1-53; P. Herde, Ein Formelbuch Gerhards von Parma mit Urkunden des Auditor litterarum contradictarum aus dem Jahre 1277, in Archiv für Diplomatik XIII 1967, 225-312; P. Herde, Beiträge zum päpstlichen Kanzlei- und Urkundenwesen im 13. Jahrhundert, Kallmünz, 1968, 33-36 (negli ultimi tre lavori si trova ulteriore bibliografia); P. Herde, in Dizionario biografico degli Italiani, X, 1968, 96-101.

BIANCHI GERARDO Parma 1257 c.-
Figlio di Guglielmo. Nipote del cardinale omonimo. Fu arcidiacono della chiesa di Tolosa.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 124.

BIANCHI GHERARDO, vedi BIANCHI GERARDO

BIANCHI GIACOMO Parma 1260 c.-post 1335

Figlio di Guglielmo. Il Bianchi fu partigiano di Azzo da Correggio, che nel 1335 ospitò nella sua casa situata sotto la vicinia di San Tommaso in Parma.
FONTI E BIBL.: M. de Meo, in Gazzetta di Parma 9 novembre 1998, 27.

BIANCHI GIAMBATTISTA Parma 1573/1600

Pittore. Il 6 marzo 1591, alla notizia dell’elezione a cardinale di Odoardo Farnese, il Comune di Parma indisse un festeggiamento con una macchina di fuochi artificiali decorata da alcuni artisti: a questo proposito l’8 marzo 1591 vennero pagati don Battista da Santa Maria Maddalena per festoni per gli stemmi, il Bianchi e Giovanni Antonio Paganino per uno stemma grande (Archivio di Stato di Parma, Archivio Comunale, Ordinazioni Comunali del 1591). Il 15 e il 18 marzo 1598 il Bianchi fu pagato 14 lire e 12 soldi per stemmi e altre pitture (Archivio di Stato di Parma, Registro di spese fatte dalla Compagnia della Carità). Il 7 giugno 1594 fu pagato per dipingere cinque bastoni per la festa del Corpus Domini a 15 soldi l’uno (Archivio di Stato di Parma, Archivio Comunale, Ordinazioni Comunali del 1594). Sulla possibile identità di questo personaggio, sul Bénézit si legge che un Giovanni Battista Bianchi, scultore, nato a Saltrio forse nel 1520, morto a Roma il 14 dicembre 1600, fu restauratore di opere antiche in possesso del cardinale Farnese (cfr. Bertolotti, Artisti lombardi a Roma, in Archivio Storico Lombardo, III, 1876, X; P. Zani, Enciclopedia; Winckelmann, Werke, 1847, p. 423; Kinkel, Mosaik zur Kunstgeschichte, 1876; Zeutschriften, f. bild., K., NF XIV, 171). Un altro artista omonimo fu attivo come pittore a Mantova tra il 1573 e il 1595 (cfr. Carlo d’Arco, Arti e artefici di Mantova, 1857, II, 259).
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, vol. IV, cc. 80-81; Archivio Storico per le Province Parmensi 1994, 318.

BIANCHI GIOVAMBATTISTA 

Borgo San Donnino 1683-Borgo San Donnino 29 maggio 1742
Studiò nel Seminario Diocesano di Borgo San Donnino. Ordinato sacerdote, alternò alle cure del sacro ministero quelle per le lettere, cui si dedicò con passione, disponendosi in pari tempo ad apprendere le lingue estere. Perfetto conoscitore dell’idioma francese, tradusse con eleganza di forma produzioni letterarie di quel paese. Tra le opere del Bianchi vanno ricordate le versioni dal francese delle Lettere spirituali del padre gesuita Claudio de la Colombière, edite nel 1719 a Venezia da Sebastiano Coleti e una Storia delle Rivoluzioni d’Inghilterra, dall’origine della monarchia all’anno 1691, scritta da padre Pierluigi Giuseppe d’Orléans, stampata dallo stesso editore veneziano nel 1724. Allorché il Bianchi morì, ebbe sepoltura nella vecchia chiesa dei padri cappuccini in Borgo San Donnino, e una lapide ne rammentò le benemerenze.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 76-77.

BIANCHI GIOVANNI
Parma 1276
Figlio di Oddone e nipote del cardinale Gerardo Bianchi. Fu notaio attivo nell’anno 1276.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 124.

BIANCHI GIOVANNI
Parma 1258 c.-
Figlio di Guglielmo. Nipote del cardinale Gerardo Bianchi. Fu arcidiacono e canonico della Cattedrale di Parma.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 124.

BIANCHI GIOVANNI ANDREA Parma 1486-Roma 10 agosto 1566
Uomo enciclopedico, di padre valtellinese, fu apprezzato dall’Ugoleto, dall’Anselmi e dal Grapaldo. Fu un veterano dell’insegnamento universitario in Bologna. Detto anche Albio o Albo da Parma, il Bianchi lesse medicina pratica dal 1525 al 1566. Il suo nome è noto anche per aver scritto la vita del concittadino Francesco Mario Grapaldo, illustre poeta e architetto. Il Bianchi godette molta celebrità, come ricorda nella lettera trentesima il Teodosi, che lo chiama virum ingenii singularis et qui Galeni doctrina imprimis delectatur. Appunto per questa sua fama, secondo il Marini (Degli Archiatri pontificî, Roma, MDCCLXXXIV, I, 430), egli fu anche a Roma, medico di papa Pio IV, dal 1561 alla sua morte (1566). Ma i Rotoli lo danno sempre presente all’insegnamento nello Studio bolognese fino al 1566 e pertanto la notizia non è sicura. Gli è attribuito il trattato De Aquis, in dialoghi (Medici, p. 78). L’Affò lo ricorda nella Vita di Francesco Mazzola a proposito del San Paolo che il pittore dipinse per il Bianchi, seguendo quanto dice il Vasari (a facc. 848 della terza parte delle sue Vite, Firenze, 1550): Poi fece un quadro con un San Paolo per l’Albio Medico Parmigiano, con un paese et molte figure, che fu stimato cosa rarissima. Il Da Erba lo ricorda con queste parole: A’ nostri tempi imperante Carlo V fu gioanandrea di Bianchi cognominato Albio, grandissimo filosofo; massimo anothomista, et ottimo medico quale leggendo et insegnando pubblicamente longo tempo in Bologna, fu creato citadino: e fu dopo medico di Papa Pio 4°; et scrisse alcune cose de l’arte della medicina; sei Dialoghi de l’acque; et la vita del famosissimo Poeta Francesco Mario di Grapaldi.
FONTI E BIBL.: R. Fantini, Maestri a Bologna, in Aurea Parma 1930, 76-77; Parma nell’Arte 1 1972, 33.

BIANCHI GIOVANNI BATTISTA, vedi BIANCHI GIAMBATTISTA

BIANCHI GIOVANNI FRANCESCO
Parma 1697/1711
Capitano. Il duca di Parma Francesco Farnese con Privilegio del 12 marzo 1697 lo creò nobile di Parma. Il Privilegio fu registrato il 16 marzo successivo negli atti del Comune della città di Parma e interinato il 26 marzo 1698. Il Bianchi, il 22 gennaio 1711, ottenne il brevetto di ben servito dallo stesso Duca che lo degnò di particolare benevolenza.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare. Appendice 1 1935, 362.

BIANCHI GIUSEPPE Borgo San Donnino 1554
Nell’anno 1554 fu pretore e commissario di Castel San Giovanni a nome di Sforza Sforza di Santafiora.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 133.

 BIANCHI GIUSEPPE Parma-Parma dicembre 1784
Figlio di Antonio, detto anche l’Ainé, il primogenito, fece parte della compagnia Delisle come figurante dal 1756 e danzò nei balli Aci e Galatea, Ricimero re dei Goti, Castore e Polluce (1758), Titone e l’Aurora, Ippolito e Aricia (1759) e I Tindaridi (1760). Nel 1760 fu al Teatro Formagliari di Bologna nell’Antigone e nel settembre ballò a Parma nelle grandi Feste di Imeneo. Il 17 febbraio 1761 il contratto per potersi recare a Parigi con Antonio Campioni a approfittare di quei Maestri, de quali, senza una tanta Grazia, io non potrei mai giovarmene, fu controfirmato dal padre Antonio (Archivio di Stato di Parma, Spettacoli e Teatri Borbonici, b. 1). Non si sa, però, se effettivamente vi andò, in quanto le notizie da Parigi riguardano esclusicamente il fratello Gaspare. Il 15 dicembre 1763 venne nominato maestro di ballo dei principi, essendo malato il maestro Dumet, e il 21 aprile 1764 ottenne la nomina definitiva al prestigioso incarico con il soldo di annue 12 mille (Archivio di Stato di Parma, Decreti e Rescritti). In quello stesso anno fu coreografo, assieme ad Antonio Campioni, e ballerino nelle stagioni di Carnevale e di primavera al Teatro Ducale di Parma, attività che svolse anche l’anno seguente. Nell’aprile 1766 ballò a Milano nelle feste per il fidanzamento di Maria Beatrice d’Este con Ferdinando d’Asburgo e nel Carnevale 1766-1767 fu primo ballerino e coreografo dei balli del Tigrane e dell’Ipermestra e nel 1768 fu nominato maestro della Scuola di Ballo. Nell’agosto 1769 compose e diresse gli spettacoli coreutici in occasione delle Feste di Apollo allestite per le nozze dell’infante del duca. Per la circostanza diresse il ballo di Pastori e Pastorelle delle favole Licida e Mopso ed Eco e Narciso, rappresentate al Real Teatro di Colorno e in quello di Parma, come pure nella Cantata a 3 voci che introduce al Ballo rappresentante la favola Aci e Galatea. Nei libretti di questi spettacoli è indicato come maestro di ballo di SAR. Nel 1770 sposò la ballerina Giustina Campioni, sorella del collega Antonio Campioni. Nell’estate 1772, oltre ai balli a Parma, diresse gli spettacoli allestiti nella reggia estiva di Colorno. Nel 1773 Filippo Carmignani pubblicò un opuscolo dedicato Al singolar merito dell’egregio Signor Giuseppe Bianchi, inventore e direttore dei balli eseguiti dalla Reale Scuola nel Regio Ducal Teatro di Parma il carnevale dell’anno 1773. Nell’agosto 1773 diresse i balli della pastorale Uranio e Erastica, rappresentata al Teatro Ducale per la nascita del figlio del duca, e nel Carnevale del 1774 con i balli dell’Inimico delle donne, compose quello de Le Ninfe di Diana, dove si esibirono ancora gli allievi della Scuola. Nel luglio 1784, maestro di ballo delle Reali Altezze, ricevette una gratifica di 45 zecchini mentre da un decreto del 27 dicembre risulta che venne accordata la pensione vedovile di 4000 lire annue a Giustina Campioni.
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario, 1998.

BIANCHI GIUSEPPE Parma 1831
Sottotenente, nipote del generale piacentino Federico Bianchi. Negatogli dal governo borbonico il permesso di congiungersi in matrimonio, lo ottenne dal governo rivoluzionario del 1831. Fu allora dimesso e non più richiamato in servizio. Fu sottoposto a visita e sorveglianza perché giudicato alquanto esaltato.
FONTI E BIBL.: O. Masnovo, Patrioti del 1831, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1937, 146.

BIANCHI GIUSEPPE Parma-post 1846
Ottimo suonatore di violino e pianoforte, nel Vocabolario topografico del Molossi si legge che nel 1832 era attivo a Zibello, dove aveva diversi allievi e dove lavorava nel teatro. Il 25 giugno 1846 fu assunto quale direttore del coro della chiesa di Santo Stefano di Casalmaggiore. La domanda a occupare questo posto proveniva da San Secondo (Casalmaggiore, Archivio del Duomo).
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario, 1998.

BIANCHI GIUSEPPE Parma-post 1842
Clarinettista. Sulla Gazzetta di parma del 12 marzo 1842, Lorenzo Molossi di lui scrive: Un nostro concittadino, verificatore della Dogana principale di Parma, ingegnoso meccanico, dilettante di clarinetto, e che assai bene lavora a tornio, dopo varj tentativi ha ideato di costruire i bocchini d’alabastro: e si fatto esperimento ebbe risultati felici, poiché ho per prova mia propria, e per fede altrui, ch’essi rimangono del tutto inalterati dall’azione del calore e dell’umidità e rendono suoni agevoli, limpidi, gagliardi e di molta dolcezza in tutta l’estensione dell’istrumento e oltre a ciò, sono di una vaghezza a vedersi. I nuovi bocchini del Bianchi, sebbene abbiano le medesime dimensioni di quelli che ci vengono dalla Francia, pure alzano alcun poco il tono del clarinetto, sicché ragguaglia benissimo il corista che usiamo qui, anzi arditello che no.
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario, 1998.

BIANCHI GIUSTINA, vedi CAMPIONI GIUSTINA

BIANCHI GUGLIELMO
Parma 1231 c.-
Figlio di Alberto e Agnese e fratello di Gerardo. Fu giudice in Parma.
FONTI E BIBL.: M. de Meo, in Gazzetta di Parma 9 novembre 1998, 27.

BIANCHI ICILIO ATTILIO
Parma 28 febbraio 1850-1921
Poco più che decenne, alternò lo studio del leggere e dello scrivere nella canonica di San Quintino in Parma, con l’impegno di tirare il mantice nella bottega del padre Antonio. Nei ritagli di tempo, però, non trascurò di tracciare sul muro e sulla carta abbozzi di figure da cui era possibile intravedere una chiara attitudine all’arte della pittura. A due anni rimase orfano della madre, Angela Melegari. Fin dall’infanzia, la passione per il disegno e la pittura gli fu di grande conforto. Trascorsi alcuni anni dalle sue primissime esperienze artistiche, Antonia Vernizzi, proprietaria di una casa in borgo Antini, sorpresa dai progressi conseguiti dal Bianchi, lo invitò ad affrescare una Madonna col Bambino sotto la volta di quella via. Il lavoro riuscì sorprendente e di piena soddisfazione dei parrocchiani. Allora la committente stessa pensò di presentare il Bianchi al professor Scaramuzza, pittore e insegnante nell’Accademia di Belle Arti di Parma, il quale lo invitò subito a frequentare la scuola per compiervi regolari corsi di disegno. Dai corsi del disegno figurativo e quelli di architettura, passò nella scuola di paesaggio, che era più congeniale al suo temperamento, amante delle ampie e luminose visioni della natura. Era una sezione speciale, diretta dal professor Giulio Carmignani. Altri suoi maestri furono Giacopelli, Affanni, Magnani e Gaibazzi. Ma soprattutto studiò il pittore bussetano Alberto Pasini, egregio orientalista, notissimo in Italia e all’estero. A ventidue anni, concluse gli studi all’Accademia, diplomandosi onorevolmente. In quell’occasione, come d’uso alla fine di ogni anno scolastico, espose a una mostra collettiva indetta dalla Società d’Incoraggiamento, due dipinti, presi dal vero, raffiguranti scorci caratteristici della campagna parmigiana, in cui sono ormai inconfondibili i termini pittorici di una nuova tecnica, che salivano gradualmente a risolversi negli aspetti di una spontanea, impulsiva freschezza. Nelle esposizioni successive ebbe uguale successo, dando l’impressione della immutabilità del suo modo d’interpretare il paesaggio dal vero. Da quell’epoca, la pittura paesistica parmigiana prese una svolta decisiva verso quella impressionista, della quale il Bianchi fu l’indiscusso alfiere. Il Bianchi realizzò anche dipinti ispirati alla città di Parma, con la sua gente, i suoi borghi e i suoi torrenti, come la tavola il Torrente Cinghio, conservata presso l’Amministrazione Provinciale di Parma (olio su tela, datato 1890, di cm 80x100), esposto nella mostra La città latente (1996). Questo dipinto tutto padano ispirato alla periferia della città, presenta il torrente Cinghio con le sue acque limpide che scorrono lentamente nella pianura tra pioppi spogli di foglie, con un ponticello di legno e una donna che lava il bucato: una scena bucolica che infonde una romantica e tranquilla atmosfera. Oltre un Ritratto del padre, di modeste proporzioni ma di sicuro effetto pittorico, opere inedite si possono rintracciare presso privati, come una Scena di caccia e un’interessante Battaglia (firmata e datata, di cm 73,5x117) di riminiscenza pasiniana, dove il Bianchi sa cogliere con grande abilità una velocissima corsa di un cammello sormontato da un soldato nell’atto di sparare ai nemici che lo rincorrono. Cominciò a esporre nel 1872 per l’Incoraggiamento la Via presso lo Stradone di Parma che fu vinto dalla Pinacoteca di Parma. Due anni dopo il Comune di Zibello acquisì la replica variata del dipinto e nello stesso 1874 quello di Trecasali ebbe il Merciaio ambulante. Indi nel 1877, assieme a Mentore Silvani e a Settimio Fanti, vinse ex-aequo il concorso di aiuto per la cattedra di paesaggio presso l’Accademia, ma il verdetto non ebbe effetto perché fu soppressa tale specializzazione. Poche altre notizie restano del Bianchi, che ebbe uno studio in borgo delle Grazie e che presso l’albergo Croce Bianca per circa venti anni espose in permanenza sue opere. Nel 1890 poi l’Incoraggiamento sorteggiò all’Istituto P. Toschi Autunno e tre anni dopo espose nella sala del Ridotto del Teatro Regio Autunno, Rive di Monticelli e un altro quadro. La carriera del Bianchi fu contrastata da molte amarezze. Nel 1873 il padre rimase accecato nello scoppio accidentale di dinamite sullo Stradone, dove rimasero uccise molte persone. Poco dopo lo deluse l’esito del concorso indetto dall’Accademia per il posto di assistente nella scuola di paesaggio, e in quegli anni anche i suoi quadri stentavano a incontrare la benevolenza del pubblico. Sposata Medea Massari, figlia di un comprimario, col passare degli anni il Bianchi dimostrò di possedere la facoltà interpretativa di risolvere i problemi del disegno e del colore con la sicurezza del maestro, rendendoli spogli dalle apparenze affaticate o banalmente chiaroscurate, ma espressi, invece, nelle simbiosi colorate, le più strane. Malgrado tanta attitudine all’arte, il Bianchi dovette spesso dedicarsi a dei lavori pittorici di minor impegno del suo preferito per colpa della pesante crisi economica in cui versò Parma sul finire del XIX secolo. Il Bianchi si arrangiò decorando chiese, teatri e ville, dedicandosi al restauro e ad altre pitture di minor conto, a tutto danno della sua vera capacità pittorica. Fu amico di Fattori, Fontanesi, Michetti, Del Grosso, Chierici, Bruzzi e altri valenti pittori, ai quali si trovò al fianco nelle esposizioni di Milano, Torino, Firenze, con delle proprie opere di paesaggi e figurative. Ebbe altresì l’amicizia e la stima di tutti gli artisti parmigiani suoi contemporanei: Giuseppe Bricoli (che fu suo allievo), Paolo Baratta, Carmignani, Amedeo Bocchi, Renato Brozzi, Latino Barilli, Riccardo Fainardi, Renato Vernizzi, Orlando Bianchi, Vittorio Rota e Daniele De Strobel. E tra gli studiosi di cose d’arte, ebbe la stima di Glauco Lombardi, Giovanni Copertini, Laudedeo Testi, Nestore Pelicelli, Arnaldo Barilli. Fu pure un prospettivista e un abile scenografo. Esperto nell’arte dell’affresco e del restauro, operò anche per Corrado Ricci e Laudedeo Testi, sovrintendenti alle gallerie d’antichità di Parma. Nel 1950 Leonardo Borghese, sul Corriere della Sera, in una recensione su una mostra personale di Renato Vernizzi a Milano, menzionò il Bianchi quale iniziatore della pittura impressionista a Parma, negli ultimi trent’anni dell’Ottocento. Per un cinquantennio fu membro dell’Accademia di Belle Arti di Parma, coprendo in diversi periodi la carica di consigliere. In varie occasioni venne richiesto quale componente le commissioni per la premiazione in manifestazioni artistiche indette dalla Società di Incoraggiamento e dal premio artistico Perpetuo al concorso Pollini-Rizzoli.
FONTI E BIBL.: R. De Croddi, 1893, 372; P., in Gazzetta di Parma 1893; G. Copertini-G. Allegri Tassoni, 1971, 132-133; Mecenatismo e collezionismo pubblico, 1974, 110; V. Bianchi, Le veglie di Bianchi, 1974, 167-170; M. Sacchelli, in Gazzetta di Parma 7 ottobre 1996, 5.

BIANCHI ICINIO 

Ronco Campo Canneto 27 aprile 1883-Parigi 29 luglio 1929
Figlio di Celeste e Annunziata Raffaini. Da Ronco Campo Canneto andò bambino a Parma e subito fu messo a padrone da un calzolaio. Apprese bene e presto il mestiere, tanto che a diciassette anni fu in grado di rendersi indipendente. Si inserì presto anche negli ambienti politici, dove, fin dai primi del Novecento, occupò posizioni di rilievo quale organizzatore e quale propagandista con scritti sui periodici Il Presente e Il Calzolaio. Il Bianchi possedette le qualità per emergere dalla massa anonima dei lavoratori e rendersene rappresentante. Misura e saggezza: questi gli aspetti primi del suo carattere. Oltre gli incarichi politici, egli fu consigliere comunale per diversi anni e fece parte di quell’eccezionale gruppo di amministratori municipali che, sindaco l’avvocato Erminio Olivieri, comprese tra gli altri il celebre penalista Agostino Berenini, l’altrettanto noto Enrico Redenti, insigne maestro del diritto civile, il senatore Mariotti, gli avvocati Bocchialini, Cocconi, Pangrazi e Baracchini, il critico musicale Silvio Cervi, il pittore Paolo Baratta e il professore Teodosio Marchi. Egli mostrò tale abilità organizzativa e tale equilibrio, che gli venne affidato l’incarico di segretario generale dell’Associazione Lavoratori del Cuoio e della Pelle, categoria professionale fortissima a Parma e in Toscana. Il Bianchi fu anche uno dei fondatori della Lega Italiana per il Diritti dell’Uomo. Malgrado tutto ciò la sua figura rimase piuttosto evanescente nell’ampio e movimentato quadro politico cittadino: il Bianchi, che pure godette la stima di insigni concittadini, che fu amico di Enrico Ferri, di Turati, di Corridoni, di De Ambris, fu infatti sempre discreto e prudente, pur in un continuo, assillante rovello alla ricerca di un fine nobile e difficile, la fratellanza e la concordia degli uomini. Ma con ogni probabilità lui stesso capì che le sue ambizioni, con l’avvento del fascismo, altro non erano che un sogno. Non si potrebbe altrimenti spiegare la sua silenziosa sparizione da Parma, la sua solitaria partenza per la Francia, l’abbandono della casa e della famiglia (la moglie e quattro figli in tenera età). Partì nel 1923, senza esitazione, per tenere fede a quell’ideale che antepose a ogni altro sentimento. A Parigi visse chiuso nelle speranze perdute e nella struggente nostalgia della sua casa. E per mangiare riprese il mestiere di calzolaio. Morì in età di 46 anni, all’ospedale di Saint Antoine. Nel giornale Libertà, che si stampava a Parigi in lingua italiana, Alceste De Ambris scrisse di lui: È morto ancora giovane, la settimana scorsa, nell’ospedale più proletario di Parigi, quello di S. Antoine, dove era stato ricoverato in seguito alla rottura di una gamba, dovuta non già a un accidente, ma al completo sfacelo del suo povero organismo. Icinio Bianchi, difatti, conosceva bene l’ospedale in cui si è spento per avervi trascorso parecchi mesi, colpito da una misteriosa malattia, ribelle a tutte le indagini e a tutte le cure, da lui sopportata, durante quattro anni, con sereno stoicismo. Era un’anima semplice e buona, dotata della rara virtù del sacrificio senza ostentazioni, un eroe umile e oscuro la cui scomparsa lascia un vuoto nel cuore di quanti l’hanno potuto conoscere e apprezzare. La sua salma fu sepolta al cimitero di Panten.
FONTI E BIBL.: L. Fietta, in Gazzetta di Parma 19 ottobre 1970, 3; M. Bommezzadri, in Gazzetta di Parma 6 marzo 1978, 6.

BIANCHI LODOVICO Sissa 15 novembre 1569-Parma 1645
Nacque da Giacopo e da Domenica. Studiò lettere e filosofia. Deliberatosi di intraprendere la via ecclesiastica, si applicò alla teologia (fu allievo di Firmiano Mediolaco) e ne riportò la laurea nella sala del Palazzo episcopale di Pavia il 9 maggio 1597. Ritornato a Parma, frequentò le conversazioni accademiche. Vi era a Parma in quel tempo Tommaso Stigliani, divenuto cortigiano del duca Ranuccio Farnese, e il Bianchi entrò in amicizia con lui. Ma proprio lo Stigliani fece uso nel suo Occhiale, contro l’Adone del Marini, impresso nel 1627, delle burlesche e ridicole fogge usate per divertimento dal Bianchi citandole non senza sarcasmo e disprezzo sotto nome del Sissa, volendo far credere che di quei modi così impropri e sciocchi il Bianchi si pavoneggiasse. Il padre Angelico Aprosio, pubblicando la prima parte del Veratro, contro lo Stigliani, impressa nel 1647, a proposito dell’accusa data da costui al Marini di svaligiare gli autori, scrive: Pare a me, che li svaligiate voi, avendoli contraffatti negli Amori giocosi, ne’ versi che faceste vedere sotto nome del Dottor Lodovico Bianchi di Sissa, e’n queste, che sotto nome del Vannetti avete stampati nell’Occhiale. Voi vi burlate de’ versi del Dottor Bianchi; ma vi fo sapere, che sono molto migliori de’ vostri, e che val più un Canto della Giuditta, che tutto ’l Colombajo (Veratro, parte I, pag. 262). Queste lodi, l’amicizia che il Bianchi conservò con diversi uomini illustri, tra i quali Antonio Bruni, e i servigi che prestò ai duchi di Mantova e di Guastalla, che molto lo stimarono, testimoniano della distinzione che egli raggiunse. Il Bianchi fu fatto arciprete della villa di San Pancrazio: lo era sin da quando nel 1606 diede una canzone a Francesco Ugeri da stamparsi nella Raccolta per le Nozze di Gian Francesco Sanseverino con Costanza Salviati. Lasciò poi quella chiesa per servire a Mantova e Guastalla. Ridottosi a vita privata, ebbe un canonicato nel Battistero di Parma, dove, alla sua morte, fu apposta la seguente iscrizione: Can. Lvdovici Bianchi Sacrae Theologiae Doctoris Cineres MDCXLV. Venne ancora ricordato con lode dal Maracci nella Bibliotheca Mariana, dal Mazzuchelli e da altri.
FONTI E BIBL.: I. Affò, Memorie degli scrittori e letterati parmigiani, 1797, V, 62-64.

BIANCHI LUCHINO, vedi BONATI LUCHINO

BIANCHI LUIGI Parma-1855
Barone e avvocato, fu Progovernatore di Guastalla nel 1821 e Governatore di Piacenza nel 1831. Fu nominato cavaliere (1824) e commendatore (1830) dell’Ordine Costantiniano di San Giorgio.
FONTI E BIBL.: M. de Meo, in Gazzetta di Parma 9 novembre 1998, 27.

BIANCHI LUIGI Parma 18 gennaio 1856-Pisa 6 giugno 1928
Figlio del giurista Saverio. Entrato alla Scuola Normale Superiore di Pisa il 14 novembre 1873, si laureò in matematica il 30 novembre 1877. Fu abilitato all’insegnamento il 13 gennaio 1879 e vinse concorsi per posti di perfezionamento (a Pisa per il 1877-1878 e 1878-1879, all’estero per il 1879-1880 e 1880-1881). Fu professore nella Scuola Normale Superiore di Pisa dal 1881-1882 e professore nell’Università di Pisa dal 3 aprile 1886. Le ricerche del Bianchi furono rivolte alla geometria differenziale, alla teoria dei numeri e all’analisi pura. A lui si devono importanti teoremi di unicità per i problemi al contorno delle equazioni di tipo ellittico e qualche teorema di esistenza. Inoltre svolse uno studio che è quasi la prefazione alla teoria dei sistemi in involuzione di equazioni alle derivate parziali e altre ricerche sulla teoria delle caratteristiche e sul metodo di Riemann. Alla teoria dei gruppi continui portò contributi importantissimi: specialmente con la generalizzazione del gruppo complementare e con la ricerca delle geometrie a tre dimensioni di Riemann che ammettono un gruppo continuo di movimenti. Notevole anche una Memoria sulle funzioni ellittiche (di ispirazione kleiniana) che si riconnette alla teoria dei sottogruppi congruenziali del gruppo modulare. Nella teoria dei numeri taluni importanti ricerche si riannodano alla teoria dei poligoni o poliedri fondamentali, alle loro applicazioni alla teoria delle forme aritmetiche e degli ideali. La parte fondamentale ed essenziale della produzione del Bianchi è però relativa al campo della geometria differenziale, cui si dedicò dalla tesi di laurea fino alla Memoria postuma, edita nel 1928. Egli si occupò di tutti gli argomenti della geometria differenziale, scoprendo imprevedute relazioni tra le parti di questa disciplina. Notevole l’intuizione geometrica del Bianchi: ne è esempio la scoperta del teorema sulla generazione cinematica delle superfici W. Una delle sue scoperte più geniali è quella delle trasformazioni delle superfici applicabili sulle quadriche: dimostrò l’applicabilità di due superfici mediante l’affinità di Ivory, risolvendo così un problema da molti lasciato senza speranza di soluzione. I campi più elaborati dal Bianchi furono la teoria dei sistemi ciclici e più generalmente dei sistemi di Lamé, la teoria delle congruenze W, le trasformazioni (asintotiche) che fanno passare dall’una all’altra falda focale di tale congruenza, e la teoria delle trasformazioni per inviluppi di sfere delle superfici e dei sistemi di Lamé, in particolare le trasformazioni conformi delle superfici per inviluppi di sfere che conservano le linee di curvatura. Il Bianchi iniziò la sua carriera con la scoperta della trasformazione complementare che da una superficie a curvatura costante negativa deduce altre superfici con la medesima curvatura. Questa trasformazione, da lui sviluppata nella tesi di laurea, si presentava dal punto di vista analitico così interessante che lo stesso S. Lie la fece oggetto di accurate ricerche e che, partendo da essa, si creò la teoria generale delle trasformazioni di Bäcklund. Il Bianchi si dedicò all’approfondimento del lato geometrico della teoria, creando per ampie classi di superfici la teoria delle trasformazioni asintotiche. Così, se di una superficie si conoscono tutte le trasformate, il teorema di permutabilità del Bianchi assicura che la determinazione delle trasformate di queste ultime, cioè la ripetuta applicazione di una trasformazione asintotica, non richiede che calcoli algebrici e di derivazione. Nel caso delle superfici, una trasformazione di contatto di Lie che porti le rette in sfere fa corrispondere alle trasformazioni asintotiche le trasformazioni di Ribaucour. Il Bianchi studiò a lungo tali trasformazioni, deducendone nuove trasformazioni per le superfici isoterme e portandone la teoria, con l’estensione del teorema di permutabilità, alla stessa perfezione cui era stata portata la teoria delle trasformazioni asintotiche. Tra i risultati fondamentali di tutte queste ricerche si deve ricordare la teoria delle trasformazioni delle superfici applicabili sulle quadriche che gli valse un premio dell’Accade mia di Francia. Nei Mémoires des savants étrangers sono riassunte le sue ricerche, notevoli per le difficoltà superate e per l’importante scoperta delle superfici coniugate in applicabilità. Notevole l’aspetto geometrico delle indagini e le sue relazioni con la teoria dei sistemi confocali di quadriche, la cui scoperta, da sola, può dimostrare quanto profonda fosse l’intuizione geometrica del Bianchi. Si dedicò pure ai problemi delle geometrie non euclidee: a questo proposito si ricordano le ricerche fondamentali sulle superfici non euclidee a curvatura nulla, la prima scoperta delle trasformazioni delle superfici applicabili su un paraboloide e la scoperta di nuove trasformazioni per le superfici isoterme. Nell’ultimo periodo della sua attività scientifica il Bianchi svolse un gruppo di ricerche cui si riconnette anche il lavoro postumo citato: le ricerche sugli enti di rotolamento (luoghi di punti, congruenze di rette, inviluppi di piani). Questi studi gli permisero di fondere in un tutto armonico ricerche sue e di altri e di trovare inaspettati rapporti con la teoria delle trasformazioni. Furono così messe in nuova luce sia la teoria delle trasformazioni di Ribaucour, sia le sue applicazioni alle superfici isoterme. Il Bianchi fu cavaliere dell’Ordine Civile di Savoja, senatore del Regno (1924), membro del Consiglio Superiore della Pubblica Istruzione e accademico nazionale dei Lincei. Tra le molte opere del Bianchi si citano: Sulle superfici applicabili, tesi di laurea pubblicata in Annali della R. Scuola Normale Superiore di Pisa del 1878; Lezioni di geometria differenziale, Pisa, 1887 (2a ed. 1894; traduzione tedesca di M. Lukot, Leipzig, 1896 e 1899); Lezioni sulla teoria dei gruppi di sostituzioni e delle equazioni algebriche secondo Galois, Pisa, 1897; Lezioni sulla teoria delle funzioni di variabile complessa e delle funzioni ellittiche, Pisa, 1898-1899; Lezioni sulla teoria dei gruppi continui finiti di trasformazioni, Pisa, 1903; Lezioni sulla teoria aritmetica delle forme quadratiche binarie e ternarie, Pisa, 1909; Lezioni di geometria analitica, Pisa, 1915; Lezioni sulla teoria dei numeri algebrici e principi di aritmetica analitica, Pisa, 1921; Congruenze di sfere di Ribaucour e superfici di Petersen, memoria postuma, Bologna, 1928; vanno inoltre ricordati i numerosissimi contributi pubblicati dal Bianchi in Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei dal 1884 al 1924.
FONTI E BIBL.: G. Fubini, Commemorazione di Bianchi Luigi, in Rendiconti della R. Accademia Nazionale dei Lincei, classe di scienze fisiche, appendice, s. 6, X 1929, XXXIV-XLIV; Luigi Bianchi e la sua opera scientifica, in Annali di Matematica, s. 4, VI 1928-1929, 45-83; B. Molossi, Dizionario biografico, 1957, 29; A. Carugo-F. Mondella, Lo sviluppo delle scienze e delle tecniche in Italia, in Nuove questioni del Risorgimento e dell’unità d’Italia, II, Milano, 1961, 444 s., 501; E. Pozzato, in Dizionario biografico degli Italiani, X, 1968, 142-145.

BIANCHI ORLANDO 

Noceto 11 luglio 1892-16 febbraio 1923
Nacque da Attilio e Isotta Tedeschi. Paesaggista e ritrattista di impostazione romantica, dotato di una sottile malinconia e di una trepida vena sentimentale fu a torto dimenticato dalla critica nazionale. I suoi lavori sono pregevoli tanto dal punto di vista artistico, quanto da quello interpretativo, secondo la sensibilità cromatica dell’Ottocento e la tendenza a considerare il vero come unica fonte di osservazione e di ispirazione. Uscito dalla scuola di Paolo Baratta all’Accademia di Belle Arti di Parma, combattente nella prima guerra mondiale, sportivo praticante, operò in Noceto, lasciando opere di valido talento, molto simili nella tecnica a quelle di Mosé Bianchi, di Segantini e Michetti.
FONTI E BIBL.: G. Rossetti, Noceto e la sua gente, 1977, 292.

BIANCHI PANTALEONE Borgo San Donnino 1552
Fu prevosto mitrato e resse la chiesa di Borgo San Donnino. Ritenuta illegale la nomina che s’era procurato, ebbe solo il tempo, come afferma il Pincolini, di cantare le tre messe del Natale 1552. Estromesso dalla prevostura, riprese le mansioni in seno al Capitolo della Chiesa borghigiana.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 29.

BIANCHI PELLEGRINO
Parma 1669
Nell’anno 1669 fu immatricolato tra gli Ufficiali dell’Arte dei Falegnami.
FONTI E BIBL.: Beghini, 1713, 2; Il mobile a Parma, 1983, 255.

BIANCHI PIETRO Parma 1831/1866
Luogotenente, fu decorato con Medaglia d’Oro al Valore Militare per il fatto d’armi di Borgoforte.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 25 agosto 1980, 3.

BIANCHI PIETRO Fontanelle 24 giugno 1909-Baiso 2 settembre 1976
Nacque da Narciso e da Maria Provinciali. Nel 1919 si trasferì con la famiglia a Parma. Dotato di una precoce vocazione giornalistica, nel marzo 1928, ancora diciannovenne, su richiesta del capo redattore Cesare Zavattini, cominciò a collaborare con la Gazzetta di Parma come critico cinematografico e redattore della terza pagina. Quando il 30 giugno 1928 il giornale fu comprato dal Partito Nazionale Fascista e trasformato in Corriere Emiliano, il Bianchi lo lasciò. Dopo avere vagato per qualche anno nel mondo delle piccole riviste locali, nel 1934 riprese a scrivere nella terza pagina del Corriere Emiliano. L’anno successivo assunse di nuovo l’incarico di critico cinematografico del quotidiano. Amico di tutti gli intellettuali parmigiani e assiduo frequentatore dei caffè letterari locali, nel 1935 il Bianchi pubblicò il suo primo libro: La poesia di Attilio Bertolucci. Nel 1937 fondò il primo cine-club di Parma (Cine-Guf). Nel 1938 diede vita al foglio letterario Il Quadrello, che apparve sulla Gazzetta di Parma con frequenza quindicinale. Negli ultimi mesi del 1939, il Bianchi, chiamato dal cugino Giovannino Guareschi, iniziò la collaborazione con la rivista satirica milanese Bertoldo, di cui fu critico cinematografico firmando con lo pseudonimo Volpone. Per dedicarsi alla letteratura e al giornalismo, trascurò gli studi: al liceo classico Romagnosi di Parma fu più volte rimandato e bocciato e si laureò in filosofia (con lode) solo all’età di 31 anni, quando già da tempo insegnava filosofia e storia nelle scuole di Parma. Da qui il soprannome di Professore, che lo accompagnò tutta la vita. Nel 1946 si trasferì a Milano. Scrisse per La Notte, Il Tempo di Milano, Il Corriere Lombardo, La Patria. Collaborò a Il Galantuomo, Oggi, Il Dramma, Bis e Il Corriere di Informazione. Fu critico cinematografico del Bertoldo e di Candido, con lo pseudonimo di Volpone (scritti raccolti nei due volumi L’occhio di vetro, Ed. Il Formichiere, 1978 e 1979). Fu redattore (dal 1950 al 1955, ricoprendo ufficialmente la funzione di redattore-capo ma, di fatto, fu il direttore: Livio Garzanti, responsabile della rivista, gli lasciò infatti carta bianca nel giornale e nella sua casa editrice, la Garzanti, cui il Bianchi consigliò per anni autori, Gadda, Pasolini, Bertolucci, e titoli) de L’Illustrazione Italiana e direttore (dal 1957 al 1963) di Settimo Giorno. Assunse nel 1956 la critica cinematografica del quotidiano milanese Il Giorno, che tenne sino alla fine. Moltissime furono le sue opere e i suoi interventi culturali. Fondamentale fu per la cultura italiana la scoperta che egli fece tra i primissimi dell’opera di Proust. La mia generazione è stata profondamenta influenzata dalla “Recherche”, egli scrive nella prefazione di una delle sue opere migliori, Le signorine di Avignone. Tra i suoi libri, vanno menzionati: H.G. Clouzot (Guanda, 1951), L’occhio del cinema (Garzanti, 1957), Le signorine di Avignone (Ferro, 1957), Storia del cinema con Franco Berutti (Garzanti, 1961), Francesca Bertini e le dive del cinema muto (Utet, 1969), Taccuino 1962-1964 e Radiografia di Milano Ipl, 1970), All’ombra di Sainte Beuve (Ipl, 1971), Maestri del cinema (Garzanti, 1972). Per l’editore Cappelli curò La Viaccia (1961), Vaghe stelle dell’Orsa (1965) e Ludwig (1973). Sua è la prefazione a Cara Parma di Carlo Bavagnoli (Pizzi, 1961). Quale feconda importanza abbia rivestito il lungo magistero del Bianchi, basterebbero a sottolinearlo due soli esempi tra i tanti possibili: la preveggente consapevolezza e i pubblici elogi e incitamenti con cui negli anni Trenta puntò su Cesare Zavattini e con cui, trent’anni dopo, scommise su Bernardo Bertolucci. Sotto questo segno iniziò la sua militanza di cinefilo fin dai tempi della Gazzetta di Parma, dove alle recenioni accostò, per un certo periodo (dal 1937 al 1940), una rubrica settimanale di penetranti corsivi, firmati il portoghese discreto (pseudonimo certificante l’uso affabile, generoso e didattico ch’egli fece del suo libero andirivieni per le sale cinematografiche e per le cose del cinema). Fu una tribuna di riflessioni liberamente manifestate sotto lo stendardo della cultura, porto franco in cui, in anni difficili e di verità imbavagliate, potevano essere esibite, senza dogane censorie, le tradizioni di libertà di Stati Uniti e Inghilterra e la supremazia intellettuale della Francia. L’ancor giovane Bianchi che si affacciava dall’osservatorio della Gazzetta mosse da sicure convinzioni: che il cinema è un’arte, e delle maggiori (e per questo, dalle sue pagine, Bianchi polemizzò con Filippo Sacchi, che ancora s’attardava a richiederne una prova), e che quest’arte dev’essere materia di studi approfonditi (senza conoscenza del cinema, senza amore del cinema, non c’è nulla da fare per il cinematografo). Nell’epoca in cui il regime fascista imponeva agli schermi nazionali l’egemonia dei telefoni bianchi, il Bianchi seguitò, come avrebbe fatto poi sempre, a prescrivere ricette per il cinema italiano, ad attrezzare, come un abilissimo navigatore, precise e dettagliate carte per quegli autori che sarebbero diventati i piloti (Cesare Zavattini in primis) dell’aurea, spettacolare stagione cinematografica nazionale: il neorealismo. Il regime si sforzò di proclamare questo o quell’anno dell’era fascista come l’anno della rinascita del cinema italiano. Il Bianchi si fece beffe di queste troppo frequenti resurrezioni e ben più proficuamente additò la zavorra da scaricare: superficialità e imitazione servile nei copioni, provincialismo deteriore, conseguente carenza di valori assoluti, imperversante e ingiustificato divismo. E più concretamente chiese un rovesciamento nell’ottica (allora, falsamente e ridicolmente cosmopolita) dei film-maker, in specie soggettisti e sceneggiatori: coloro che stanno all’origine del film devono studiare il mondo che li circonda e non quello vagheggiato attraverso l’estetica della Fox e della Century, devono ispirarsi al popolo e alla piccola borghesia, perché attingere alle proprie radici e tradizioni è condizione prima di ogni universalità (ottobre 1973). Alla fabbrica romana di un cinema fatto di schemi convenzionali il Bianchi sempre negò la sua pur vasta indulgenza. La provincia, scrisse, è bella, formativa, insostituibile. La cultura della provincia fu per lui il solo antidoto al provincialismo. Nell’opinione del Bianchi il cinema è uno specchio: e non gli fu indifferente la qualità della superficie riflettente, poiché in quel vetro il Bianchi, pedagogo dei cineasti, volle si specchiasse veramente e dunque magicamente la vita. Non credette in tante arti ma in una sola. Scrive il critico Elia Santoro: Bianchi ci aveva fatto capire che occuparsi di cinema voleva dire innanzitutto cultura, e che praticare la critica significava avere la padronanza d’un linguaggio che ne legava diversi, poesia, teatro, letteratura, architettura, pittura, scenografia. Sornione, raffinato, dotato di intuizione immediata e di folgorante capacità di sintesi, il Bianchi ebbe a cuore soprattutto quel suo assiduo lavoro di politura e levigatura dell’amato occhio di vetro, la cinepresa: per questo usò la sua estesa cultura, che gli consentiva alchemiche analisi e disvelanti verifiche di quell’intrigante rapporto che è nel e del cinema, tra realtà e irrealtà, cronaca e invenzione, autenticità e menzogna. Non la ricerca del paradosso appariscente, ma quella della verità velata guidò costantemente Bianchi a scovare la coincidentia oppositorum. Il Bianchi seppe scrutare con curiosità il cinema dei telefoni bianchi per cogliervi i mattinali barbagli che preannunciavano il gran giorno del neorealismo. Scommise profeticamente su Cesare Zavattini, destinato in effetti a diventare il massimo artefice del neorealismo: Zavattini prosegue nella sua intelligente e coraggiosa disamina delle condizioni necessarie a una produzione italiana viva e vitale, che abbia un respiro europeo e quindi mondiale. La battaglia di Zavattini è utile e necessaria. E ha bisogno di una sola condizione: durare (dicembre 1939). Nel giugno 1943, quando uscì a Parma Ossessione di Luchino Visconti (che quindici anni dopo fu universalmente riconosciuto come il film-manifesto del neorealismo), il Bianchi fu prontissimo a riconoscervi, con la consueta, lesta e infallibile comprensione, il segno dei tempi nuovi.
FONTI E BIBL.: La Gazzetta di Parma dedicò il 2-3 ottobre 1976, in occasione del trigesimo, tre intere pagine a una rievocazione del Bianchi collaboratore e amico, con interventi di G.C. Artoni, A. Bertolucci, A. Minardi, C. Zavattini, A. Bevilacqua, L. Bocchi, C. Brizzolara, L. Malerba, M. Chierici, B. Rossi, G. Marchetti e A. Madeo; M. Dall’Acqua, Terza pagina della Gazzetta di Parma, 1978, 281; Parma, Vicende e protagonisti, 1978, III, 304-305; R. Campari, Parma e il cinema, 1986, 116-118; T. Marcheselli, Strade di Parma, III, 1990, 234-235; Il portoghese discreto: raccolta di corsivi apparsi sulla Gazzetta di Parma tra il 1937 e il 1940, a cura di G. Calzolari e P. Pedretti, Artegrafica Silva, Collecchio, 1985; Letteratura italiana, I, 1990, 269; Grandi di Parma, 1991, 24; Gazzetta di Parma 23 maggio 1996, 5, e 7 gennaio 1997, 17.

BIANCHI TOMASO, vedi BIANCHI TOMMASO

BIANCHI TOMMASO
Parma 21 dicembre 1796-Cortona 28 novembre 1868
Nacque nell’Oltretorrente (parrocchia di San Basilide) da Lorenzo e Teresa Pedrazzoli. Educato nelle scuole parmensi nei giorni in cui ancora vi dominavano le tradizioni dell’Impero Francese e del Regno Italico, il Bianchi, laureato in ingegneria, mal sopportò il governo di Maria Luigia d’Austria, mite e provvido, specialmente nei primi anni, ma pur sempre straniero e perciò inviso a chi augurava all’Italia migliori fortune. Così lo si trova, appena ventiquattrenne, tra i più ferventi rivoluzionari nei moti del 1821 e, come tale, fu ammonito dal reazionario Governo ducale. Nel 1823 fu riconosciuto appartenere alla Società dei carbonari. Occupato nei lavori del nuovo catasto, quando essi erano quasi completamente affidati a imprese private, dovette rimanervi anche quando i geometri distrettuali addetti a quell’Azienda passarono a carico dello Stato. Dalla Risoluzione Sovrana del 15 febbraio 1828 gli venne assegnato uno dei distretti più ampi e faticosi, che si estendeva su quattordici comuni del Piacentino, dalle sponde del Po di Caorso, Monticelli, Castelvetro e Polignano, attraverso le pianure di Besenzone, di Cortemaggiore, di Cadeo, di Pontenure e i colli di San Giorgio, di Carpaneto, di Gropparello, di Ponte dell’Oglio, sino alle aspre e impervie montagne di Bettola San Bernardino, di Boccolo e di Pione. Non se ne dolse, ché, mentre in quel vasto territorio misurava le alluvioni del Po e quelle della Nure, del Riglio, del Chero, del Ceno fin presso le sorgenti, rilevava le linee delle corrosioni e i trasporti di argini, le strade e i canali nuovamente costruiti, determinava i miglioramenti e riconosceva i deterioramenti nei terreni anteriormente allibrati, gli rimaneva ancora tempo per esercitare, tra le popolazioni dei campi e delle montagne, il suo costante, entusiastico apostolato a favore di una Italia più grande, più unita e completamente libera da ogni dominazione straniera. Quando scoppiarono in Parma i moti del 1831 (13 febbraio) il Bianchi fu dei primi ad accorrere per mettersi a disposizione del governo rivoluzionario. Scelto, il 14 febbraio, dal podestà barone Lucio Bolla tra i notabili chiamati a far parte del Consesso Civico, si dimostrò nelle adunanze di quell’Assemblea Costituente uno dei membri più diligenti e attivi e più decisi a ogni ardimento. Ma il Governo Provvisorio (composto di cinque membri e presieduto dal conte Filipo Linati) gli sembrò non atto al gravissimo compito assunto: appena ritornato in Parma l’esule Macedonio Melloni, si presentò con lui, il 17 febbraio, a casa del Podestà, domandando si dichiari decaduta Maria Luigia e che siano nominate altre persone nel Governo Provvisorio, trovando i componenti dello stesso o deboli o freddi o peggio. Poté ottenere soltanto che ai cinque membri che già costituivano il Governo Provvisorio se ne aggiungessero due nuovi: il Melloni e Ermenegildo Ortalli. All’Ortalli scrisse il Bianchi pochi giorni dopo (22 febbraio) da Borgo San Donnino: Sono a Borgo, Bandini, Bricoli e Pioselli. Pensano andare a Fiorenzuola il 24, dove sono pochi Dragoni e si spera nella popolazione; ma occorre mandare forze, alcune a cavallo. Così la mattina del 24 febbraio ottanta Guardie Nazionali, quasi tutti studenti dell’Università, guidati dal capitano Francesco Pioselli, cinquanta soldati di linea e pochi cavalleggieri, essi pure giovani volontari, 150 uomini in tutto, occuparono Fiorenzuola, sguarnita di truppe ducali e plaudente alle giovani, entusiastiche schiere rivoluzionarie. Nello stesso giorno fu inalberata la bandiera al Comune, messa la coccarda e unito l’anzianato e notabili per intimazione di un Commissario Provvisorio (il Bianchi). Sul fatto d’armi di Fiorenzuola, svoltosi nella notte tra il 24 e il 25 febbraio, primo scontro tra poche milizie volontarie, coraggiose, entusiastiche ma non ancora bene addestrate alle armi, e una forza quattro volte superiore di un esercito regolare, avvezzo alla più rigida disciplina e già vittorioso in molte battaglie, scrissero ampiamente il Casa, il Del Prato, l’Ottolenghi, il Masnovo e il Coppellotti. Nell’agguato, in cui i soldati del potente esercito imperiale, protetti dall’oscurità, non si vergognarono di gridare Viva l’Italia per trarre in inganno i malcauti militi parmensi, il Pioselli, il Bricoli e altri capi della spedizione caddero feriti e prigionieri, mentre il Bianchi, più pratico dei sentieri dei monti piacentini, riuscì, colle armi alla mano, a sottrarsi all’accerchiamento degli Austriaci e a ritirarsi, attraverso le montagne, sino a Parma. E qui lo si trova il giorno seguente (26 febbraio) intento a ricercare (tra Austriaci e filo-austriaci dimoranti in Parma) ostaggi per riuscire a liberare i 23 compagni rimasti prigionieri a Fiorenzuola, trascinati a Piacenza incatenati e chiusi nei sotterranei di quella fortezza. Gli ostaggi arrestati dal Bianchi e dagli studenti non ebbero a soffrire alcun danno e tutti, ben presto, furono restituiti alla libertà. Né poteva avvenire altrimenti in uno Stato ove lo stesso Governo rivoluzionario raccomandava per mezzo del Bianchi alle proprie milizie di trattare tutti indistintamente i prigionieri, anche gli odiatissimi Dragoni ducali, coi più fratellevoli riguardi. Frattanto l’Austria, incoraggiata dal silenzio della Francia che, dopo aver proclamato il non intervento mostrava di disinteressarsi dell’intervento austriaco negli stati italiani, iniziò con il proprio esercito la marcia su Bologna, Modena e Parma. Su Parma si avanzò da due parti: da Modena, già occupata, e da Piacenza, sicché la città fu presto circondata da ogni lato e, indifesa com’era, dovette aprire le porte al nemico. Il Bianchi, profondo conoscitore dell’Appennino, poté sfuggire anche a questo secondo accerchiamento austriaco e riparare prima in Piemonte, poi in Francia. Ma intanto il ristabilito Governo ducale iniziò contro di lui e contro gli altri patrioti, in parte fuggiaschi, in parte nascosti in città o nel contado, in parte già arrestati, una lunga serie di procedimenti polizieschi e giudiziari. Con Decreto Sovrano del 29 marzo 1831 vennero sospesi presso il Ministero delle Finanze i mandati degli stipendi agli impiegati tutti che fecero parte del Consesso Civico, e quindi anche al Bianchi. Con altro Decreto del 4 maggio 1831, n. 102, mentre si mitigarono le punizioni per molti altri funzionari, vennero dichiarati vacanti i posti che il 13 febbraio 1831 erano occupati da Antonio Martini impiegato dell’Ispezione delle Casse pubbliche e da Tommaso Bianchi Geometra dello Stato. E con un terzo Decreto del 28 maggio, n. 115, si ordinò che fossero sottoposti a processo tutti coloro che in un modo o nell’altro avevano partecipato alla passata rivolta. Il direttore di Polizia, rispondendo a una domanda del presidente dell’Interno, lo informò fin dal 25 aprile che di coloro che più figuravano in Parma nella passata rivolta, si ritengono fuori di Stato: G.B. Ferrari, Tommaso Bianchi e altri otto tra i più compromessi. Contro di loro, quindi, si procedette in contumacia: con sentenza del 7 settembre della Sezione di accusa, anche il Bianchi fu sottoposto a giudizio. Le informazioni e il titolo di reato, ricavati dagli atti del processo e in particolare dai rapporti del maggiore dei Dragoni ducali e del direttore generale di polizia, sono riassunti, per il Bianchi, in queste eloquenti parole: Tommaso Bianchi geometra: concertò con Bandini, Bricoli e Pioselli l’invasione del Piacentino; fu a Fiorenzuola col Pioselli e vi unì l’Anzianato per far deliberare l’annessione al Governo di Parma. Arrestò il figlio del Presidente Mistrali, come ostaggio: ha sorpreso tutti l’ardimento spiegato nelle sue azioni! Il processo non ebbe seguito. La clamorosa assoluzione dei membri del Governo Provvisorio, pronunciata dalla coraggiosa e indipendente Magistratura Parmense il 7 luglio, consigliò alla duchessa Maria Luigia d’Austria un’ampia amnistia per gli altri rivoltosi, che apparivano ancor meno responsabili dei governatori, già assolti. Però si stabilì: Gli inquisiti per materia politica che sono assenti, e quelli tra essi che si pr esumono tali, sebbene latitanti nei Nostri Ducati, non potranno né rientrarvi, né rimanervi senza espresso, e speciale Nostro permesso, che Ci riserbiamo di accordare secondo che lo richiederanno le circostanze, e il ben pubblico, e anche, se accada, sotto discipline all’uopo opportune. Questi assenti, esclusi dall’amnistia, furono soltanto ventuno e tra essi, insieme con quelli del Melloni, del Sanvitale e di altri insigni patrioti, figura anche il nome di Bianchi Tommaso già Ingegnere del Catasto. Alcuni di quegli esuli supplicarono perché fosse loro permesso il ritorno in patria e accettarono le discipline di Buon governo imposte dalle sospettose polizie del ducato e dell’Austria. Non però il Sanvitale, il Melloni e il Bianchi. Essi preferirono l’esilio al di là delle Alpi. Il Bianchi fu prima in Corsica e quindi passò dall’uno all’altro Dipartimento della Francia per ammirare e studiare da vicino i nuovi miracoli dell’ingegneria: i grandi canali per la navigazione interna, i ponti sospesi, le ferrovie. Soprattutto le ferrovie, coi molti e complessi problemi tecnici, finanziari e politici che a esse si collegano, richiamarono l’attenzione e lo studio del Bianchi. Quando, nel marzo 1831, il Bianchi partì per l’esilio, nessuna ferrovia era ancora sorta in Italia. La prima linea italiana, la Napoli-Nocera-Castellamare, concessa alla Casa Bayard nel 1836, fu aperta all’esercizio, solo per il primo tronco Napoli-Portici, soltanto nel 1838. In Francia, invece, era già aperta all’esercizio, sin dal 1828, la Saint-Etienne-Andresieux, altre linee erano state aperte nel 1829 e nel 1830 e molte altre erano allora in costruzione, sicché il Bianchi ebbe largo campo di studiare i diversi problemi ferroviari e di ideare fin d’allora una grande ferrovia che collegasse tutte le capitali degli stati italiani non più soggetti allo straniero: una linea Torino-Parma-Modena-Bologna-Firenze-Roma-Napoli, attraversante l’Appennino a Montepiano, a soli 696 metri sul livello del mare. Cinque anni si trattenne il Bianchi in Francia, occupato in importanti lavori di costruzione di ponti sospesi e di ferrovie. Poi, colta una favorevole occasione, tornò in Italia, non però nel Ducato di Parma, dal quale rimaneva pur sempre bandito. Dopo un lustro di esilio politico passato in Francia, narra egli stesso in una sua pubblicazione, ebbi a recarmi in Toscana nell’esordire del 1836 per la costruzione dei ponti sospesi sopra l’Arno presso Firenze, concessionaria la casa Seguin, ove rimasi fino al marzo del 1848. In questo lasso di tempo venni invitato dai concessionari della Ferrovia Leopolda da Firenze a Livorno a far parte di una Commissione Tecnica per determinare la traccia da adottarsi tra queste due importanti città. La Gazzetta di Firenze del 29 maggio 1838, n. 64, riporta i nomi dei componenti quella autorevole commissione, nella quale il Bianchi, forestiero e giunto da poco in Toscana, ebbe a colleghi il celebre Inghirami, direttore della Carta Topografica, il professor Pianigiani, costruttore della Ferrovia Centrale (da Empoli a Siena), e sei altri tra i più insigni ingegneri e architetti di Firenze, di Livorno e di Pisa. La commissione il 5 luglio 1838 presentò la sua relazione, in cui concluse poco meno che all’unanimità (sette voti contro due) per la scelta della linea scorrente la valle dell’Arno. Il Bianchi invece sostenne la Linea Subappennina, la quale, da Pisa a Firenze, toccava le importanti città di Lucca, Pescia, Pistoia e Prato e le stazioni balneari di San Giuliano, Montecatini e Monsummano. Il Bianchi, che desiderava vedere costruiti con la ferrovia subappennina, da Firenze a Prato, i primi 18 chilometri della linea da lui patrocinata per Val di Bisenzio e Val di Setta fino a Bologna, lottò strenuamente a favore del tracciato subappennino. Anche di fronte al verdetto della commissione egli non si scoraggiò e cominciò subito a svolgere gli studi tecnici del primo tratto da Firenze a Pistoia per una compagnia che poi non ne poté ottenere la concessione. Poco dopo, per la Società Lucchese, fece gli studi del tratto da Pisa a Lucca, che fu poi prolungato fino a Pescia e a Pistoia. E così ebbe la soddisfazione di vedere compiuta anche la linea subappennina, che egli aveva così strenuamente difeso nel 1838. Ma a ben altro tendeva il Bianchi. Nel giugno del 1846 si portò sulle montagne di Val Bisenzio e Val di Setta a tracciare la vagheggiata ferrovia Prato-Bologna per una Società Pratese che, in seguito al suo ardente apostolato, si costituì sotto la presidenza di un coraggioso industriale, il cavaliere Carlo Leonetti. La prima relazione del Bianchi su quella ferrovia, in data di Firenze 22 giugno 1846, uscì in luce nell’anno seguente in Bologna, in una raccolta di Scritti su quella grandiosa impresa. La relazione del Bianchi fu presentata al Granduca di Toscana, e siccome, fin dal 4 aprile 1845 era stata accordata dallo stesso Granduca ai fratelli Bartolomeo, Tommaso e Pietro Cini la concessione di fare gli studi per la ferrovia da Pistoia alla Porretta, così per mostrare di quanto rispetto fosse compresa la Società Pratese per la concessione preliminare accordata ai signori fratelli Cini, offriva di associarsi ai medesimi. Scrisse, perciò, in data 24 settembre e nell’ottobre 1846, alla Società Pistoiese, formata dai fratelli Cini per la ferrovia della Porretta, due lunghe lettere, nelle quali, con argomenti ineccepibili, si dimostra l’impossibilità di costruire la Porrettana, da Pistoia al confine bolognese, colla somma di sole lire 12360000, come l’ingegnere Tommaso Cini aveva progettato, le difficoltà gravissime e forse insuperabili che si sarebbero incontrate su quel tracciato, l’opportunità di fondere, perciò, le sue società in una sola, costruendo la linea, più breve e facile, delle valli del Bisenzio e della Setta. Tutto fu inutile. La Società Pistoiese volle continuare nella sua impresa, che avrebbe potuto compiersi solo da uno stato potente e con enorme dispendio, e non certo da una piccola società con mezzi affatto inadeguati al bisogno. In effetti, dopo inutili e ripetuti tentativi, la Società pistoiese venne liquidata e sciolta. I moti rivoluzionari del 1848, il disastro di Novara e la raddoppiata pressione dell’Austria, vincitrice sui debolissimi stati emiliani e toscani, tolsero poi ogni possibilità, non pure di costruire, ma anche solo di studiare una ferrovia che non fosse compresa nei programmi politici e militari dell’Impero Austriaco. Intanto, il 20 marzo 1848, appena scoppiata la rivolta in Parma, il Bianchi tornò a riprendere il suo posto sulle barricate. Il Governo Provvisorio, sorto il 10 aprile e formato in gran parte da vecchi patrioti che avevano diviso col Bianchi l’esilio, volle che fosse nuovamente acquisita la sua preziosa opera di valente tecnico (decreto del 13 maggio 1848: È ridato al signor Tommaso Bianchi l’ufizio di Geometra pel Catasto, che tolto gli fu per gli avvenimenti politici del 1831). Senonché apparve subito come ben altri e ben maggiori servigi potesse ritrarre lo Stato dal Bianchi, che da diciassette anni, in Francia prima, poi in Toscana e in altre parti d’Italia, si era addestrato in costruzioni di importanti ferrovie e di ponti arditissimi. E così, alla distanza di soli sedici giorni da quel primo decreto, un nuovo Atto di nomina, in data 29 maggio, stabilì: 1° Il signor Tommaso Bianchi è promosso all’uffizio d’Ingegnere dello Stato di 2a classe. 2° Quando possa accadere egli sarà occupato specialmente degli affari di strade ferrate. Sorse così per la prima volta nello Stato di Parma, alla dipendenza della direzione di acque e strade, uno speciale Ufficio per le Strade ferrate. Il Bianchi si accinse subito sia a richiamare l’attenzione dei governatori e del capo ingegnere direttore d’acque e strade, Francesco Belleni, sopra un progetto di massima della ferrovia da Parma a Genova, da lui steso tre anni prima, sia a tracciare sul terreno il progetto esecutivo del primo tronco di 60 chilometri, da Parma a Borgotaro, che poteva servire non solo per la ferrovia di Genova ma anche per quella della Spezia. Il Bianchi assunse il gravoso lavoro senza alcun compenso. Questo progetto non ebbe fortuna. Fu presentato all’ufficio tecnico superiore degli Stati parmensi e il direttore d’acque e strade, Francesco Belleni, lo approvò il 21 giugno 1849, ma la ferrovia non fu fatta e il Bianchi, nel settembre di quell’anno, fu di nuovo mandato in esilio e non poté tornare a Parma se non dopo il 1859. Quando si cominciò a costruirne un primo tratto, non nella parte montana ma verso Colorno e il Po, il conte di Buol, ministro di Sua Maestà Apostolica, scrisse il 24 gennaio 1854 una lettera oltremodo risentita alla Corte di Parma minacciando guerra da parte dell’Austria se non si fosse interrotta la costruzione di quella ferrovia. Inoltre fu negato l’allacciamento della nuova linea alle ferrovie austriache, fu usata tutta l’influenza del governo imperiale presso le Corti di Modena e di Firenze perché negassero, del pari, l’allacciamento alle ferrovie estensi e toscane, e fu impedito sul territorio austriaco il transito del materiale indispensabile alla costruzione delle nuove, invise ferrovie parmensi. Nel nuovo, decennale esilio, dal 1849 al 1859, il Bianchi non poté ritornare neppure a Firenze, ove la sospettosa polizia austriaca imperversava come a Parma e forse più. Gli fu necessario chiedere asilo agli Stati Sardi, ove ormai riparavano tutti i patrioti italiani e dove il nome e l’opera del Bianchi già erano favorevolmente conosciuti, sia per avervi dimorato nel 1840 e nel 1842 per la costruzione del grandioso ponte sulla Magra tra la Spezia e Sarzana, sia per gli studi fatti nel 1845 per il progetto della ferrovia da Genova sino al confine parmense. Si stabilì in Torino, ove abitavano altri esuli parmensi, pur facendo lunghi soggiorni in Val d’Aosta, dapprima per il progetto dell’intera ferrovia da Ivrea ad Aosta, poi per gli studi tecnici definitivi del primo tronco, di 29 chilometri, da Ivrea a Verres, infine per formare un progetto di massima di una nuova ferrovia internazionale da Aosta e Martigny sul Rodano, nel Vallese, con varco delle Alpi al colle di Ménoue presso il Gran San Bernardo. Il 1o maggio 1859 e il 9 giugno successivo scoppiarono in Parma due nuove rivolte contro il Governo ducale, e il Bianchi accorse subito. Giuseppe Manfredi che, sorretto dal Bianchi e dagli altri patrioti, aveva assunto (dopo Villafranca e dopo il ritiro da Parma dei funzionari e dell’esercito del re Vittorio Emanuele di Savoja) il difficile governo dello Stato, con un decreto, emanato in nome del popolo delle provincie parmensi, riordinò l’Amministrazione dei Lavori Pubblici e chiamò di nuovo a farne parte il Bianchi quale ingegnere di 1a classe. Con decreto del 30 novembre 1859 il dittatore Farini soppresse, a decorrere dal giorno 8 dicembre, i Governi separati e le rispettive amministrazioni centrali delle Provincie Modenesi e Parmensi e delle Romagne. Così il Bianchi, dalla soppressa Sezione permanente del Corpo degli Ingegneri, della quale aveva fatto parte nell’amministrazione parmense, passò nelle nuove amministrazioni dell’Emilia e del Regno d’Italia e poté, poco dopo, stanco per i tanti anni di assiduo lavoro e di esilio, ottenere una ben meritata pensione di riposo. Con la costanza e la fede di un apostolo, pubblicò in Parma, nel 1861, quelle Considerazioni tecnico economiche sopra tre progetti di ferrovie, che, pur patrocinando anche la Parma-Spezia e l’Ivrea-Aosta, sono soprattutto una squilla di rivolta contro il sopruso austriaco e un caldo, entusiastico appello al Governo nazionale perché si accinga, senza deplorevoli indugi, alla costruzione della Bologna-Prato, colossale opera veramente degna della grandezza d’Italia. La vera arteria principale, afferma il Bianchi ribadendo ancora una volta il concetto che da trent’anni gli era stato guida negli studi ferroviari, dovendo essere la più centrale e la più diretta, e in pari tempo raccogliere i luoghi più interessanti e più centrali, sarà quella che da Torino a Napoli passerà per Alessandria, Piacenza, Parma, Modena, Bologna, Prato, Firenze, Arezzo. Qualunque altra linea che se ne discosti non potrebbe assumerne le veci. Così scrive il Bianchi il 31 agosto 1861, tre mesi prima che il Parlamento riaprisse. Ma egli dovette persuadersi ben presto che Parma, ove era rientrato dopo ventotto anni di esilio, non era la sede più adatta per continuare efficacemente questa sua propaganda per la ferrovia di Val di Bisenzio e Val di Setta. Negli ultimi mesi del 1862 lasciò Parma e si recò a Firenze. Si spense quarant’anni prima che la legge del 12 luglio 1908, ordinando la costruzione a spese dello Stato della direttissima Bologna-Prato per le valli della Setta e del Bisenzio, iniziasse la realizzazione del suo sogno, e quasi settant’anni prima (aprile 1934) che quel sogno si tramutasse in realtà.
FONTI E BIBL.: I. Cantù, Italia scientifica, 1844, 57; G. Sitti, Il Risorgimento italiano, 1915, 400; Crisopoli 2 1934, 131-140; O. Masnovo, I patrioti parmensi del 1831, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1937, 145; F. Ercole, Uomini politici, 1941, 171.

BIANCHI UBALDO Casalmaggiore 1748-Parma 18 novembre 1828
Alcuni cenni biografici del Bianchi si ricavano da una appendice, dettata dall’abate Luigi Barbieri, in un lavoro di Carlo Rognoni, altro insigne cultore della meteorologia e climatologia parmense, pubblicato a Parma nel 1892. Il Bianchi, figlio di Dionigi e Veronica Araldi, fu cittadino e patrizio parmense. Ebbe tre sorelle, una maritata a Pietro Fedolfi, colonnello delle milizie urbane, un’altra a Giacomo Carra e la terza prese il velo nelle Benedettine del monastero di Sant’Alessandro in Parma. Da giovanetto il Bianchi studiò sotto la guida dei Padri della Compagnia di Gesù e riuscì uno dei migliori allievi. Di carattere incline alla solitudine, divideva il tempo tra le pratiche religiose e lo studio delle buone lettere. Si dedicò anche alle scienze fisiche, per amore delle quali tenne carteggio con l’abate Toaldo, professore di astronomia e meteorologia all’Università di Padova, al quale inviò per molti anni le osservazioni meteorologiche che effettuava ogni giorno. Si interessò anche di ricerche storiche raccogliendo in un corpo le iscrizioni scolpite in marmo nelle chiese di Parma. Queste iscrizioni raccolte dal Bianchi, per deliberazione della Regia Deputazione di Storia Patria in data 27 settembre 1887, furono poi pubblicate sull’Archivio Storico per le Province Parmensi. Inoltre il Bianchi continuò, insieme con Michele Vitali, la Cronichetta, iniziata da Ireneo Affò, che si stampava ogni anno nel Diario parmigiano. All’età di 36 anni il Bianchi prese in moglie Corona Aicardi, definita dal Barbieri donna di nobile schiatta e di specchiatissimi costumi, dalla quale non ebbe figli ma incessanti e affettuose cure per lo spazio di 44 anni (il Bianchi morì in età più che ottuagenaria). Una lapide con l’elogio dettato da Ramiro Tonani fu posta, a cura della vedova, nella chiesa di San Tommaso. Il Bianchi va soprattutto ricordato quale precursore della meteorologia moderna: eseguì in Parma osservazioni ininterrotte per ben 56 anni, dal 1772 al 1828, registrando ogni giorno temperatura, pressione, soleggiamento, nuvolosità, pioggia, vento e nebbia. I registri delle sue osservazioni furono rinvenuti solo nel 1888 e, a cura del Rognoni, ne fu fatta una copia, di oltre mille pagine, che si trova nella biblioteca dell’Osservatorio Meteologico dell’Università di Parma. Dell’importanza scientifica del ritrovamento dei manoscritti del Bianchi parlò la Gazzetta di Parma del 25 luglio 1888 con una nota di Pietro Pigorini, direttore dell’Osservatorio Meteorologico. Per inquadrare l’opera del Bianchi nella storia della ricerca meteorologica, occorre ricordare che a un primo periodo della ricerca in questo campo (1650-1780) in cui ebbero prevalenza osservazioni frammentarie, saltuarie, eseguite da privati e volenterosi cultori, isolati tra loro, seguì un periodo (1780-1860) durante il quale si fanno più frequenti e numerose le osservazioni, più accurati sono gli strumenti e i metodi di rilevamento, più uniformi i dati raccolti, più razionali le elaborazioni statistiche. Vi è da aggiungere che, all’epoca del Bianchi, chi eseguiva osservazioni meteorologiche erano, per la maggior parte, privati cittadini o enti religiosi. Sono veramente ammirevoli la passione, lo zelo e la diligenza con cui umili cultori come il Bianchi, ma molte volte anche insigni scienziati, con costanza e perseveranza, eseguivano personalmente le misure e le osservazioni. La ragione e lo scopo perché il Bianchi intraprese le sue osservazioni si può dedurre direttamente da quanto egli stesso scrive nella dichiarazione nel proemio al primo volume del suo manoscritto: Io non ho la vanità di ripromettermi qualche nome da questa mia non piccola fatica che a solo trattenimento intrapresi e continuo con qualche impegno. Soltanto desidero che quali sono, possano essere di qualche uso ad alcuno in particolare, e utili a questa mia patria eziando, al quale oggetto fui in parte eccitato a registrarle. Più avanti nel manoscritto, forse per chiarire meglio le finalità della sua fatica, il Bianchi aggiunge che gli era servito di eccitamento l’esempio di alcuni dotti, delle Accademie, e l’ammaestramento dei Fisici, che le osservazioni meteorologiche sono necessarie per la cognizione dei climi. Il Bianchi eseguì le osservazioni utilizzando una finestra meteorologica in un edificio di sua proprietà posto al n. 25 di Borgo del Gesso. Dai registri originali risulta che il Bianchi iniziò le sue osservazioni a partire dal 1772. Negli anni 1772 e 1773 è tenuto nota, giorno per giorno, solo della presenza del sole, delle nubi, della caduta di pioggia o neve e del vento, mentre a partire dal gennaio 1774 vengono eseguite anche misure della temperatura dell’aria, dal 1778 viene totalizzata l’acqua caduta e dal 1780 si tiene conto, sempre giorno per giorno, della pressione atmosferica. Il Bianchi misurò la temperatura dell’aria due volte al giorno, alle ore otto del mattino e alle ore tre pomeridiane, mediante un termometro di Reamur ad alcool tenuto alto dal suolo 15 braccia parmigiane (circa otto metri) fuori da una finestra rivolta a ponente e protetta dal sole. A dimostrare la serietà scientifica con la quale il Bianchi effettuò le misure, vale una sua nota in cui dice che per tutto il tempo delle sue osservazioni aveva sempre usato lo stesso termometro per evitare ogni equivoco. Oltre alla raccolta dei valori giornalieri dei più importanti parametri meteorologici, raccolta che si protrasse fino alla vigilia della sua morte, il Bianchi ha lasciato anche una preziosa serie di note, poste alla fine delle osservazioni relative a ciascun anno, nelle quali egli riassunse, mese per mese, quello che era stato l’andamento del tempo con riferimenti particolari alle colture agrarie, ai prezzi dei prodotti agricoli, alle difficoltà create ai cittadini e alle loro attività dalle avversità atmosferiche. Queste note, stilate in modo sintetico ma preciso, rappresentano oltretutto una utilissima traccia per meglio conoscere le vicende economiche e sociali di Parma in quel periodo storico e per ricostruire in modo più preciso la geografia del territorio parmense dell’epoca. A esempio, stralciando tra queste note, a proposito del 1794 il Bianchi scrive: Gennaio oscuro, sciloccale e umido con non poco danno delle campagne. Grani assai cari. La neve appena si è veduta. Febbraio asciuttissimo e tiepido anche più del bisogno ma per la povertà molto utile, e piacevole per le legnaie de’ Possidenti. Si veggono piante con fiori. Marzo asciutto più di quello che dovrebbe. Le campagne sono in uno stato florido e promettono molto. I frutti hanno aperto i loro fiori assai per tempo, le fave sono bellissime. Li grani diminuiscono di prezzo. Le prime piogge d’aprile hanno prodotto effetti mirabili ai terreni ch’erano alquanto asciutti. Grani e vini a prezzi discreti. Al primo maggio si videro delle ciliegie; le fave sono coperte di fiori, che passerebbero in bacelli se venisse la pioggia; si vede eziando del frumento fiorito. La sega de’ fieni ha anticipato 15 giorni. Tutto va accelerando a maturità. Li 12 giugno alcuni cominciano a mietere, e più li 13, benché a ver dire, assolutamente il frumento non è secco e pare che si dovrebbe attendere 3 o 4 giorni. Uve copiose. Come si vede, si tratta di una vera e propria cronaca agraria. Molto importanti sono le osservazioni pluviometriche delle quali il Bianchi tenne nota in modo regolare dal 1778 al 1801. La quantità di acqua caduta, da pioggia o neve o grandine fuse, veniva misurata dal Bianchi mediante un pluviometro installato sul tetto della sua casa a una altezza di circa 11 metri dal suolo. Si riporta, sempre a titolo di esempio di cronaca meteorologica, la precisa e circostanziata descrizione che lascia il Bianchi del temporale avvenuto a Parma il 23 agosto 1780 e della grandinata avvenuta il 16 luglio 1788. A proposito del primo episodio il Bianchi scrive: Cominciò tra lampi e tuoni verso le ore quattro e durò sino quasi a giorno delli 25; onde si può dire a ragione che sia piovuto di continuo 36 ore circa. L’acqua piovuta nell’empio dello scroscio fino a sera fu cinque pollici e mezzo d’altezza. Gran danno ne soffrì la Città e lo Stato, poiché la pioggia oltre l’aver passato i tetti e i soffitti di tutte le case e conventi, ruinò molti grani e granai e, passando più oltre, molte camere e mobili. In ogni casa era acqua e in molte cantine all’altezza di un braccio specialmente di là dal fiume Parma. Il Naviglio gonfiato ruppe una volta sotto cui passava e danneggiò molini e torchi; insomma tutta la Città e Stato soffrì incomodo e danno. Il Bianchi non trascurò di raccogliere e annotare notizie che gli giungevano dai centri della provincia. Circa il secondo episodio citato si legge: Ai 16 Luglio, un temporale fece gran danno a Langhirano, Lesignano e dintorni per la grandine caduta grossa come le poma, che ruinò il tutto. Di questa gragnuola ne fu portata in città delle some a uso de’ caffettieri, mancando il ghiaccio. Nei manoscritti ampio spazio fu riservato dal Bianchi anche alla descrizione di altri fenomeni naturali quali i fulmini e i terremoti. Nelle note viene fatta menzione, a esempio, di 55 scosse di terremoto verificatesi negli anni dal 1774 al 1828. È da aggiungere che l’opera del Bianchi non si limitò alla raccolta delle sue osservazioni personali. Un particolare e molto importante capitolo del patrimonio di dati che il Bianchi lasciò è costituito da un calendario dove sono segnati i risultati relativi alle osservazioni meteorologiche eseguite a Parma in un arco di 80 anni, suddivisi in quattro periodi. Il primo periodo va dal gennaio del 1694 al luglio del 1698 e la fonte dalla quale attinse il Bianchi è costituita dal Diario istorico e meteorologico di don Giustiniano Borra, parmigiano. Il periodo seguente comprende 19 anni e va dal 1710 al 1728 e fu estratto dalla medesima fonte. Il terzo periodo abbraccia otto anni, dal 1754 al 1761 e i dati relativi il Bianchi li dedusse dal Diario istorico e meteorologico di Lorenzo Piazza, anch’esso parmigiano. L’ultimo dei quattro periodi, dal 1775 al 1822, compendia le osservazioni fatte dal Bianchi stesso, il quale dovrebbe aver compilato questo calendario cinque anni prima della sua morte, nel 1823. Il calendario, definito dal Bianchi un quadro fedele dello stato del cielo ridotto in somme per ciascun giorno di 80 anni di osservazioni fatte in Parma; e si può dire il compendio dell’Istoria meteorologica relativa a quegli anni, è costituito da una serie di tabelle dove, anno per anno e mese per mese, sono segnate su altrettante colonne la frequenza dei giorni sereni, dei giorni nuvolosi o vari, dei giorni piovosi o nevosi, la frequenza del vento, dei giorni nebbiosi, dei giorni con grandine e dei giorni con temporale. A garantire l’attendibilità di tale calendario valgono ancora le parole del Bianchi quando afferma di aver seguito in questo suo lavoro le norme dettategli dall’abate Toaldo, che egli definisce vero padre della meteorologia, il quale aveva già pubblicato i risultati di una ricerca analoga per un periodo di 61 anni. Non resta che sottolineare la rilevante importanza scientifica del patrimonio di dati che il Bianchi ha lasciato. Soprattutto per merito suo, Parma può vantarsi di essere tra le poche città al mondo dotate di una cronaca meteorologica quasi ininterrotta di oltre duecento anni.FONTI E BIBL.: Archivio Storico per le Province Parmensi, vol. VIII, 1899-1900, 158, vol. III, 1903, nuova serie, 293, 294, vol. VIII, 1908, 154, 159, 167, 171, 172, vol. XVIII, 1918, 178; M. Baruzzi, L’Osservatorio Meteorologico della R. Università di Parma, in VIII Rapporto Annuale dell’Osservatorio Meteorologico R. Università di Parma, Parma, 1933, 1-27; U. Bianchi, Osservazioni Meteorologiche fatte in Parma da Ubaldo Bianchi, copia manoscritta, Biblioteca dell’Osservatorio Meteorologico dell’Università di Parma, Gazzetta di Parma 25 luglio 1888; C. Rognoni, Note meteorologiche per la climatologia parmense, Parma, Tipografia G. Ferrari e Figli, 1892; Parma Economica 3 1978, 59-66; A. De Marchi, Guida naturalistica, 1980, 171; R. Lasagni, Bibliografia parmigiana, 1991, 90.

BIANCHI UGOLOTTO, vedi BIANCARDO UGOLOTTO

BIANCHI VALDO 

Parma 7 ottobre 1890-Parma 27 maggio 1983
Nato da Icilio, noto pittore, e da Medea Massari. Il Bianchi si laureò al Politecnico di Milano. Abbracciata la professione del restauratore di quadri, ebbe ben presto importanti commissioni. Nella sua lunga e apprezzata carriera restaurò infatti la Pinacoteca dell’Eca di Milano e numerose opere d’arte, anche per conto del Comune, della Provincia e degli Ospedali Riuniti di Parma. Diresse pure i lavori di abbellimento della 1a Fiera campionaria postbellica di Milano e curò la mostra civica al Teatro Regio di Parma. Un autorevole riconoscimento alla sua attività di restauratore lo ebbe dopo la disastrosa alluvione di Firenze allorché fu invitato, assieme a un ristretto gruppo di esperti, a collaborare al ripristino del patrimonio artistico danneggiato. Il Bianchi fu anche uno stimato pittore. Nel 1981 una sua retrospettiva fu allestita nella Galleria Sant’Andrea di Parma. Innamorato della sua città, in più occasioni scese in campo in difesa del suo patrimonio artistico, partecipando, anche attraverso le colonne della Gazzetta di Parma, ad accese polemiche: quella sul restauro della Schiava turca, il celebre dipinto del Parmigianino, quella relativa alla tonalità di colore giallo Parma e, infine, quella sulla sistemazione del monumento a Verdi. Scrisse Le veglie di Bianchi, un libro di ricordi.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 28 maggio 1983, 5.

BIANCHI VINCENZO
Parma 1775
Intagliatore in legno operante nel 1775.
FONTI E BIBL.: G. Gori Gandellini, Notizie degli intagliatori, 1808-116.

BIANCHI VIRGINIO
Parma 1866
Soldato, fu decorato con la Medaglia d’Argento al Valore Militare dopo la battaglia di Villafranca (24 giugno 1866).
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 25 agosto 1980, 3.

BIANCHI ARCIONI ANGELO, vedi BIANCHI FOGLIANI ANGELO

BIANCHI ARCIONI FOGLIANI ANGELO, vedi BIANCHI FOGLIANI ANGELO

BIANCHI FOGLIANI ANGELO 
Modena 25 ottobre 1753-Parma 29 dicembre 1845
Nacque dal conte Camillo e da Paola Arcioni. Fu allevato nel Collegio dei Nobili di Parma (1773). Elesse Parma a suo domicilio per conseguita eredità dal conte Arcioni. Nobile signore di rango e di censo, disimpegnò le mansioni di Gentiluomo di Camera del Duca Ferdinando di Borbone (dal 4 agosto 1802) e fu ufficiale della Guardia Alabardieri. Sposò la contessa Margherita Tagliaferri. Rimasto vedovo, abbracciò lo stato religioso ma ciò non gli impedì di continuare a svolgere incarichi pubblici: presidente perpetuo della Società Ducale Filarmonica e direttore dei Pubblici Spettacoli (1804, in Regime Francese). Infine fu ciambellano della duchessa Maria Luigia d’Austria, cavaliere dell’Ordine Costantiniano e sindaco aggiunto di Parma (1807-1810). Mecenate di poeti e artisti, risulta tra gli Arcadi col nome di Cleonte Iticense. Essendo anche compositore, nel febbraio 1785 donò la sua produzione strumentale all’Accademia Filarmonica, dedicandola alla Reggenza, della quale fece parte nel 1787 e 1788. La cronaca cittadina del 1792 informa inoltre che nel palazzo del conte Bianchi, la Signora Teresa Bandettini, lucchese (tra le pastorelle arcadi Amarilli Etrusca) diede due Accademie di estemporanea poesia e improvvisò in vari metri più argomenti di storia e mitologia, riscuotendo vivi consensi da parte del numeroso uditorio. Nel teatro privato Malaspina Del Monte in Parma andò in scena il 2 aprile 1813 un delizioso melodramma dedicato al Bianchi, definito illustre filarmonico, intitolato Pasquale ossia Il Postiglione burlato. Vi cantarono da pari loro Agostino De Lama e Francesco Corradi e anche il comico sessantenne marchese Filippo Pallavicino se la cavò più che onorevolmente. Il Bianchi Fogliani fu sepolto nella chiesa della Steccata di Parma.
FONTI E BIBL.: Palazzi e casate di Parma, 1971, 330-331; Giambattista Bodoni, 1990, 295; Malacoda 51 1993, 33; M. de Meo, in Gazzetta di Parma 9 novembre 1998, 27.

BIANCHI FOGLIANI ARCIONI ANGELO, vedi BIANCHI FOGLIANI ANGELO

BIANCHINI BARTOLOMEO 
Parma prima metà del XVI secolo
Bombardiere operante nella prima metà del XVI secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, III, 72.

BIANCHINI GIAN FRANCESCO, vedi BONATI GIAN FRANCESCO

BIANCHINI GIOACCHINO, vedi BIANCHINI GIOACHINO

BIANCHINI GIOACHINO
Parma XVIII/XIX secolo
Fu incisore di stampe a bulino, attivo in Parma a cavallo tra il Settecento e l’Ottocento.
FONTI E BIBL.: P. Zani, IV, 45; Thieme, III, 588; A. Pelliccioni, Scultori e architetti, 1949, 38; G. Capacchi-P. Martini, L’incisione in Parma, 1969.

BIANCHINI LUCHINO, vedi BONATI LUCHINO

BIANCHINO DA PARMA o LUCHINO, vedi BONATI LUCHINO

BIANCHO CARLO, vedi BIANCHI CARLO

BIANCO ANTONIO GIUSEPPE, vedi DELLA TORRE DI REZZONICO ANTONIO GIUSEPPE

BIANCO, vedi anche BIANCHI

BIANCOLELLI ISABELLA, vedi FRANCHINI ISABELLA

BIAZZI CAMBIO Semoriva 1643
Fu infeudato nel 1643 da Ranuccio Farnese, duca di Parma, del castello ex Pallavicino e di pingui proprietà in Semoriva.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 77.

BIAZZI FRANCESCO Zibello 1748/1749
Intarsiatore e intagliatore. Figlio di Vincenzo. Nel 1748-1749, assieme al padre, realizzò il baldacchino nella parrocchiale di Vidalenzo.
FONTI E BIBL.: Il mobile a Parma, 1983, 256.

BIAZZI GABRIELE Semoriva XVIII secolo
Fu cappellano nella parrocchia di Semoriva e quindi canonico a Busseto.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 77.

BIAZZI GIANBATTISTA, vedi BIAZZI GIOVAN BATTISTA

BIAZZI GIOVAN BATTISTA Zibello 1685/1726
Falegname e intagliatore. Artefice dell’organo della chiesa collegiata di Pieveottoville, opera documentata verso il 1698/1703. Sempre a Pieve il Biazzi eseguì altre cose, alcune delle quali finite in un secondo tempo nel Castello di Montechiarugolo. L’organo di Pieveottoville appare purtroppo assai manomesso rispetto alla forma originale, ridorato e rilaccato forse nel 1789 quando Giuseppe Serassi ne ristrutturò la parte strumentale. In esso comunque si ritrovano la voluminosa trabeazione, le volute che raccordano a questa la cimasa e anche due angioletti tubicini che vi stanno seduti. La superficie dell’organo soragnese, poi trasportato a San Nazzaro (altra opera del Biazzi), è invece perfettamente intatta nella sua coloritura, così come la struttura lignea, compresa l’elegantissima trama di modanature e riccioli che spartisce le canne. L’organo va datato entro il 1726: infatti il sentimento prettamente tardo barocco del Biazzi vi appare ricco e opulento, estrinsecato con grande perizia tecnica e gusto decorativo, apprezzabile fin nei minimi dettagli della complicata macchina lignea, che bene assurge a significativo esempio del locale gusto artigianale. La cultura del Biazzi va quindi collegata a diversi pezzi di similare mobilia seicentesca barocca emiliana conservati nel castello di Fontanellato (lo splendido letto) e nella Galleria Nazionale di Parma (i due armadi), ma soprattutto all’importante lezione fornita da Giovanbattista Mascheroni col ricchissimo apparato ligneo della sagrestia nobile della Steccata a Parma terminato nel 1670 (cfr. per tutti L. Bandera, 1972, ff. 70, 74, 75, 76, 77, 79, 97). Mentre per la graticola e i raccordi intagliati, il Biazzi ricorda l’organo del 1698 in San Sisto a Piacenza e quello in San Giovanni Evangelista a Parma. In aggiunta ai due organi, per il catalogo del Biazzi, va inoltre notato che suo è il coro della parrocchiale di Zibello, eseguito su incarico di Giovan Battista Boni, il quale l’anno 1685 tratò et diede tal fattura à Sig. Gio. Biazzi Marangone habitante à Zibello, e vi ha operato più di un anno continuo, per una spesa totale di 400 scudi (cfr. ms. Memorie Gardini, p. 27). Il Biazzi ebbe la carica di sergente nella Confraternita della chiesa dei Santi Gervaso e Protaso a Zibello. Altri suoi lavori sono: 1688, ancona nell’oratorio di Sant’Antonio a Soragna (attribuito); 1697, credenzone intagliato nella parrocchiale di Diolo; 1697-1699, coro, in collaborazione col figlio Vincenzo, e relativo leggio (anche altri mobili poi nel Castello di Montechiarugolo); 1706, ancona nella parrocchiale di Diolo; 1714, paliotto nella parrocchiale di Stagno.
FONTI E BIBL.: G. Godi, Soragna: l’arte dal XIV al XIX secolo, 1975, 139-140; P. Godi, 1976, 15-16; Aimi, 1979, 129; Il mobile a Parma, 1983, 256.

BIAZZI GIOVANNIParma 1807-
Figlio di Paolo, fu buon giureconsulto e archivista della Comunità di Parma.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 80.

BIAZZI LORENZO Semoriva 1689
Fu prevosto a Roncole dal 1689.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 77.

BIAZZI PIER LUIGI Borgo San Donnino 1831
Fu fatto prigioniero degli Austriaci durante i moti del 1831.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 125.

BIAZZI TARQUINIOSemoriva-Semoriva 1730
Fu pro rettore nella parrocchia di Semoriva.
FONTI E BIBL.: D. Soresina, Enciclopedia diocesana fidentina, 1961, 77.

BIAZZI VINCENZO Zibello 1699/1749
Del Biazzi, figlio di Giovan Battista, si può ricostruire in parte l’attività riportando per prima la data 1710 apposta a un’incisione, come annotano lo Zani (1817-1824, vol. IV, parte I, p. 49), il Malaspina (1869, p. 170) e lo Scarabelli Zunti (ms. Documenti e Memorie, v. VII, p. 23), tutti ricordandolo quale intagliatore di tarsie, scultore in legno e disegnatore figurista. Seconda data che si conosce è l’anno 1718, quando il Biazzi eseguì li fiorami intorno al quadro sopra la cantoria dietro l’altare maggiore nella parrocchiale soragnese di San Giacomo, vale a dire la bella cornice intagliata che racchiude il Cristo portacroce del Chiaveghino. È invece andata perduta la balaustrata in noce fatta per l’altare maggiore della stessa chiesa. La presenza, abbastanza lunga, del Biazzi n San Giacomo a Soragna prosegue nel 1726 quando intagliò la facciata dell’organo, per 650 lire, poi dorato da Giuseppe Perini di Borgo San Donnino. Tre anni dopo, il 10 agosto 1729, la Compagnia del Santissimo Sacramento commissionò al Biazzi per la medesima chiesa l’altare maggiore alla romana, con due statue di angeli sulle colonnate laterali, pagandogli la somma di 850 lire. Opera che fu terminata nel 1730 quando fu dorata da Giuseppe Perini. Nel 1732 venne poi la commissione dell’altare della Confraternita del Rosario nella Chiesa dei Serviti di Soragna, terminato nel 1738, il quale presenta la stessa soluzione compositiva dei due angeli a lato del precedente altare alla romana. La complessa ancona, nella quale sono presenti alcuni elementi costruttivi tradizionali, come la cornice mistilinea aggettante nella cimasa, simile nell’organo a San Nazzaro di Sissa del padre Giovan Battista, fu rinnovata dal Biazzi in una struttura più sfoltita, dal disegno più linearmente architettonico, superando così il greve decorativismo tardocinquecentesco tipico dell’arte del padre. L’ancona appare come una composizione prettamente scenografica, ricalcata significativamente da alcune soluzioni teatrali bibienesche, come appunto si osserva nei laterali dell’altare arrotolati a ricciolo a guisa di basamento ai due simmetrici angeli, proprio come nell’altare maggiore della chiesa del Rosario a Cento, disegnato nel 1727 da Ferdinando Bibiena (cfr. E. Riccòmini, 1972, pp. 110-111), oppure ancor meglio esemplificata sullo stile delle varie operazioni teatrali svolte dai fratelli Mauro e dai Bibiena nella stessa Parma. Invenzioni che di certo i Biazzi padre e figlio ebbero agevolmente modo di conoscere e apprezzare: infatti il particolare dell’altare soragnese si ritrova in una incisione della Reggia di Marte, scenografia approntata dai veneziani Mauro per la scena IX dell’opera Il favore degli Dei, recitata a Parma nel 1690 (A. Aureli, 1690, con tav.). Ritorna per altro molto utile notare che i due angeli dorati a lato dell’altare risultano perfettamente identici (a esclusione delle ali) a quello posto sulla sinistra del grande altare laccato e dorato nella cappella dell’Addolorata della chiesa di San Sepolcro a Parma, eseguito nel principio del Settecento (V. Soncini, 1932, pp. 35-36): donde dedurne che probabilmente l’opera parmense appartenne alla bottega dei Biazzi. Inframmezzo ai lavori dell’altare in San Giacomo il Biazzi fece due confessionali per la parrocchiale di Roccabianca: fatti nel 1735 dal sergente Biazzi di Zibello (Campari, 1910, p. 649). Nello stesso periodo cadono anche alcuni lavori perduti eseguiti per la vicina chiesa di Stagno, cioè il coro e un Cristo (ms. Spesa dal 1654 al 1748). Infine nel 1741 il Biazzi intagliò la grande cimasa per il mobile della sagrestia di San Giacomo a Soragna. Altri suoi mobili sono nella chiesa della Madonnina del Po a Pieveottoville e nella sagrestia della Parrocchiale di Castione Marchesi, firmati. Inoltre al Biazzi si può attribuire la poltrona dorata conservata nella Parrocchiale di Zibello, reputata dalla Bandera (1972, n. 129) del secondo quarto del Settecento. Altre sue opere furono: 1699, continuò l’opera del padre nel coro della Parrocchiale di Soragna; 1700, coro e organo nell’oratorio della Madonna del Po a Pieveottoville; 1710, datò uno dei due altari, firmò la porta della sagrestia Vinc. Biazzi Deli. Const. Sculp. 1710 e credenzone nella Parrocchiale di Castione Marchesi; 1716, ricevette un acconto per il coro; 1718, Candelieri, vasi e tavolette da altare e Cristo nella Parrocchiale di Stagno; 1719, pagamento dell’ancona in San Pietro a Castellina; 1723, confessionali nella Parrocchiale di Diolo; 1748-1749, ancona della Madonna e baldacchino nella Parrocchiale di Vidalenzo, in collaborazione col figlio Francesco.
FONTI E BIBL.: G. Godi, Soragna: l’arte dal XIV al XIX secolo, 1975, 141-143; P. Godi, 1976, 15; A. Aimi, 1979, 129, D. Soresina, 1979, 524-525 e 842; Aimi, 1981, 7; Il mobile a Parma, 1983, 256.

BIBBIENA o BIBIENA, vedi GALLI BIBIENA

BICARI FRANCESCO
Valmozzola 7 marzo 1909-Borgo Val di Taro 26 novembre 1989
Figlio di Biagio e di Maria Villani. Caporal maggiore del 1o Reggimento Artiglieria d’Assalto Littorio. Fu decorato con la medaglia di bronzo al valore militare, con la seguente motivazione: Puntatore di un pezzo di 65/17 someggiato, colpito a morte il capo pezzo da una granata nemica e feriti altri due serventi dello stesso pezzo, rianimava con l’esempio della sua fede e del suo valore i serventi rimasti e con due soli uomini assicurava il continuo ed efficacie funzionamento del pezzo durante un contrattacco nemico e sotto un tiro di contro batteria. Bell’esempio di sereno sprezzo del pericolo, valoroso attaccamento al dovere, indomita fede (Monte Fosca, 31 dicembre 1938).
FONTI E BIBL.: G. Sitti, Eroismo dei legionari, 1940.

BICCARI FRANCESCO, vedi BICARI FRANCESCO

BICCHIERI EMILIO Parma 7 settembre 1824-Parma 17 maggio 1872
Figlio di Paolo e Annunziata Ughi. Paleografo, fu membro attivo e segretario della Deputazione di Storia Patria per le Province Parmensi. Tra le sue pubblicazioni va ricordata la Vita di Ottavio Farnese (1864).
FONTI E BIBL.: G. Sitti, Archivio Comunale di Parma, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1914, 19; F. da Mareto, Bibliografia, I, 1973, 80; Marchi, Pietro Fiaccadori, 1991, 54.

BICOCCHI CARLO PIETRO
Parma XVI/XVII secolo
Fu buon verseggiatore, attivo tra il XVI e il XVII secolo.
FONTI E BIBL.: Aurea Parma, III-IV 1959, 199.

BICOCCHI FILIBERTO 
Parma 1530
Fu tornitore, orefice, scultore di figure in marmo, legno, avorio e bronzo, miniatore, musico, ballerino e schermidore. Si distinse tra tutti gli intagliatori parmigiani e fu celebrato da Angelo da Erba quale autore di bellissime statuette e vasi in ebano, avorio, alabastro, oro, argento e bronzo. Contemporaneamente eseguì lavori di intaglio su pifferi, flauti, cornette, arpe e liuti. Abitò per diverso tempo a Venezia dove eseguì parecchi lavori. Era attivo nel 1530.
FONTI E BIBL.: I. Affò, Parmigiano servitor di piazza, 1796, 160-161; P. Zani, Enciclopedia metodica di belle arti, 4, 1820, 52.

BICOCCHI GIOVANNI GIACOMO
Parma prima metà del XVI secolo
Orefice statuario, operante nella prima metà del XVI secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, III, 74.

BICOCHI GIOVANNI GIACOMO, vedi BICOCCHI GIOVANNI GIACOMO

BIEGANSKI CARLOTTA, vedi BOLOGNA CARLOTTA

BIFFI BATTISTA Parma 1443/1470
Figlio di Stefano. Pittore, operante nella seconda metà del XV secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, II, 63; I. Affò, 1796; P. Zani, Enciclopedia metodica di Belle Arti, IV, 54; A. Pezzana, V, 196.

BIFFI GIOTTO, vedi BIFFI STEFANO

BIFFI POLIDORO
Parma seconda metà del XV secolo
Pittore, operante nella seconda metà del XV secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, II, 63.

BIFFI STEFANO Parma ante 1415-1470
Detto Zoto o Giotto, figlio di Zannotto di Stefano di Falcone Biffi. Secondo notizie documentarie, nel 1415 portò a termine pitture per il convento dei Servi di Parma. Il Biffi è documentato anche come cittadino di Milano.
FONTI E BIBL.: U. Thieme-F. Becker, vol. IV, 1910; Dizionario Bolaffi Pittori, II, 1972, 124; E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, II, 63.

BIFFI ZOTO, vedi BIFFI STEFANO

BIGGI AMERICA Parma-post 1769
Cantò nel coro negli spettacoli dati in occasione delle feste ducali del 1769. Fu retribuita con 645 lire (Archivio di Stato di Parma, Spettacoli e Teatri borbonici, b. 5).
FONTI E BIBL.: G.N. Vetro, Dizionario. Addenda, 1999.

BIGGI DOMENICO
-Parma 4 marzo 1905
Patriota, tutta la sua vita fu una professione di fede negli ideali di Giuseppe Mazzini.
FONTI E BIBL.: G. Alinovi, Cenno Necrologico in La Battaglia 11 marzo 1905, n. 2; G. Sitti, Il Risorgimento Italiano, 1915, 400.

BIGGI FELICE FORTUNATO Parma 1680/XVIII secolo
Fu pittore di genere operoso a Verona nella seconda metà del XVII secolo, noto soprattutto per le nature morte di fiori per le quali viene ricordato come Felice dei fiori: tale è il nome con cui firmò diverse sue opere. La sua importanza a Verona sta nell’essere stato l’iniziatore di una produzione di cui si trovano tracce in vari pittori del primo Settecento, come Domenico Levo, Giambattista Bernardi e Marco Marcuola. L’Orlandi lo dice erroneamente romano e lo ricorda come insegnante di Domenico Levo a Verona verso il 1680. Il Corna rammenta di lui un dipinto di soggetto floreale nella collezione Spannocchi di Siena, recante la segnatura Foelix Fortunatus de Biggis civis Parmensis aetatis 36 fecit Veronae.
FONTI E BIBL.: B. Dal Pozzo, Le vite de’ pittori, scultori e architetti veronesi (1718), edizione a cura di L. Magagnato, Verona, 1967; P. Orlandi, Abecedario pittorico, Bologna, 1719; L. Lanzi, Storia pittorica, Bassano, 1789, P.A. Corna, Dizionario della storia dell’Arte in Italia, Piacenza, 1930, I; Enciclopedia pittura italiana, I, 1950, 344; Dizionario Bolaffi Pittori, II, 1972, 127.

BIGI CARLA
1930-Parma 25 ottobre 1998
Figlia di Ugo, fondatore dell’omonima autoscuola. La sua prima e più grande passione fu la scherma. Salì in pedana giovanissima. A diciassette anni disputò le prime gare e da quel momento cominciò la sua ascesa sportiva. Per molti anni fu l’unica donna parmigiana nel mondo della scherma. Cicala, i fratelli Villari e Walter Mazzoni furono i suoi primi maestri. Studentessa del liceo classico, vinse il suo primo titolo regionale, cui ne seguirono altri sei. Per allenarsi era costretta a trasferirsi nelle città vicine, perché a Parma mancavano le strutture. Ma l’entusiasmo che la animava alleggerì le fatiche e rese meno pesanti i sacrifici. Per alcuni anni fu esponente di spicco della Virtus Bologna. Anche da studentessa universitaria continuò a dedicarsi alla scherma con una determinazione rara. Entrò nella formazione universitaria nazionale e proprio come atleta del Centro universitario sportivo italiano partecipò alle Universiadi del 1955 a San Sebastiano, in Spagna, dove vinse il titolo mondiale. Di seguito ci furono altri successi e altri allori: medaglia di bronzo a Torino nel 1959, quarto posto alle Universiadi di Parigi e di Bucarest, maglia azzurra per i Giochi olimpici di Roma nel 1960 e oro, a pari merito con Antonella Ragno, al Trofeo Internazionale Baracchini a La Spezia. nel 1963 la Bigi sposò Enzo Sforni, imprenditore e presidente del Cus Parma. Oltre che grande atleta, fu insegnante di materie giuridiche ed economiche all’Istituto tecnico Melloni di Parma per trentasei anni.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 26 ottobre 1998, 8.

BIGI FELICE FORTUNATO, vedi BIGGI FELICE FORTUNATO

BIGI FRANCO Parma 1943-Brescello 1970
Studiò all’Istituto d’Arte di Parma e, dopo il servizio militare, si iscrisse alla sezione di pittura dell’Accademia di Brera a Milano, dove fu allievo di Reggiani e Purificato. A Milano partecipò a numerose collettive. In seguito visitò diversi paesi d’Europa (Svizzera, Francia, Spagna), dove, allacciando contatti con artisti di quei paesi, ebbe l’opportunità di esporre. Scoperta la pop art, iniziò a dipingere a tinte piatte e svolse anche attività di grafico. Tenne una mostra di dipinti e manichini pop all’Hi Fi Center Davoli a Parma. Realizzò anche opere commerciali sotto lo pseudonimo Ramon. La critica cominciava a interessarsi di lui, quando morì durante una gita in auto con la moglie: la vettura andò a cozzare contro un muretto.
FONTI E BIBL.: T. Marcheselli, Dizionario parmigiani, 1997, 54.

BIGIO GIAN MARIA, vedi BIGIO GIOVANNI MARIA

BIGIO GIOVANNI MARIA Parma 1831
Fu sottoposto a sorveglianza per aver preso parte attiva ai moti del 1831.
FONTI E BIBL.: O. Masnovo, Patrioti del 1831, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1937, 142.

BIGLIARDI EUGENIO
San Polo d’Enza 22 maggio 1924-Tramonto 17 dicembre 1944
Nacque da Francesco, operaio, e da Maria Giglio, quarto dei cinque figli della coppia. Visse a San Polo d’Enza sino al 1931, anno in cui la famiglia venne colpita dalla perdita del padre. Nello stesso anno la famiglia Bigliardi si trasferì a Mamiano di Traversetolo. Lì il Bigliardi continuò a frequentare le scuole elementari, e mentre di sera studiava, di giorno lavorava come apprendista da un falegname per aiutare la madre nella non semplice bisogna di sostenere la povera famiglia. Da Mamiano la famiglia si trasferì nel 1938 a Cornocchio di Golese e nel 1939 presso l’Azienda Frigorifera Merli. Nel 1940 il Bigliardi si sobbarcò completamente il mantenimento della famiglia essendo venuto a mancare anche il fratello maggiore. Al Bigliardi, debole di costituzione, venne rimandata la prestazione del servizio militare. Ciò però non gli impedì di entrare a far parte, il 9 maggio 1944, della I Brigata Julia, gruppo Tarass, assumendo quale nome di battaglia Cranio. Al rastrellamento di luglio, dopo aver partecipato al combattimento di Lozzola e a varie scaramuccie coi Tedeschi, ritornò a casa con un compagno d’armi e lì rimase nascosto per circa quindici giorni, dopodiché ritornò al suo Gruppo. Partecipò a varie azioni di guerriglia, alla cattura di nemici e anche all’importante combattimento di Valmozzola, il 29 settembre 1944. Ai primi di novembre, mentre si trovava in servizio a Varano Melegari, per un’azione di sorpresa da parte dei Tedeschi, venne catturato assieme ad altri partigiani e civili e venne condotto a Sant’Andrea di Medesano. Per alcuni giorni subì umiliazioni e percosse, ma venne poi liberato in seguito a uno scambio di prigionieri. Il giorno 17 dicembre 1944 reparti tedeschi, per una forza complessiva di circa 150 uomini, effettuarono un colpo di sorpresa sul Distaccamento Bassani del Battaglione Gardelli, dislocato a Boio e a Tramonto (Solignano), occupando le suddette località. Il Bigliardi, che era di sentinella alla squadra dislocata a Tramonto, venne colpito da numerose raffiche mentre sparava i colpi d’allarme convenuti, salvando con il sacrificio della propria vita il resto del Distaccamento. La salma fu tumulata nel cimitero di Pellegrino Parmense il 19 dicembre 1944.
FONTI E BIBL.: E. Padovani, in Lodi, Obiettivo libertà, 1985, 373-374.

BIGLIARDI GIOVANNI, vedi BELLIARDI GIOVANNI

BIGOLA LUDOVICO
Parma 3 dicembre 1822-Parma 3 dicembre 1905
Nacque da Domenico e Rosa Sartori. Fu allievo di Paolo Toschi. Su disegni e guida del maestro, preparò all’acquaforte varie incisioni da dipinti di Parmigianino e Correggio, la più famosa delle quali è quella tratta dalla Madonna del San Gerolamo. Insieme ad altri giovani artisti, sempre sotto la direzione del Toschi e alla morte di questi (1854) sotto quella del Raimondi, partecipò all’impresa di traduzione in una serie di 51 incisioni e 40 acquerelli degli affreschi di Correggio a Parma (opere conservate nella Galleria Nazionale di Parma). Dal 1859 il Bigola fu attivo nella Calcografia torinese come incisore in acciaio per carte valori, più tardi a Parma come insegnante dell’Accademia di Belle Arti, dopo avere tenuto scuola d’incisione all’Albertina di Torino. fu quindi incisore dell’Officina Carte Valori in Roma e dei titoli rinnovati del Debito Pubblico Italiano e in questo àmbito eseguì il ritratto di Umberto I, utilizzato per l’emissione della serie postale di nove valori nota come effige di Umberto I, poi parzialmente riutilizzata per l’emissione del 1o agosto 1889 con cornici e fregi diversi. Onde permettergli un puntuale aggiornamento sulle più recenti tecniche di incisione per francobolli e carte monete, a spese del governo italiano venne mandato a Londra per un soggiorno di studio. Fu anche autore di splendidi ritratti a carboncino e all’acquerello. Numerosi di questi ritratti sono conservati al Museo Glauco Lombardi di Parma: Luisa Maria Teresa de Berry, Carlo III in atto di mostrare la decorazione dell’Ordine di San Giuseppe del Granducato di Toscana, Margherita, Roberto, Alice ed Enrico di Borbone. L’intervento manuale sulla fotografia operato dal Bigola, segnalato nei resoconti dell’Esposizione della Società d’Incoraggiamento (1859), è l’unica notizia pervenuta dei suoi rapporti con la fotografia. Risiedette, oltre che a Parma, a Milano e a Torino.
FONTI E BIBL.: U. Thieme-F. Becker, Künstler-Lexicon, IV, 1910, 23; Kunstblatt, 1850, 69; C. Ricci, La R. Galleria di Parma, 1896, 266, 269, 271-275, 283-289; A. Calabi, L’Incisione italiana, Milano, 1931, tav. 161; P. Martini, L’Arte dell’Incisione in Parma, 1873; L. Servolini, Dizionario illustrato incisori italiani moderni e contemporanei, Milano, 1955; A. Pelliccioni, Incisori, 1949, 38; Arte incisione a Parma, 1969, 48; Comanducci, Dizionario dei pittori, 1970, 322; C. Copertini, Pittori parmensi dell’Ottocento. La pittura e l’incisione in Parma, durante il ducato di Maria Luigia, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1954; Mostra di acquarelli, disegni e stampe di P. Toschi, catalogo a cura di G. Lombardi, Parma, 1947; P. Ceschi, in Dizionario Bolaffi Pittori, II, 1972, 129; Disegni antichi, 1988, 133; Aurea Parma 1 1989, 36.

BIGOLA LUIGI Parma prima metà del XIX secolo
Incisore e calligrafo, attivo nella prima metà del XIX secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, IX, 60.

BILIARDI, vedi BELLIARDI

BILL, vedi BERTUCCI ALDO, CHIERICI GUIDO e FANFONI DANTE

BILLA ANTONIO
Parma 1697/1701
Sacerdote, fu musico della Cattedrale di Parma dalla Pasqua del 1697 al 1701.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Storia della musica in Parma, 1936.

BILLIARDO ORAZIO, vedi BELLIARDI ORAZIO

BINI GIUSEPPE Casalmaggiore 8 maggio 1908-Parma 7 marzo 1963
Studiò a Parma e si laureò a pieni voti e lode in medicina e chirurgia nell’anno 1932. Nel 1933 il professor P. Guizzetti lo chiamò come assistente incaricato e divenne nel novembre 1934 aiuto di ruolo. Ottenne la libera docenza nel 1939 e nel 1942, al concorso per la cattedra di Anatomia Patologica dell’Università di Siena, ottenne il giudizio favorevole. Ebbe dalla Facoltà Medica, per gli anni 1938-1939, 1941-1942 e dal 1949 al 1956 l’incarico dell’insegnamento. Nei primi mesi del 1956 fu chiamato all’unanimità quale insegnante di ruolo nell’Istituto di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Parma. Nel campo scientifico la produzione del Bini fu multiforme ma sempre improntata al metodo rigoroso della patologia indagata per via morfologica. La versatilità con la quale il Bini passò da un campo all’altro dell’anatomia patologica non consente una sintesi breve e schematica. Volendo raggruppare la sua produzione, si può dire che forse il capitolo dell’apparato circolatorio è quello dove il Bini più indagò. Infatti i lavori sulle lesioni congenite e su quelle acquisite dell’aorta, sull’arteriosclerosi della carotide, sulla periartrite, sulle arterie cardioaortali, sulle malformazioni e neoformazioni vasali dell’encefalo, sulla patologia delle arterie del polmone, sulla patologia del miocardio, sulle alterazioni delle arterie temporale e frontale, sulla mesoarterite gigantocellulare e sulle neoplasie del pericardio, dicono quanta luce egli diede nel campo della patologia cardio-vasale. Anche la patologia del sistema nervoso ebbe nel Bini un cultore profondo. Basti ricordare gli studi sul sistema diencefalo-ipofisario, sulla patologia della pachimeninge spinale e dell’ependima e ancora sugli angiomi del sistema nervoso centrale. Ma vanno ricordate anche le ricerche sull’amiloidosi della milza e quelle sulle ghiandole endocrine, i contributi sulla linfogranulomatosi gastrointestinale primitiva, sulle neoplasie del polmone, sulla tubercolosi della trachea e ancora quelle sulla mixoglobulosi, sull’osteocondrosi necrotica, sulla linforeticulosi benigna da inoculazione, sulle cisti della regione glosso-epiglottica, sull’ileite granulomatosa di Crohn, sugli ispessimenti del perisplenio e del periepate. Esse dicono come la mente indagatrice del Bini alternasse campi ancora inesplorati con quelli già noti alla patologia, sui quali egli riuscì a dare nuova luce con studi pazienti e attente osservazioni. Il Bini fu anche un acuto ricercatore di storia della medicina parmense, in particolare della vita medica del tempo di Maria Luigia d’Austria. Piace ricordare il suo mirabile lavoro Considerazioni e supposizioni sulla causa di morte del Parmigianino, dove studiò da par suo in base a documenti pazientemente reperiti la causa di morte del pittore, provocata da avvelenamento di mercurio. Nella Storia patologica di Maria Luigia d’Austria Duchessa di Parma afferma che essa si svolse principalmente sulla base di una diatesi linfatica ed essudativa, sufficientemente denunciata dall’abito longilineo, dalla disposizione alle malattie cutanee (crosta lattea, foruncolosi, dermatosi), alle essudazioni mucose (faringiti, raffreddori, bronchiti, congiuntiviti, diarree), con probabili lesioni tubercolari polmonari (emoftoe) e che la malattia terminale fu la polmonite lobare crupale con pleurite. Nella prolusione del 19 aprile 1956 sull’Anatomia Patologica d’altri tempi e presso lo Studium Parmense, tenutasi nella Sala dei Filosofi del Palazzo Universitario di Parma, mise in rilievo tutte le difficoltà d’ordine civile e religioso che in ogni tempo si opposero alla pratica delle dissezioni dei cadaveri, indispensabile per lo studio e per il progresso dell’anatomia e perciò di tutte le rimanenti discipline mediche. Parlando poi dello Studium Parmense, riferì sulle sue origini remote. In occasione del I Centenario di istituzione della Cattedra di Anatomia Patologica presso l’Università di Parma aggiunse un importante capitolo alla storia dell’Ateneo Parmense ricostruendo le vicende dell’insegnamento dell’anatomia patologica, affermatosi intorno agli anni decisivi della fine del Ducato. Alla documentazione, tratta dall’Istituto per la Storia dell’Ateneo Parmense, seguirono la descrizione della moderna attrezzatura dell’Istituto di Anatomia Patologica, l’elenco dei direttori dell’Istituto e una bibliografia dell’argomento (cfr.: Indice bibliografico dell’Istituto di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Parma, dalla sua fondazione 1860-1960) con quasi seicento lavori scientifici riportati e un ricco indice analitico-alfabetico. Gli ultimi due lavori del Bini riguardarono La vita breve del Re d’Etruria e La relazione sulla morte del Re d’Etruria. Illustrando la vita del giovane Lodovico, figlio di Ferdinando e di Maria Amalia, sofferente di epilessia e morto trentenne nel 1803, puntualizzò la causa del decesso del sovrano (pneumonite, in soggetto con epilessia t.b.c., atrofia dell’osso parietale sinistro, processo spinoso dell’occipitale, cachessia). Il Bini fu direttore dell’Istituto di Anatomia e Istologia Patologica dell’Università di Parma, presidente della Società di Medicina e Scienze Naturali dell’Ateneo Parmense, presidente del Centro di Coordinamento per la cura dei Tumori, membro del Consiglio Direttivo della Lega Italiana per la Lotta contro i Tumori, membro del Consiglio dell’Ordine dei Medici, membro della Deputazione di Storia Patria di Parma e membro del Comitato Direttivo per l’Istituto della Storia dell’Università. Il Bini ebbe onoranze funebri solenni, cui presero parte, oltre ai numerosi estimatori, una rappresentanza della facoltà medica di Parma e moltissimi direttori d’Istituti e primari di anatomia patologica convenuti in Parma da tutta Italia.
FONTI E BIBL.: T. Braibanti, A ricordo del professor Giuseppe Bini, in Parma Medica 3, 1963, 33-36; A. Businco, Perché stimai Giuseppe Bini e ne onoriamo la memoria, in Rivista di Anatomia Patologica e di Oncologia 5, supplemento, 1963; M. Raso, Giuseppe Bini, in Rivista di Anatomia e di Oncologia 5, supplemento, 1963; M.F. Visconti, La prolusione del professor Bini sull’Anatomia Patologica d’altri tempi e presso lo “Studium Parmense”, in Gazzetta di Parma 21 aprile 1956; M.F. Visconti, Giuseppe Bini, in Parma per l’Arte III, 1963, 180-184; M.F. Visconti, Bini, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1964, 35-38.

BINI LUIGI Empoli 21 giugno 1897-Parma 4 marzo 1980
Nato da nobile famiglia di artisti, fiorentino per gusto ed educazione, crebbe in un ambiente familiare aperto a tutti i richiami della cultura. Giovanissimo entrò all’Accademia di Firenze (studiò con Augusto Burchi, Galileo Chini e Adolfo de Carolis) e qui lo colse l’appello della patria per la prima guerra mondiale. Al termine del conflitto riprese gli studi interrotti e, superati i concorsi, entrò nel mondo della scuola. La mente agile, il gusto raffinato e le grandi capacità organizzative lo posero ben presto a capo di scuole d’arte ove prodigò tutto se stesso. Dal 1926 al 1935 diresse la Scuola d’Arte di Castelli d’Abruzzo, uno dei più gloriosi centri d’arte ceramica risalente alla seicentesca scuola dei Grue, e, pur tutelandone la gloriosa tradizione, il Bini volle aprire nuove vie alla produzione artigianale ristrutturando i programmi scolastici e fornendo la scuola di moderni impianti tecnici. All’attività artistica affiancò studi e ricerche storiche. Iniziarono in questo periodo le significative affermazioni dei suoi alunni alla Mostra dell’artigianato dell’Aquila, alle prime Triennali di Milano, alle Biennali d’arte sacra a Milano, dove il Bini ebbe il primo premio del Ministero dell’Industria e Commercio per le nuove ricerche sull’arte vetraria. Su invito di Gaetano Ballardini, fondatore del Museo Internazionale di Faenza, portò il frutto dei suoi studi ai corsi interuniversitari internazionali che si tenevano a Faenza con interessanti ricerche sull’antica ceramica abruzzese e sulle incisioni fiamminghe del XVII secolo in relazione all’ispirazione pittorica castellana. Nel 1935 il Bini giunse a Parma quale insegnante e direttore dell’Istituto d’Arte che volle fosse intitolato a Paolo Toschi. Provvide a impiantare nuovi laboratori di tarsia, ceramica, incisione, dando alla scuola un impulso personale. Durante la seconda guerra mondiale, allorché tutto il complesso artistico del Palazzo Farnese fu devastato dalle bombe, egli riuscì a mettere in salvo, con gravi rischi personali, tutta la dotazione storica e artistica dell’Accademia (della quale era presidente) per restituirla intatta alla fine del conflitto. Malgrado le responsabilità del lavoro scolastico, coltivò l’attività artistica personale, ottenendo consensi ovunque con i suoi vetri fusi o scalpellati, con le sue vetrate musive saldate a gran fuoco, trattando i suoi geniali lavori con vigore e personalità. Partecipò su invito a molte mostre nazionali e internazionali, riuscendo a portare le sue opere a Berlino, Stoccarda, Monaco di Baviera e fino a San Paolo del Brasile. Numerosi suoi lavori sono anche a Parma e in Italia. Nella pittura, che coltivò moltissimo, il suo impegno e il suo vigore si placano, ma l’immediatezza dell’ispirazione, la sicurezza del pennello, rivelano sempre una raffinatezza di mestiere, segno di una salda preparazione umanistica. Sue opere principali sono: Sulla via dell’Impero; I barcaroli; Case sul Serchio; Ponte a Moriano; L’Assunta (1929), grande pittura in ceramica già di proprietà di Carlo Delcroix; Pineta; serie di monotipi riproducenti ruderi romani. Lavorò a tempera, ottenendo trasparenze, luci e ombre suggestive. Fu anche scrittore e conferenziere su temi di tecnica d’arte.
FONTI E BIBL.: A.M. Comanducci, Dizionario dei pittori, 1970, 324; Gazzetta di Parma 8 aprile 1980, 7.

BIOLCHI GIOVANNI BATTISTAParma prima metà del XVI secolo
Armarolo operante nella prima metà del XVI secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, III, 77.

BIOLZI ADRIANO Salsomaggiore 11 gennaio 1922-Grotta di Pellegrino 12 ottobre 1944
Partigiano, fece parte della 31a Brigata Garibaldi Forni. Fu decorato con la Medaglia di Bronzo al Valore militare.
FONTI E BIBL.: Caduti Resistenza, 1970, 67.

BIONDI ANTONIO Parma 1407
Figlio di Alberto. Fu immatricolato nel Collegio dei Notai di Parma nell’anno 1407.
FONTI E BIBL.: M. de Meo, in Gazzetta di Parma 12 aprile 1999, 13.

BIONDI ANTONIO
Parma 1447
Assieme al fratello Giovanni fu delegato dalla Comunità di Parma a quella di Milano nel 1447.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI BERNARDINO Parma 1660/1662
Appartenne al Collegio dei notai di Parma (anno 1660).
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI CORSINO, vedi BIONDI GREGORIO

BIONDI DAMASENO Parma XV secolo
Fu poeta di buon valore, attivo nel XV secolo.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 131.

BIONDI ENEA XVI secolo-Parma 1622
Successe quale archivista dell’Archivio Comunale di Parma all’Andreotti, morto in epoca non possibile a precisarsi per assoluta mancanza di documenti. Risulta che il Biondi nel 1606 cominciò a fare il regolare inventario, di cui aveva già preparato l’abbozzo nel 1603. Per l’età decrepita, fu d’uopo assegnargli un coadiutore, e questi fu Alberto Visdomini, impiegato alla ragioneria, che tenne il nuovo incarico fino alla morte del Biondi.
FONTI E BIBL.: G. Sitti, Archivio Comunale di Parma, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1914.

BIONDI FLORIANO Parma 1579
Si addottorò in leggi il 7 ottobre 1579.
FONTI E BIBL.: R. Pico, Appendice, 1642, 54.

BIONDI FRANCESCO
Parma 1610/1616
Miniatore, calligrafo e intagliatore, operante nella prima metà del XVII secolo. Nel 1610 ebbe una commissione per una carrozza intagliata.
FONTI E BIBL.: Il mobile a Parma, 1983, 254; E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, V, 66.

BIONDI FRANCESCO
Parma 1702
Fu alfiere nella milizia ducale di Parma e gonfaloniere della Chiesa nel 1702.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI FRANCESCO
Parma 20 gennaio 1828-post 1864
Figlio di Vincenzo ed Eleonora Cremona. Possidente, nel 1864 fu sottoposto a sorveglianza perché ritenuto reazionario.
FONTI E BIBL.: P. D’Angiolini, Ministero dell’Interno, 1964, 42.

BIONDI GAETANO
-Parma 1749
Fu ammesso nel Collegio dei Giudici di Parma nel 1705. Nel 1712 fu Lettore di Pratica Criminale all’Università di Parma ma nel 1714 assunse la nuova cattedra di Istituzioni e vi durò fino al 1749, anno in cui morì.
FONTI E BIBL.: F. Rizzi, Professori, 1953, 65-66.

BIONDI GIAN MARCO Parma 1561/1567
Laureato in legge e iscritto al Collegio dei giudici di Parma nel 1561, è ricordato per essere stato il secondo di quelli che fecero le Addizioni allo Statuto di Parma. Il Biondi il 9 gennaio 1565 fu nominato Auditore generale dello Stato di Castro, nel 1567 fu Governatore di Altamura e nello stesso anno fu decorato con le insegne di cavaliere aurato. Oltre a quelli già ricordati, ricoprì incarichi per conto dei Farnese nel Reno e a Sabbioneta e per l’Imperatore in Spagna.
FONTI E BIBL.: M. de Meo, in Gazzetta di Parma 12 aprile 1999, 13.

BIONDI GIOVANNI Parma 1447
Assieme al fratello Antonio fu delegato dalla Comunità di Parma a quella di Milano nell’anno 1447.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI GIOVANNIante 1776-Parma 5 luglio 1808
Sacerdote, dottore collegiato in sacra teologia, uomo assai pio, canonico teologo del Capitolo (1776), fu visitatore della diocesi di Parma sotto i vescovi Adeodato Turchi e Carlo Francesco Caselli. Sul finire del Settecento il Biondi pensò di erigere nella città di Parma un Pio Ricovero ove educare fanciulle orfane e povere e all’uopo acquistò e adattò un edificio in Borgo San Domenico, nelle vicinanze della parrocchia di Ogni Santi. Nel 1804 vennero ammesse nella Casa di Educazione, chiamata dal Biondi delle Margheritine, le prime zitelle orfane che furono poste sotto la direzione di Lucia Melli, che il Gabbi dice nubile parmigiana, uscita tre anni prima dal Conservatorio delle Maestre Luigine di Parma e di vita esemplare e lontana dai piaceri del lusighiero mondo. Il Biondi dotò la casa, oltre che dell’immobile, anche di una somma ragguardevole di denaro che consentì di garantire l’ospitalità a dodici Margheritine e dispose nel frattempo che l’istituzione fosse posta amministrativamente sotto il controllo del fratello Luigi Biondi mentre ne demandò l’assistenza spirituale al parroco pro tempore della parrocchia di Ogni Santi. Il Biondi dispose con testamento delle sue sostanze in favore del fratello Luigi e del nipote Vincenzo, con un prelegato in favore del primo di determinata parte del patrimonio stesso. Non si scorge dal testamento che il Biondi destinasse tale legato alla  Casa di Educazione da lui fondata ma la circostanza la si rileva esplicitamente dal testamento del fratello Luigi. Questi infatti il 18 aprile 1816, mentre nominò suo erede universale il nipote Vincenzo, legò varie somme e altri beni al Pio Ricovero di Povere Zitelle eretto dal Biondi con l’intento di esaudire quanto da lui verbalmente ingiuntogli e per il quale gli aveva lasciato un prelegato nel testamento.
FONTI E BIBL.: G.M. Allodi, Serie cronologica dei vescovi, II, 1856, 462-463; G. Trombi, Dall’Ospizio delle Orfane, 1963, 64-65.

BIONDI GIOVANNI MARCO
Parma-Madrid post 1550
Laureato in legge. Fu inviato quale ambasciatore del duca Ottavio Farnese a Madrid nell’anno 1550.
FONTI E BIBL.: R. Pico, Appendice, 1642, 40; V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI GIOVANNI VINCENZO Parma 21 gennaio 1502-Reggio Emilia 6 novembre 1551
Figlio di Marco. Fu ambasciatore a papa Paolo III e nel 1540-1542 podestà di Piacenza. Giureconsulto, in molte province rivestì onorevolmente le supreme magistrature. Fu iscritto al Collegio dei Giudici di Parma nel 1554 e fu Consigliere ducale. Compilò, assieme ad altri, le Addizioni agli Statuti di Parma.
FONTI E BIBL.: R. Pico, Appendice, 1642, 36; V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87; Epigrafi della Cattedrale, 1988, 142; M. de Meo, in Gazzetta di Parma 12 aprile 1999, 13.

BIONDI GIROLAMO
Parma 1541
Fu rettore nell’anno 1541 della chiesa di San Giorgio e del beneficio di Santa Maria nella Cattedrale di Parma.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI GREGORIO Parma 1631/1641
Sacerdote, detto Corsino. Basso alla chiesa della Steccata di Parma, vi fu eletto il 21 novembre 1631 e il 19 dicembre nominato tra i residenti. Lasciò la sua residenza del diaconato per occupare quella lasciata vacante da don Cesare Pezzali il 10 dicembre 1620. Per giuste ragioni fu sospeso dalla residenza il 20 settembre 1635, ma per riguardo alla madre inferma venne riammesso l’ultimo giorno di febbraio dell’anno 1636. Alla Steccata si trovava ancora alla fine di settembre del 1638. Qualche anno dopo, il 24 marzo 1641, il Biondi fu tra i musici della Cattedrale di Parma. Fu anche miniatore e calligrafo.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 93.

BIONDI INNOCENZO
ante 1561-Parma 1615 c.
Fu iscritto al Collegio dei dottori giudici di Parma nel 1555. Fu illustre giureconsulto e appartenne all’anzianato di Parma (10 settembre 1574). Fu uditore civile a Piacenza (1° luglio 1566), poi consigliere di grazia e giustizia e nel 1561 fu commissario ducale per la determinazione dei confini di Brescello. L’11 dicembre 1565 fu delegato presso la Corte di Ferrara per la soluzione della vertenza dei confini tra Parma e il Ducato di Modena. Fu tra coloro che fecero le Addizioni agli Statuti di Parma.
FONTI E BIBL.: R. Pico, Appendice, 1642, 39; V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 86; M. de Meo, in Gazzetta di Parma 12 aprile 1999, 13.

BIONDI MATTEO Guardasone 1553
Fu commissario ducale di Guardasone nell’anno 1553.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI ORAZIO Varano Marchesi 1540
Fu podestà di Varano Marchesi nell’anno 1540.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

BIONDI PELLEGRINO 1788-Cozzano 26 settembre 1846
Di fianco all’ingresso della chiesa di Cozzano è collocata una targa marmorea dedicata al Biondi, che fu sindaco e anziano per tre lustri nel suo Comune, valente in arti meccaniche, commendato per utili invenzioni, rapito a vivi il 26 settembre 1846, in età di anni 58.
FONTI E BIBL.: M. de Meo, in Gazzetta di Parma 22 aprile 1999, 34.

BIONDI PIETRO ANTONIO Torricella 1630
Fu podestà di Torricella nell’anno 1630 e il 28 dicembre dello stesso anno podestà di Torrile. Fu anche causidico.
FONTI E BIBL.: V. Spreti, Enciclopedia storico nobiliare, 2, 1929, 87.

-BIONDI RAIMONDO Parma 19 agosto 1913
Ingegnere. Profondo conoscitore d’arte, dotato di un gusto finissimo, il Biondi portò nella pratica professionale un senso di eleganza, che diede un’impronta personale a ogni sua opera. Sì che in breve tempo egli conquistò uno dei primissimi posti tra quanti con amore e valentia si interessavano a Parma di architettura e di arti belle. Chiamato nel 1913 dal Comitato Esecutivo per il Centenario Verdiano a presentare un progetto di padiglione per la Mostra Storica del Teatro, egli rispose all’onorifico invito creando un piccolo capolavoro d’arte e di buon gusto, che nel periodo delle esposizioni destò la generale ammirazione. Il Biondi non poté assistere all’inaugurazione del padiglione che aveva ideato, poiché spirò nello stesso giorno della festa inaugurale.
FONTI E BIBL.: Aurea Parma 3/4 1913, 166.

BIONDI VINCENZO, vedi BIONDI GIOVANNI VINCENZO

BIRRA, vedi MOLINARI GIUSEPPE

BISAGNI ANGELO Frescarolo 6 marzo 1891-Milano 8 marzo 1977
Nacque da famiglia economicamente modesta: nel 1914 la Commissione della città di Busseto concesse l’uso gratuito del Teatro Verdi per un concerto vocale e strumentale a favore del giovane Angelo Bisagni di questo Comune, alunno della scuola di canto, onde riceverne aiuto per compiere i suoi studi nei quali dà lusighiere speranze. La prima guerra mondiale interruppe i suoi studi e si dovette alla munificienza del concittadino Temistocle Orlandi se il Bisagni poté riprendere lo studio del canto a Milano con il mestro Giuseppe Mandolini. Debuttò l’11 novembre 1919 al Teatro Dal Verme di Milano nella Tosca. Anche se la sua carriera fu breve, cantò in buoni teatri e con successo. Nel 1921 fu a Mantova in due concerti vocali dati in sostituzione della stagione lirica e a Busseto cantò il 24 giugno 1922 al Teatro Verdi in un concerto assieme a Voltolini, Grandini e Federici. Nella stagione 1923-1924 fu, al Teatro Regio di Parma, Don José nella Carmen. Nel 1924 fu al Carlo Felice di Genova e al Teatro San Carlos di Lisbona in Lucia, poi a Montecatini (Teatro Trianon, Pagliacci) e al Petruzzelli di Bari in un’opera nuova di Alberto Consiglio, Guglielmo Oberdan, nella quale fu molto apprezzato. Nel 1925 fu ancora a Genova al Teatro Andrea Doria mentre l’anno dopo fu al San Carlo di Napoli nei Cavalieri di Ekebù di Zandonai e ne I carnasciali di Laccetti. Terminata la carriera, rimase a contatto con il mondo teatrale. La Pro Busseto gli affidò nel 1938 e 1939 l’organizzazione degli spettacoli lirici all’aperto.
FONTI E BIBL.: C. Alcari, Parma nella musica, 1931, 30; Amadei; Arnese; Biblioteca 70 n. 2; Frassoni; Giovine; G.N. Vetro, Voci del Ducato, in Gazzetta di Parma 7 marzo 1982, 3.

BISAGNO ANTONIO Borgo Taro-Vertice Salada 13 gennaio 1939
Figlio di Antonio. Sottotenente del 1o Reggimento Frecce Nere. Fu decorato con la medaglia d’argento al valore militare, con la seguente motivazione: Comandante di plotone fucilieri, già distintosi per valore e ardimento in precedenti azioni, durante un duro e sanguinoso combattimento, chiesto e ottenuto il comando di un reparto arditi, attaccava audacemente una forte e munita posizione nemica. Soggetto a violento fuoco, feriti o morti alcuni arditi, ferito lui stesso, con supremo sprezzo del pericolo si lanciava per primo all’assalto per trascinare con l’esempio i suoi uomini sulla posizione nemica. Una pallottola stroncava con la vita il suo nobile atto.
FONTI E BIBL.: Bollettino Ufficiale 1940, Disposizione 66a, 6181; Decorati al valore, 1964, 24.

BISCARO, vedi RISCARO

BISSIA ALESSIOPellegrino 1542/1543
Fu commissario di Pellegrino nel 1542-1543.
FONTI E BIBL.: A. Micheli, Giusdicenti, 1925, 8.

BISSIA PIETRO
ante 1257-Parma 1300
Fu canonico della Cattedrale di Parma (1257) e maestro delle scuole.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 132.

BISSOLI GIUSEPPE
Parma 1836/seconda metà del XIX secolo
Pittore, attivo nella seconda metà del XIX secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, X, 19.

BISSONE, vedi CARRA GIOVANNI BATTISTA

BISTOCCHI GIACOMO ANTONIO, vedi BISTOCCHI JACOPO ANTONIO

BISTOCCHI JACOPO ANTONIO
Parma 1544
Zecchiere operante nella prima metà del XVI secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, III, 76.

BITII FEDELE, vedi BIZZI FEDELE

BITTI CESARE
Parma seconda metà del XVII secolo
Pittore ornatista operante nella seconda metà del XVII secolo.
FONTI E BIBL.: E. Scarabelli Zunti, Documenti e Memorie di Belle Arti parmigiane, VI, 32.

BIXITI, vedi BOCETI

BIXOLO Parma 1208
Fu ingrossatore della Comunità di Parma nell’anno 1208.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 133.

BIZZI EMMA, vedi AGNETTI EMMA

BIZZI FEDELE Parma 1569
Pittore d’ornati, attivo nel 1569.
FONTI E BIBL.: P. Zani, vol. IV, parte 1a, 77; E. Scarabelli Zunti, vol. IV, cc. 82-83.

BIZZI LODOVICO Parma 4 ottobre 1852-Gaiano 23 maggio 1917
Figlio di Gaetano e Maria Petitbon. Laureatosi in ingegneria al Valentino di Torino nel 1875, si recò poi all’estero ove rimase per circa un decennio. Tornato a Gaiano, si dedicò per il resto della vita alla coltura dei suoi campi nei quali introdusse metodi di coltivazione affatto nuovi, dei quali aveva potuto studiare e sperimentare l’efficacia nei paesi da lui visitati.
FONTI E BIBL.: U. Delsante, Dizionario dei collecchiesi, in Gazzetta di Parma 18 gennaio 1960, 3.

BIZZOSSI, vedi BESOZZI

BIZZOZERO ANTONIO
Sant’Artien 8 ottobre 1857-Cles 15 novembre 1934
Compiuti gli studi medi, si iscrisse alla Scuola Superiore di Agricoltura di Milano, nella quale si diplomò. Si dedicò quindi alla sperimentazione e all’insegnamento nella Scuola Agraria di Lonigo (Vicenza), distinguendosi subito per le sue doti organizzative, per l’impegno, per la competenza, non disgiunti da una forte carica umana, da abilità oratoria e dalla facilità nello scrivere. Il Bizzozero seguì un corso di studi segnato dall’interesse per l’agricoltura e per l’applicazione in questo campo di nuove tecniche di conduzione e di coltivazione. Perito agrimensore, continuò gli studi sino a conseguire la laurea in scienze agrarie e poi iniziò a insegnare scienze naturali, alternando questa attività a un’intensa propaganda nei territori della provincia trevigiana e in quelli delle province di Vicenza, Padova, Verona e Rovigo. Quando, per iniziativa dell’ingegnere Cornelio Guerci, consigliere della Cassa di Risparmio di Parma, e dell’ingegnere Celestino Ponzi, presidente della Deputazione provinciale, fu deciso di istituire a Parma una cattedra ambulante di agricoltura, sul tipo di quella già funzionante a Rovigo, fu chiamato a dirigerla, dietro suggerimento del direttore di questa, il professor Tito Poggi, il Bizzozero. Quella di Parma fu la seconda cattedra ambulante italiana dopo quella di Rovigo, sorta nel 1886. Era il 1892 e il Bizzozero si gettò con entusiasmo nel nuovo incarico. Visitò tutta la provincia, raggiungendo a dorso di mulo e a piedi i più sperduti paesi dell’Appennino, scendendo nella Bassa, risalendo la collina, entrando nella risaia. Ebbe modo così di farsi un’idea precisa della situazione dell’agricoltura nella provincia, e anni dopo ricordò: Mi feci così un concetto di quella che era l’economia agraria del Parmigiano: una economia assai povera sull’Appennino, ove le pecore e un bestiame bovino a taglia ridottissima, con qualche appezzamento coltivato a grano, a scandella, o a patate, con magri pascoli, con le castagne, costituivano le sole risorse di quei poveri montanari, costretti in parte a emigrare, o stabilmente o temporaneamente, per campare la vita e per essere di aiuto alle loro famiglie; meno povera sui monti e giù giù sino alle colline, ove si era diffuso il vigneto e dove i cereali fornivano un discreto prodotto, sebbene pur sempre basso in confronto a quello che molti ottengono oggi; dove il bestiame bovino di razza parmigiana, di media taglia, forniva il lavoro e poco latte, perché sempre scarsa era la produzione foraggiera e mancante l’acqua per l’irrigazione; migliore nella pianura, ove il bestiame bovino, per la maggior parte di razza locale, a mantello rosso e a triplice scopo, produceva una discreta quantità di latte che alimentava l’industria del caseificio per la produzione del formaggio da grattugia, detto Grana, o Parmigiano, avendo avuto la sua culla nel territorio degli ex Stati parmensi. E nella pianura, dove ancora si alternava il granoturco col frumento, c’era un po’ d’acqua per l’irrigazione, che serviva a una scarsa bagnatura dei prati stabili e a una insufficiente irrigazione della risaia che occupava una buona parte della bassa pianura. Appunto per la poca acqua disponibile, che si muoveva a stento e quasi ristagnava, era sorta e si era diffusa la malaria che faceva le sue vittime in molti Comuni. Questa era la situazione trovata dal Bizzozero, il quale ebbe modo di notare che pressocché sconosciuto era l’uso dei concimi chimici (solo circa due o tremila quintali di consumo annuo), che non vi erano aratri di ferro né erpici trituratori né vagli cernitori e che la pellagra non concedeva tregua ai lavoratori agricoli. L’impegno del Bizzozero consisteva nel ricevere gli agricoltori in ufficio per i pareri richiesti e nel tenere conferenze pubbliche in tutti i comuni della provincia. I suoi compiti prevedevano altresì la conduzione di campi sperimentali e dimostrativi e la pubblicazione di un periodico contenente norme di comportamento tecnico per gli agricoltori, mensile che conserva la stessa testata, L’Avvenire agricolo, che gli diede il Bizzozero. Il piano d’azione del Bizzozero si sintetizzava in precisi obiettivi, che lui stesso indicò: migliorare gli uomini; migliorare la terra; migliorare tutto il bestiame agricolo; migliorare le piante e difenderle dai loro nemici; incoraggiare il sorgere e il perfezionarsi di industrie che i prodotti del suolo lavorassero e presentassero bene sul mercato. La prima grossa realizzazione del Bizzozero fu il Consorzio Agrario, che iniziò l’attività nel 1893 con lo scopo di acquistare per distribuirli ai propri soci e agli agricoltori in genere, concimi, attrezzi, macchine, merci, scorte vive e morte, occorrenti all’esercizio dell’agricoltura e al consumo delle famiglie coloniche; vendere i prodotti agrari dei soci e degli agricoltori in genere, aprire in provincia e fuori d iessa appositi spacci per la vendita dei prodotti agrari, partecipare con altre società e con privati al commercio per la vendita all’interno e per l’esportazione dei prodotti agrari; stabilire laboratori od opicici per la lavorazione di prodotti agrari; facilitare le operazioni di credito agrario dei propri soci; fabbricare merci e prodotti occorrenti all’esercizio dell’agricoltura e delle industrie affini; fare esperimenti, istituire scuole nell’interesse dell’agricoltura; esercitare assicurazioni agrarie nei limiti della provincia; contribuire, infine, nei modi che si giudicheranno più adatti al miglioramento dell’agricoltura e al benessere delle classi lavoratrici. La prima sede del Consorzio fu ricavata nelle sale della cattedra ambulante e il primo magazzino in una catapecchia vicina alla ferrovia. I soci che aderirono all’invito lanciato da Cornelio Guerci, Antonio Pelagatti, Carlo Spreafichi, Quinzio Ugolotti e Guido Vighi, per il primo anno furono 141. Il primo presidente del Consorzio fu Emilio Osenga, presto sostituito da Achille Puccio. Piano piano, ma con fare sicuro, il Consorzio allargò la sua attività e aprì nuove sedi in provincia. Nel 1897 furono inaugurate le succursali di Busseto, Colorno, Sala Baganza e Soragna, nel 1898 fu la volta di Roccabianca, l’anno successivo di Borgo Taro, Sissa e Zibello. Nel 1901 il Consorzio si estese a Langhirano e a Pellegrino Parmense, nel 1902 aprì una succursale a Fornovo di Taro, nel 1904 sedi del Consorzio furono inaugurate a Noceto e a Collecchio, nel 1905 a Basilicagoiano, nel 1907 a Sorbolo e nel 1908 a Fontanellato. I soci salirono a 840 nel 1898, a 1348 nel 1903 a 1755 nel 1908, a 1878 nel 1913, a 2751 nel 1918 e a 3726 nel 1923. Il giro delle vendite effettuate dal Consorzio, che copriva circa il novanta per cento delle richieste della provincia, indica una costante crescita, a testimonianza tanto della sua aumentata capacità di far fronte a nuove esigenze, quanto delle modifiche intervenute nell’agricoltura parmense. Nel 1893, il primo anno d’esercizio del Consorzio, furono venduti 287 quintali di perfosfato d’ossa, 1877 quintali di perfosfato minerale, 2582 quintali di scorie Thomas, 27 quintali di nitrato di soda, 229 quintali di nitrato di potassio, 880 quintali di gesso, 246 quintali di zolfo, 27 quintali di solfato di rame, 146 quintali di frumento da seme e macchine agricole per un valore di 130 lire. Dieci anni dopo il Consorzio chiuse l’esercizio annuale con queste vendite: 2103 quintali di perfosfato d’ossa, 54802 quintali di perfosfato minerale, 16137 quintali di scorie Thomas, 2562 quintali di nitrato di soda, 8270 quintali di gesso, 1526 quintali di zolfo, 2185 quintali di solfato di rame, 1420 quintali di frumento da seme e macchinari per un valore di 65306 lire. Nel 1913 il Consorzio toccò come vendite il tetto dei 3 milioni e 270 mila lire. Negli stessi anni il Bizzozero lanciò e sostenne l’ambizioso progetto di riunire la miriade di latterie in organismi cooperativi. Già la sostituzione della razza indigena con una razza specializzata nella produzione di latte, la razza bruna alpina, avvenuta sul finire del secolo precedente, aveva migliorato la qualità del prodotto facendo ancor più comprendere i vantaggi che sarebbero derivati da una associazione di produttori. Negli anni che vanno dal 1898 al 1906, specialmente nella zona della collina, in quella lungo il Po e in montagna, dove la proprietà era più frazionata, si costituirono le prime latterie sociali. Sorsero la Società Produttori di Mezzani, la Latteria di Zibello, la Società di Bazzano, la Bolognina di Noceto, la Latteria Sociale di Sissa e Palasone, la Val Padana di Colorno e altre vennero formate nel Bussetano, raggiungendo la ragguardevole cifra di trenta latterie sociali. Il criterio che guidò l’attività delle latterie sociali consistette nell’apporto del latte al caseificio sociale per la trasformazione collettiva del prodotto, la vendita dei prodotti ottenuti e, a fine esercizio, il riparto del ricavo, depurato dalle spese di gestione e diviso in base alla quantità di latte portata. Il Bizzozero inoltre contribuì a diffondere la coltivazione della barbabietola da zucchero per consentire la nascita dell’industria saccarifera. Sviluppò altresì il credito promuovendo le casse agrarie, come punto di collegamento tra Cassa di Risparmio e mondo agricolo, onde allargare l’apporto di capitali all’azienda, necessario per accompagnare le innovazioni che egli stesso proponeva. Il Consorzio e la rete dei caseifici sociali, dove il Bizzozero fece tenere da un esperto dei corsi per la lavorazione del formaggio parmigiano, rimangono le due più significative affermazioni della sua opera, che non cessò mai di adoperarsi perché progresso e cooperazione fossero i principi informatori della vita e del lavoro delle campagne. La concreta e ampia esperienza di tecnico e di organizzatore portarono il Bizzozero ben presto alla ribalta nazionale come coordinatore e promotore di altre cattedre ambulanti e delle iniziative connesse. Nonostante questa sua imponente affermazione, rifiutò sempre incarichi anche prestigiosi che gli venivano offerti altrove, non intendendo rinunciare al completamento della sua opera a favore dell’agricoltura parmigiana. Nel 1929, a 72 anni di età, fu colpito da grave malattia e dovette lasciare gli incarichi più gravosi rimanendo direttore a honorem del Consorzio Agrario con una congrua pensione a vita. Negli ultimi anni della sua vita si ritirò a Clès (Trento), presso la sorella, dove morì. Alla sua morte, lasciò la fondazione che porta il suo nome. Le spoglie del Bizzozero riposano nella cappella di famiglia nel cimitero di Padova. La sua opera fu poi proseguita da un vivace gruppo di allievi che il Bizzozero ebbe il merito di curare e la costanza di seguire fino alla morte.
FONTI E BIBL.: B. Molossi, Dizionario biografico, 1957, 30; U. Sereni, Il movimento cooperativo a Parma, 1977, 237-240; Per la Val Baganza 2 1978, 28; Parma Economica 3 1984, 7.

BLACHE GIACOMO-Parma 31 luglio 1794
Fu violinista della Reale Camera di Parma. Cominciò a servire il 1° marzo 1769 con l’assegno di lire 5000 e lire 1000 di pensione. Più tardi fu nominato prima professore di violino della Reale Orchestra e poi dal Duca vice direttore della stessa, continuando a prestare i suoi soliti servigi. Nel 1791 era violino in proprietà del Reale Concerto di Parma. Il 25 dicembre 1792 fu nominato sostituto di Angelo Morigi, primo violino e direttore della musica istromentale, quando questi non suonerà (Archivio di Stato di Parma, Decreti e Rescritti).
FONTI E BIBL.: Archivio di Stato di Parma, Ruolo, A, 1, fol. 130 e Ruolo, B, 1, fol. 473; Calendario di Corte per l’anno 1791, 192; H. Bédarida, Parme et la France de 1748 a 1789, Paris, 1928, 490; P.E. Ferrari, Gli Spettacoli in Parma, 91; N. Pelicelli, Musica in Parma, 1936, 202.

BLACHI BENEDETTO Parma XVI secolo
Fu frate e cronista, attivo nel XVI secolo.
FONTI E BIBL.: F. da Mareto, Indice, 1967, 133.

BLANCARDO UGOLOTTO, vedi BIANCARDO UGOLOTTO

BLANCHI GIUSEPPE, vedi BIANCHI GIUSEPPE

BLANCHON GIACOMO, vedi BLACHON JACQUES

BLANCHON JACQUES Saint Chaffrey 22 aprile 1752-Parma 11 gennaio 1830
Libraio e stampatore, tenne bottega in Piazza Grande a Parma, che fu un notevole centro di diffusione culturale. Ebbe una figlia, Amelia, che andò a sposa a Francesco Giraud, nipote del Blanchon. Nel 1805 chiese a Pietro De Lama, per conto di Francesco Rosaspina che stava ritraendo i maggiori incisori, se Massimiliano Ortalli o altri collezionisti locali possedevano ritratti di incisori. Nel 1812 stampò la Nuova teoria di musica del Gervasoni.
FONTI E BIBL.: Archivio Storico per le Province Parmensi 1 1892, 90; 6 1897, 67; 9 1909, 134, 192, 220, 229; 13 1913, 115, 121, 122, 123, 176; 16 1916, 429; 28 1928, 299; 31 1931, 276; 5 1940, 148; 14 1962, 294 (carteggio col Pezzana: 1805-1815); Dizionario editori musicali, 1958, 30; F. da Mareto, Bibliografia, II, 1974, 126; M.G. Arrigoni Bertini, Lettere di Pietro De Lama, in Archivio Storico per le Province Parmensi 1986, 352; Valli Cavalieri 14 1995, 12.

BLANCO GERARDO, vedi BIANCHI GERARDO

BLANCON, vedi BLANCHON

BLEMINIO SIGEO, vedi BERTUCCI ODOARDO

BLONDI CRISTOFORO Parma 1620
Sacerdote, fu cantore alla Steccata di Parma, accettato per un solo anno il 4 luglio 1620.
FONTI E BIBL.: N. Pelicelli, Storia della musica in Parma, 1936.

BLONDI PAOLO
Ranzano 1891-Ranzano 1929
Figlio di Luigi e Luigia Piazza, partecipò come fante alla 1a guerra mondiale, riportando gravi ferite. Fu decorato con la medaglia d’argento al valore militare, assegnata per atti che trascendevano il normale senso del dovere. Questa è la motivazione della medaglia d’argento concessa dal Ministero della Guerra: Giunto tra i primi a occupare un crestone di roccia, benché ferito, rimaneva a far fuoco contro l’avversario, fino all’arrivo della propria squadra. Monte Nero, 19 luglio 1915.
FONTI E BIBL.: Gazzetta di Parma 26 ottobre 1991, 16; Valli Cavalieri 14 1995, 24.

Teca Digitale Biblioteche del Comune di Parma - V.lo Santa Maria 5, 43125 Parma (PR)

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